Persona
Floreani, Adelia
- Nascita
- Luogo:
- Treppo Grande (Udine)
- Data:
- 30 aprile 1913
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- Gomitolatrice
- Biografia / Storia
- Non so la geografia com’è: il mondo è tutto lì davanti a me!
Adelia, Treppo Grande (Udine), 1913
E’ molto triste la mia infanzia... E’ venuta la guerra e noi siamo subito rimasti prigionieri degli austriaci perché ci sono tutte colline nel mio paesetto e loro andavano sempre dov’erano più sicuri. E lì, nel nostro cortile, c’erano tante case ... noi eravamo i primi e eravamo anche i più poverini. Non si aveva tanta campagna... proprio eravamo poveri, pieni di figli e gli altri invece avevano qualcosina di campagna e anche delle bestie. C’erano tre fratelli prima di me - l’Aniceto, la Alma e la Gise - e poi altri tre dopo di me.
Sono del ‘13 e andare al ‘18, immaginate quanti anni avevo con questa guerra, però un tre-quattro cose sono talmente limpide ai miei occhi... è una fotografia per me. Questi austriaci erano i nostri nemici, ma avevano tanta di quella fame come ne avevamo noi... Si erano impossessati di tutte le nostre camere e noi ci hanno buttati tutti in una camera. Ho un ricordo che non mi va via e, quando parlo, lo vedo. Ero piccolina e una sera vedo dalla finestra, perché tende non ce n’erano, un austriaco tutto magrolino che, facendo segno così, chiede: “Pizz i polenta!”1 La mamma: “Non abbiamo niente... i bambini hanno le budelle che fanno glu glu e non riescono a dormire perché non hanno mangiato!” E questo aveva i lacrimoni che gli venivano giù... come una doccia che però allora non sapevo cos’era. Proprio i lacrimoni che venivano giù dalla fame e dalla disperazione. Erano proprio presi dalla fame anche loro.
Un altro particolare: dove vivevo le case proseguivano da una famiglia all’altra e dietro ognuno aveva il suo orticello e c’era un cancelletto che bisognava passare tutti di lì. Per aprirlo e per chiuderlo c’era una cordicella con una pietra grossa così... ma non rimaneva aperto... si richiudeva. Quando sono arrivati i bersaglieri, piccolina com’ero, ho tenuto il cancello aperto... Non so, nella mia vita, se dopo ho ricevuto tante carezze: ognuno che passava mi dava una carezza... e quello non mi va via dalla testa.
Sono andata a cercare la carità praticamente, perché si aveva un sacchettino così per cercare un po’ di farina... c’era mio fratello più grandicello di me, Aniceto, che era del ‘9. Si andava giù per questa palude che hanno trovato tante bombe... Queste donne ti davano un po’ di farina, ma così! Ce ne sarà stato un cucchiaio e lo mettevano dentro... Una cosa mi è rimasta impressa, ma talmente impressa! Si vede che era già passato il mio povero fratello con degli altri amichetti... eravamo tutti piccoli così!... viene una matrona sulla porta di casa. Un profumino di mangiare c’era! Una cosa che faceva venire l’acquolina in bocca! Lei, con le mani sui fianchi:
“Hai fame?”
“Tanta fame!”
Aveva fatto cuocere dei fagioli e non so se a lei è capitato di far attaccare i fagioli al fondo della pentola... è come il chinino, così amaro! Lei ha preso tutta quella crosta dal fondo della pentola e mi ha dato una scodella: “Mangia!”
Mi andava fino a qui e poi non andava giù. Bruciava.
“Se hai fame devi mangiarlo!”
“No... non ce la faccio!”
Tutte le volte che sono andata al castello di Colloredo di Monte Albano - lì in fondo hanno ristrutturato, non è più così - io vedo sempre quel cancello e vedo sempre quella donna là... E’ un ricordo triste questo. Non l’ho mai odiata quella donna, ma non riesco a dimenticarla...
Di fame ne abbiamo fatta tanta! Il papà non ha fatto una grande guerra perché aveva tanti figli piccoli, però era via anche lui a fare le trincee... Undici figli ha fatto e dieci son vissuti, tanti! Ne ha fatti undici perché la prima era morta, ma dieci li ha cresciuti, nella miseria. E abbiamo dovuto tutti andare per il mondo a guadagnarci un pezzo di pane, eh! Mi ricordo, quando vedevo arrivare il postino... che c’erano queste sorelle che erano a Pollone, che poi dopo sono venute qui a Tollegno, allora nella lettera mettevano qualche lira. Quelle lire lì mi venivano tanto bene perché poi andavo al mulino a prendere la farina.
L’ultimo figlio è nato nel ‘21. Ha messo la mamma in brutte condizioni. E’ rimasta paralizzata praticamente. Per il parto, perché era grosso questo fratellino. Io ho fatto da mamma.... L’Aniceto era già andato via anche lui, a aiutare qualcuno in campagna. La mamma a letto... Il papà andava proprio nelle paludi... Buttava giù le piante e c’erano radici grosse da sradicare. Portava la carriola al mattino quando andava. Io andavo a portargli da mangiare e mi metteva sulla carriola delle radici, di questa fatta!, e la strada era tutto saliscendi. Una cosa tremenda! Avevo muscoli qui come quelli degli uomini! Sempre in salita. Facevo una fatica! Portavo a casa questo legno e, batti e batti, li tiravo tutti a pezzettini. Lo mettevo da parte a seccare un po’... e mi veniva da piangere quando lo adoperavo perché vedevo che si abbassava la “tassa”2 del legno!
Quando sono andata in Francia a fare i mattoni avevo otto anni e mezzo, nove li ho compiuti laggiù... Prima della guerra papà era già andato in Jugoslavia perché l’Angelina e l’Arrigo sono nati là... nel 1905. Si è deciso di andare in Francia a fare mattoni.... Hanno cominciato questi friulani, si radunavano e c’è sempre quel contadino che è un pochino più ricco e, essendo più ricco, ha anche più possibilità e ... sono diventati padroni dello stabilimento - il Privilegio - erano tanti fratelli, tutti insieme. Il papà ha detto: “Prendo l’Aniceto e prendo anche te così vieni a lavarci il fazzolettino, le calzine...”
Siamo arrivati a Strasburgo dove c’era questo Privilegio. Lì facevano i mattoni e li cuocevano. C’erano tante piazze - le chiamavano così - ed erano più grandi di questa stanza. Le davano per gruppo familiare. Per esempio al papà ne hanno date 4 o 5. E avevamo anche 4 o 5 fosse. Le fosse contenevano la malta, la specialità per fare i mattoni. Sopra c’erano i macchinari che lavoravano la malta. Si vede che era una terra proprio adatta. Poi la malta veniva giù e una quantità era destinata a F. Giuseppe, che sarebbe stato mio papà, e le altre agli altri. Riempiva queste vasche e veniva fuori l’acqua. Quando era tutta fuori l’acqua, la malta era buona per fare i mattoni. Poi c’era un tavolaccio grande, lo chiamavano il “desco”. Il mio povero fratello, l’Aniceto, prendeva la malta dentro quella fossa... Era una faticaccia e una volta, poverino, gli era venuto male. Lui aveva quattro anni più di me, ma mi coccolava! Poi mi difendeva! C’erano dei ragazzi che dicevano: “Eh!...” e lui: “Se me la tocchi!” Ah, caro, mi difendeva! Io non sapevo perché mi voleva difendere... dopo l’ho capito! Portava la malta su con la carriola e il papà la prendeva e la metteva negli stampi... un colpo lì e un colpo lì e rimanevano due bei mattoni! Io prendevo questi stampi e andavo a portarli lontano. Dovevo sempre piegarmi, girarli per terra, mettere la sabbia per asciugarli e prepararli per il papà! E la fame che avevo! un appetito! Vedevo la meridiana... l’ora l’ho conosciuta proprio così perché di orologi non ne aveva. Man mano che veniva giù il sole dicevo: “Quando arriva lì... suona la campanella, così andiamo a mangiare!”
C’erano le mogli di quelli che lavoravano lì - tutti friulani - che facevano il minestrone, il brodo e poi tiravano su pezzi di bollito, grasso e magro... con le mani tutte piene di quella malta... non ha importanza! Veniva la signorina a portare il pane, che lo chiamavano il brut. Pagnotte così grosse, lo mettevo qui sotto l’ascella, come gli uomini, e tiravo via delle fettacce... con un pezzo di bollito in mano e, avanti!, mangiavo con un appetito! Perché lavoravo, lavoravo. Smaltivo tutto il lavoro che preparava lui. Più si faceva e più si guadagnava. All’alba lui mi veniva a svegliare. Faceva “Auff! Auff!” - che lo sento ancora. Era ora di alzarsi, ma presto... era ancora l’alba che bisognava incominciare. Si lavorava e poi suonava la campanella per mangiare il caffelatte. Si incominciava ben presto perché imbruniva prima e bisognava smettere. Bisognava approfittare della luce del giorno.
Quando alla sera avevamo fatto tutta questa piazza, non era finito lì. Bisognava alzare i mattoni sulle stagére3 perché si asciugassero anche sotto. Bisognava fare due volte questo lavoro. L’indomani si incrociavano perché passava l’aria e si asciugavano di più. Poi, quando era il nostro turno, venivano a caricarli e li portavano nel forno. Il risultato era che erano belli. Mi facevano sempre i complimenti perché erano dritti, non erano storti e non c’era mai lo scarto. Forse ero la più piccola, la più attenta, avevo più voglia di far bene... Non ha mai avuto uno scarto, povero papà! Però non siamo divenuti milionari per niente!
C’era un uccellino che faceva: “Cip, cip!” e a me sembrava che dicesse in friulano: “A ciasa, a ciasa a pit!”4, cioè mi diceva: “Devi lavorare, Adelia, perché se no ci tocca andare a casa a piedi!”
Il viaggio per andare lì l’abbiamo fatto in treno. Fino a Tarcento siamo andati a piedi, un bel gruppo eravamo! Abbiamo quasi riempito tutta la vettura di friulani! Strada facendo - non era asfaltato e c’era la polvere alta così - ho trovato un paio di occhiali. La mamma ha detto: “Misericordia di Dio, ma che grazia mi hai fatto Adelia a trovarmi questi occhiali!”, perché non avevano i mezzi per comprarli e per lei era già ora di metterli! Anche questo è un ricordo che non mi va via! Salutare la mamma mi ha fatto una pena!
Arrivati a Strasburgo, hanno scaricato tutti questi bagagli... io avevo una bella valigetta di legno. Il baule era più pesante di me e avevo tutti i lividi sulle gambe perché picchia e picchia... Era pieno di salami, di lardo, di formaggio. Mi trovo nella stazione di Strasburgo, grandissima. “Oh Dio!” - ho detto - “Ma invece di essere muri qui son tutti vetri!” Papà con altri quattro - cinque si son presi la loro birra, bevevano: “Lasciamo smaltire tutti alla dogana e poi passiamo noi!” Quando passa al controllo del passaporto: “E la figlia dov’è?” Non mi trovava... Io, per fortuna, vedo tutto questo frambusto5, salto fuori: “Son qua!” Lui, poverino, mi ha preso per le mani così, tremava. Aveva paura anche a lasciarmi andare dopo! Arriviamo al Privilegio - credo ci fosse un trenino. Ero stanca, stanca, era notte! C’era un canale grande che portavano dei barconi, tutti trainati da cavalli. Servivano per caricare questi mattoni, era l’unico mezzo: non c’erano camion o niente. Soltanto il carro del Privilegio con dei cavalloni che sembravano quelli della Menabrea6! Al Privilegio c’erano delle camerette e avevano fatto delle brande con quattro-cinque assi, così... alla meglio. Ci hanno dato a tutti un sacco: “Riempitelo di paglia!” E quella paglia!...Quella puzza di umido, di cavallo! Me la ricorderò sempre! Mi sono riempita il mio bel materasso... c’era il letto del povero papà per così, il mio così e mio fratello lì... Su quel materasso di paglia dormivo come un ghiro, fino al mattino!
Servizi non ce n’erano, nemmeno in comune...si andava nella campagna, dove veniva bene... Non mi ricordo di avere avuto dell’acqua da tirare, no, no, era tutto alleluja!
Per lavorare bisognava mettere un grembiule di tela un po’ pesante perché a forza di appoggiare i mattoni si logorava facilmente... dovevo fare una pezza e poi un’altra pezza e cucire, cucire sempre lì!
La domenica questi benedetti uomini si trovavano e andavano a bere in una birreria che si vedeva dalla finestra. C’era sempre il cavallo che portava un carro grande, tutto con la sabbietta, quella fine fine che si metteva nello stampo per asciugarlo. Gli uomini facevano in fretta a scaricarlo, buttavano giù... Io la domenica con la pala scaricavo tutto questo ben di Dio da sola! Adesso che son tanto paurosa penso: “Come ho fatto?” Ero talmente sicura di me, talmente convinta che dovevo farlo che non ho mai avuto paura di essere sola in mezzo a quel deserto, perché era un deserto la domenica dopo pranzo! Adesso i camion li ribaltano, allora invece con la pala, e tuc e tuc. Avevo dei bei capelli, tanti, e la sabbia mi era rimasta sopra la testa.... non riuscivo a pettinarmi... “Oh mamma, mamma!” L’ho chiamata talmente forte! E’ l’unica volta che ho pianto. L’unica volta.
Si faceva la stagione... siamo andati a marzo ed era novembre quando siamo ritornati. I friulani erano tutti una famiglia sola. No, non ho mai visto una rissa, non ho mai sentito un rimproverarsi. Sempre uno a prendere le difese dell’altro e aiutarsi... Era un vivere insieme talmente bello. E queste donne, capisce, mi trattavano... ero un po’ la loro mascotte. “Mandi7, Delia!” Ma poi dopo “Mandi, Delia!” era “Aggiustati da te!”
Vivevo così bene! Povero papà, lui diceva: “Oh, con quel sole!” Quel sole picchiava e una domenica dice: “Andiamo a prenderti la cappellina!” Ma costavano tanto care! Mi faceva camminare dappertutto nelle strade della città, ma quella cappellina non si trovava mai... perché costava troppo! Erano belle! Bisognava prenderne una come si prendevano nel Friuli: più piccoline e fatte alla buona.
Io desideravo quelle che erano tanto belle in vetrina e il povero papà mi prendeva per mano e diceva: “Andiamo da un’altra parte!” Non ho mai potuto avere quella cappellina in testa. Mai.
Arriviamo a casa e so che con quello che abbiamo potuto portare era più facile andare a comperare la farina e tutto. Su per le salite per andare a Treppo c’era il fornaio che faceva quel pane con quel buon odore... non so quanta strada avevamo ancora da fare e si sentiva quel profumo di pane! Adesso quando portano il cesto del pane prima si sente l’odore delle ascelle e dopo si sente il pane...
Non siamo più partiti fino a marzo di nuovo. Due mie sorelle, la Antenisca e la Angelina erano venute qui a lavorare da Piacenza a Pollone. Un’altra mia sorella, Ada, - che sarebbe stata la prima di loro tre, aveva dodici anni più di me e perciò era una signorina - ha detto (penso che sia stato un destino): “Voglio andare con papà, la Delia e l’Aniceto. Voglio andare anch’io al Privilegio!” Era una bella ragazza! Ce n’erano che la guardavano! E poi ballava tanto bene! Alla birreria c’era un ballo e c’era uno di Tavagnacco, proprio, che la faceva ballare. Era una coppia bella da vedere! Io allora avevo dieci anni... ero orgogliosa di questa sorella che ballava bene!
Passa l’estate e viene l’ora di venire di nuovo a casa.... Lei dice: “Ho saputo che c’è una nostra cugina a la Tour-du-Pin” - Era con le suore lì a la Tour-du-Pin, vicino a Grenoble, perché c’era una fabbrichetta - “Se posso andare con la Emma...” Questa Emma era amica con mia sorella, penso che erano quasi della stessa età. Questa Emma era al Privilegio con degli zii e aveva un fratellastro alla Tour-du-Pin con degli altri zii... C’era tutta una storia perché la sua mamma aveva avuto questo figlio prima di sposarsi e quello che doveva sposarla è morto. E’ rimasta con questo figlio... Un disonore, lì a Tavagnacco! Poi aveva avuto questa Emma, ma quando è nata lei è morta la mamma e allora è vissuta con gli zii...
Sono andata anche io con loro. Lì c’era una filatura... Mia sorella con questa Emma vanno dalle suore, parlano di questo fratello... che la Emma vuole conoscerlo perché non si sono più visti da piccolini... Questa suora si dà da fare a trovarlo... C’era un piccolo salottino... l’ho visto arrivare dal portone. Un giovanottone! Per mia sorella è stato un colpo di fulmine! In tre mesi si sono sposati. Adesso stanno a Thionville. Noi si mandava i mattoni anche a Thionville, perciò mi sono rimasti impressi questi nomi.
A scuola non sono andata. Non ho potuto andare a scuola perché avevo la mamma malata e questi piccolini... l’ultimo che era pesante e lo portavo così, ma era tanto carino! E l’ultima mia sorella che era una piagnucolona: bastava che l’avessero soltanto guardata e arrivava a casa strillando! Questi poveri piccolini che, quando nascevano, li legavano tutti come mummie, bisognava fasciarli tutti. Un ricordo che mi fa ancora venire i brividi adesso: avevo sul tavolo l’ultimo fratello che lo fasciavo e arriva questa che piangeva... piangeva per niente, l’avessero almeno graffiata, ma no! Ho smesso di fasciare questo poverino per vedere questa e mi è caduto giù! Un bernoccolo così! Che paura!
Non so se ho visto mia mamma fare la polenta un dieci volte perché non ce la faceva! Si doveva andare a prendere il latte lontano, lassù fino alla chiesa grossa che c’era la latteria. Si partiva sempre scalzi e le unghie dei piedi erano tutte partite. Le strade tutte con le pietre, si andava di fretta e patatrac! C’era la polvere che faceva da disinfettante. Tutta polvere rossa e guariva la ferita di sotto. Bisognava andare a prenderlo la sera, appena munto, prima che lo mettessero via per fare il formaggio... e al ritorno, dalle case con le finestre aperte, un profumo di polenta! E si sentiva: “Ave Maria, gratia plena...” Dicevano il rosario mentre facevano la polenta. Eran stanchi, perché la terra è proprio bassa, lavoravano, povera gente! Erano tutti così! Era bello, così bello! Quell’armonia che forse adesso non c’è più.... e ho dovuto lasciarla.
Alla scuola ogni tanto insegnavano a fare un punto dietro l’altro, punto a macchina si diceva. Lo sapevo dalle altre che lo facevano e dicevo:
“Mamma, (v)ué e cusin a scuéle!”8.
“Vai, vai una mezz’oretta, vai Adelia mia!”
Hanno calcolato che fra prima, seconda e terza avrò fatto in tutto tre mesi di scuola, ma una volta il maestro ha dato un tema sulla polenta... erano tutte figlie di contadini ma la polenta non l’avevano mai fatta. Allora mi ha fatto alzare e ho spiegato come si faceva la polenta... e lui ha detto: “Questa è proprio una vera massaia!” Mi ha fatto i complimenti. Si chiamava Attilio Moretti. Eh, mi ha fatto i complimenti! Come ho fatto a imparare a leggere e a scrivere, non lo so. Quello che mi dispiace è che non so Nord, Sud, Ovest, Est... per me è tutto davanti a me, tutto il mondo davanti a me. Ecco io lì vedo il Friuli... è tutto lì davanti... Non so la geografia com’è...
La Valentina, la figlia del dottore, mi diceva sempre:
“Se fossi andata a scuola, Liubina!” - mi chiama Liubina - “Se fossi andata a scuola, allora...”
“Taci, taci Valentina, per l’amor di Dio!”
Forse perché non potevo andare la desideravo tanto. Forse per quello l’ho desiderata tanto la scuola!
Sono arrivata qua al 20 marzo del ‘29. Ho compiuto qui i sedici anni. Ho lavorato, ho incontrato Angelo, mio marito. Ho avuto una vita talmente tribolata per la salute, ma sono stata tanto felice con Angelo, che era una persona d’oro. Avevo la sicurezza, l’affetto... Era tutto per me, era tutta la famiglia. Il Friuli mi è rimasto nel cuore e ce l’ho ancora adesso: è la terra più bella del mondo. Ci ho vissuto pochi anni, ma per me è la terra più bella del mondo. Mio marito era piemontese, era nato a Borgovercelli, ma praticamente era di Tollegno perché è venuto su che aveva sei mesi. Una famiglia numerosa anche loro.
Quando sono arrivata con le mie sorelle abbiamo potuto avere una camera nella Cà da’l Vaglio9. Eravamo da mia zia, si sono stretti tutti quanti. Aspettavamo che venisse questa camera e abbiamo vissuto, non so quanto tempo, in tre in un letto.
Non ho potuto entrare subito a lavorare. Chiedevo, andavo sempre in portineria e mi promettevano da una volta all’altra, fino a che mi hanno presa nei ring. Poi sono andata al magazzino dove c’erano le matasse. Avevo la specialità di fare dei bei pacchettini.... Una volta ho avuto un riconoscimento grandissimo dal direttore perché ho combinato un gomitolo grande, fatto a mano. Dovevano portarlo all’esposizione a Milano... Lui lo guarda e dice: “Ma questa è una mano d’opera! E’ speciale questo gomitolo! Proprio è identico a quello della macchina!” L’avevo fatto io... mi ha fatto un piacere enorme! Non è che mi hanno dato un premio, ma questo complimento mi è rimasto... Sono andata nel magazzino perché c’erano dei momenti che avevano tanto bisogno e poi si bloccavano e allora, per non farci perdere giornate, mi hanno detto: “Vai a imparare là!” Dopo facevo la spola, quando avevo poco lavoro qui, mi mandavano là...
Ne ho fatta una tanto grossa! C’era un direttore che girava, si chiamava Pierino, ma lo chiamavano badóla10, come soprannome. Io non sapevo cosa voleva dire e non sapevo che era un soprannome. Era in magazzino sulla scala: “F., la gnirìa nèn a travaié da là ‘n t’ai ring?”11.
“Ah, monsü Badòla,12” - ho detto - “basta a portarmi di qua e di là! Adesso son proprio stufa di girare!”
E’ rimasto a bocca aperta e non ha detto niente. Io non sapevo perché avesse fatto così e mi son detta: “Mah?!” La Mafalda che era andata fuori a prendere un bicchiere d’acqua ha sentito e ha detto: “Ma l’ha chiamato monsü Badóla!” Gli ho dato del signore, monsü... Mamma mia, l’ho fatta
grossa!
Non mi hanno più chiamata di là, mi sono fermata lì... Ho avuto l’ernia del disco, ho anche uno spostamento all’osso sacro, son piena di artrosi! Per tutto questo lavorare da piccolina! Quando mi hanno operato, ho chiesto al professore:
“Ma come mai le altre che hanno fatto l’ernia del disco camminano, e io son qui come un palo?”
“Ma lei non aveva semplicemente l’ernia del disco: lei ha un’artrosi che parte dalle cervicali fino alle calcagna!”
Il lavoro in magazzino era più leggero, sì, mi è andata bene! Ho lavorato lì fino alla pensione che mi hanno riconosciuto l’invalidità. Era nel ‘60.
Io parlavo friulano con Angelo. Lui in friulano non diceva neanche mandi, ma lo capiva tutto.
Adesso siamo più poche, ma quando ci incontriamo: “Mandi”. Ce ne sono che son venute su dopo il terremoto. Io le guardavo: “Voatris ses furlanes!”13 e loro: “E’ l’unica che c’è venuta incontro parlandoci friulano!”
Le signorine di Tollegno dicevano: “Oooh, le friulane, le friulane!” perché tutti quelli che andavano a ballare: “Andiamo dalle friulane!” Quelle che avevano una simpatia e vedevano che le lasciavano per andare con una friulana, allora c’era un po’ d’astio, se no siamo andati tutti bene qui a Tollegno.
Sapesse come ho incontrato mio marito! Io penso che era destino... ero sul balcone in quella camera e dava sulla strada. Sotto c’era la stazioncina dove passava il trenino. Lavorava già... aveva un anno più di me. Era giovane proprio. Lo avevo visto arrivare in bicicletta, che andava a imparare da meccanico, poi dopo pranzo andava a lavorare dalle due alle dieci in Filatura! Aveva uno di quei berrettini che chiamavano bunët ... Sapevo che era il fratello del Mario... Dal balcone lassù a vederlo in bicicletta... la prima volta che l’ho visto: “Diio!” E lui guarda su e sbanda tutto perché guardava me! E’ stato quello il momento! E mi è piaciuto sempre... dicevo di no agli altri. O quello o nessuno.
Suo fratello, Mario, parlava alla sorella della mamma di Evasio, che poi siamo diventate cognate e cugine prime... La povera zia non voleva lasciarla andare a ballare perché la prima sorella aveva avuto un figlio prima di sposarsi, che poi si sono sposati dopo. Aveva paura e, se non c’ero io, non la lasciava andare a ballare. Io sono sempre stata una pietra, non sono mai stata proprio capace di ballare... io ho sempre soltanto tribolato, ho lavorato sempre. Io facevo proprio la candela! Non li lasciavo neanche fare un bacio! Ero sempre lì. Loro erano lì e io ero qui! Dovevo fare la guardia! Allora il Mario, disperato, mi ha detto:
“Ma possibile che non ci sia nessuno che ti piace della mia squadra?”
“Sì, mi piace uno...”
“E com’è? Biondo, moro?”
“Moro” - allora ce n’erano tanti di bruni. Sì, era bruno.
“Come è pettinato?”
“Come tanti”. - Stavo attenta...
Prova a dire lui: Tizio, Caio, Sempronio...
“Com’è la prima sillaba?”
“A”.
Lui mi pianta lì in mezzo al ballo e va a prendere suo fratello e me lo mette nelle braccia e balliamo. Non ci siamo più lasciati.
Ci siamo sposati cinque anni dopo. Lui aveva ventitre anni. Quanto bene gli volevo! L’avevo davanti a me nel treno, che si andava a Torino da sposi, dai miei cugini - Non l’avessi mai fatto! Io non direi a nessuno di andare dai parenti. Ah, che vergogna! - l’avevo davanti a me, e mi pareva di averlo partorito io, talmente ero contenta.
1 “Un pezzo di polenta!”, dial. friulano
2 Catasta.
3 Scaffalature.
4 “A casa, a casa a piedi!”, dial. friulano.
5 Trambusto.
6 Fabbrica di birra di Biella.
7 Formula di saluto in friulano. Abbreviazione da “Comandi”.
8 “Mamma, oggi cuciono a scuola!”, dial. friulano.
9 Casa del Vaglio.
10 Babbeo.
11 “Floreani, non verrebbe a lavorare di là, nei ring?”
12 Signor Babbeo.
13 “Voi siete friulane!”, dial. friulano
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Tollegno
- Qualificazione:
- operaia