Persona
Tronco, Emma
- Note alle entità collegate
- Ha lavorato alla Filetura e tessitura di Tollegno
- Nascita
- Luogo:
- Grassaga
- Data:
- 1904
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- operaia di filatura
- Biografia / Storia
- L’ingrandimento della foto della povera mamma sotto il braccio...
Emma, Grassaga (Venezia), 1904
Fino a quando è scoppiata la prima guerra mondiale sono vissuta da signora. Grassaga si chiamava il paesino di campagna dove sono nata, era vicino a San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Lì andavo a scuola. La maestra, Mina Traversari, era di Faenza, aveva ottantacinque bambini. Facevano sette chilometri di strada a venir su dalle paludi con tanta legna sotto il braccio... in classe c’era una stufa a muro e anche quando era tiepido si usciva a mezzogiorno tutti intirizziti. Io abitavo vicino alla scuola, perché i miei avevano un’osteria, e lì c’era anche la chiesa e la canonica del parroco. C’era un salone grosso dove alla domenica tutti i contadini venivano a giocare alle carte. Mio papà spalancava le porte per ricevere i bambini che andavano a scuola perché magari aspettavano mezz’ora prima che cominciasse: venivano tutti là dentro con piòva e con neve. Sull’osteria era scritto, mi ricordo ancora: “Pane, vino, generi alimentari e birra Dreher Trieste”. Sulla porta c’era un tedesco con un caliptus 1alto così, con il manico: sembrava l’imperatore Francesco Giuseppe. “Birra Dreher Trieste” e poi c’era la birra Pilsen e la birra Politti Udine e tante altre qualità.
A sei anni, già giovane così, pesavo lo zucchero, pasta, vendevo le caramelle. Aiutavo la mia mamma a far tutto. A sei anni ho avuto il tifo e ho fatto sessantasei giorni di letto e quando mi sono alzata hanno dovuto farmi fare i primi passi. Poi siamo andati sempre avanti bene fino a quando è scoppiata la guerra. Allora siamo stati un mese, ad un chilometro dal Piave in linea diretta. Abbiamo subito un bombardamento. I tedeschi hanno rotto il fronte dall’Isonzo e sono venuti giù... la ritirata di Caporetto. Siamo rimasti là, con una paura...“Arrivano i tedeschi, arrivano i tedeschi!”
Quando sono arrivati, al 9 novembre, io ero moribonda nel letto con la difterite. E loro entravano... I tedeschi erano diversi anni che erano in guerra e non volevano fare la pace... allora sono stati sanzionati. Sa cosa vuol dire sanzionati? Più nessuna nazione, tutti d’accordo per tre anni non hanno mandato una lira di roba. E loro hanno mangiato, consumato le scorte che avevano nell’interno, e andavano al fronte stracciati, scarpe rotte, con niente da mangiare. Mangiavano erba... Arrivavano le bombe dietro alla casa.... poi, di là dal Piave hanno dato ordine, perché ci sono anche le sue regole nella guerra, di ritirare i civili - ci chiamavano così i tedeschi - e di mandarli profughi. Quelli che sono andati in Bassa Italia sono stati fortunati: lavoravano e facevano altri soldi; quelli, come noi, che mandavano su verso il Friuli, invece...
Venivano lì la mattina, con tutto quello che si aveva, il carrettino, i cavalli... C’erano le file, chilometri di profughi: bambini e donne... Noi siamo andati poi sul Livenza, il primo fiume grosso dopo il Piave, perché lì c’è il Tagliamento, c’è l’Isonzo, ci sono tanti fiumi. Lì una volta c’erano le paludi, tirate ad agricoltura, ma il terreno era molle, cedeva. Ogni chilometro circa o anche più avevano fatto delle case nuove di tre piani. La mia dov’ero profuga era “Casa Emma”, c’era “Casa Carolina”... perché mettevano un nome per casa. C’era tutta la parentela di mia mamma. Eravamo novantacinque profughi in due case e, finita la guerra, siamo venuti via in quaranta: tutti morti di tifo nero, di miseria, di stenti e di paura! Avevamo anche noi il tifo nero e ci curavano con un po’ di cicoria. Ti portavano un po’ di quel caffè che sembrava una tisana, così chiara, e ti curavano con quello.
Noi eravamo in sette in una stanzetta piccola... si dormiva per terra sulla paglia. Pulci, pidocchi e cimici: non mancava niente. Alla sera, mi ricordo che, prima di andare a letto, andavo a scoprire e a uccidere tutte le cimici. Le uccidevo e lasciavano il sangue dappertutto.
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Ci hanno dato l’ordine di passare il Piave, che alle 5 facevano saltare il ponte. Io ero a letto, ero ammalata. Il mal del grùp2 si chiamava che ne ha portati via tanti di ragazzini, piccini più che altro. Ogni tanto il parroco veniva a trovarmi e a darmi l’ultima benedizione... e sono ancora qua! Allora il mio papà e la mia mamma hanno detto: “Metterla sul carro... la facciamo morire per strada. Stiamo qui e aspettiamo gli eventi”. E hanno aspettato i tedeschi. L’osteria era sulla strada, ma il mio papà e suo fratello avevano diverse case. C’era quella che la chiamavano la casa vecchia e sembrava che là fosse già fuori, che i tedeschi non ci sarebbero andati. Però, siccome eravamo in collina, si sono messi al riparo e, invece di andare nelle altre case, sono venuti proprio nella nostra che eravamo la prima. Siamo rimasti prigionieri. In principio c’era ancora qualche mucca, ma appena sono entrati i tedeschi, giorno e notte portavano via tutto: vino, mucche, maiali, grano. Siamo stati lì... pane e pidocchi e paura.... i tedeschi morti di fame alla notte venivano dai civili a sbattere le porte e a sparare, poi entravano dentro e rovistavano la paglia.
Tante di quelle paure! C’erano sempre imboscate, c’erano sempre gli apparecchi sopra la testa, ma quante paure! Ho passato delle notti intere così. E il mio papà... c’era solo lui... i tedeschi venivano e dava sempre da bere a tutti.
Quando hanno fatto l’offensiva di agosto, gli italiani volevano liberarci. Non ci sono riusciti, però hanno arrossato l’acqua del fiume con tanti morti tedeschi. Andavano giù a battaglioni e venivano a casa con la testa giù: “Piave kaputt! Piave kaputt!”
Noi sempre soggetti agli spaventi, alle sparatorie nei cortili... non so come ho fatto a superare! Dopo la mamma era incinta e non c’era niente da mangiare. La notte io ero nel letto e sentivo che la mamma piangeva con mio papà: “Devo perdere ‘sta bambina! Niente da mangiare, niente da curare...” E il giorno dopo, all’una, è morta lei di un colpo, incinta. Aveva trentasette anni! Io non ne avevo neanche dodici. Il piccolo, mio fratello Tullio, con la gonnellina così, aveva due anni e mezzo...
Gli uomini erano tutti alla guerra e tutte le donne che lavoravano nella campagna. I tedeschi obbligavano i profughi a lavorare, poi loro raccoglievano tutto e portavano via. ‘Ste famiglie grosse che lavoravano... gli aeroplani sopra... C’era il solaio grosso con il grano e allora hanno detto che ci lasciavano quello che rimaneva per terra e allora noi, tutti i bambini, siamo andati su a pestare. Sono arrivati i carri dei tedeschi e portano via tutto. Mi ricordo che ho raccolto un sacco di questo grano che andava giù. C’era una sposina venuta dal Friuli a trovare sua mamma che era profuga lì. Aveva ventisette anni e due giorni che era lì era morta. Hanno acceso il cero e hanno nascosto questo sacco di frumento sotto il letto della morta. Tutti i bambini in fila, nel corridoio. Qualcuno ha detto che il grano dava poca resa e i tedeschi passavano per tutte le case per controllare. Eravamo tutti distrutti e le donne: “Piangete, bambini!” E loro hanno requisito dappertutto. C’era la morta, vestita da sposa, poveretta, e il velo davanti. Uno viene dentro, guarda la morta e poi giù sotto il letto: “Fuori i sacchi!” Allora le donne: “Piangete, piangete!” E tutti noi bambini si piangeva. Si vede che uno si è commosso e ha detto: “Italiani buoni, civili. Voi buoni”... Eh ce ne hanno poi lasciato tanto così, eh! Ce l’hanno portato via tutto! Non c’era perdono.
La sera dell’avanzata del Piave, mio papà ha detto: “Arrivano gli italiani! Arrivano gli italiani!” Dei colpi! L’artiglieria: “Bum!”, tutta ‘sta casa che dondolava... eravamo novanta profughi e saremo stati venti bambini, di più.... tutti che si gridava. Davanti a noi c’era una casa di tre piani e i tedeschi l’avevano riempita di bombe e di munizioni. Prima di ritirarsi facevano saltare tutto: la casa dove eravamo profughi noi sembrava che andasse per terra e là di quella casa di tre piani è rimasto un buco in cui si potevano sotterrare due alloggi come questo.
Alla sera di questo combattimento, me lo ricordo ancora, che si andava con un lumicino a petrolio, dentro nel vetro, in un’altra casa distante un chilometro a prendere notizie, le ultime notizie. Intanto ‘sti bombardamenti continuavano. “Non piangete, bambini, non piangete. Queste sono le nostre artiglierie che sparano!” Invece se non c’era la terra della palude, molle, non ci sarebbe più neanche il ricordo di noi! Le granate alte più di un metro! Eravamo tutti circondati intorno alla casa e noi, in ginocchioni, nella nostra stanza e gli altri nelle loro... Si aveva una Madonna di Lourdes là in mezzo, inginocchiati si pregava e loro dicevano: “Fate i bravi, perché arrivano le sussistenze...” che alle dieci ci davano la pagnotta. Hanno chiamato i soldati a raccogliere attorno a ‘ste case tutte le bombe. C’era un fiume da una parte e loro prendevano queste bombe e le mettevano dentro questa casa, casamatta si chiamava, perché non potessero scoppiare. Neanche una ne è scoppiata! Se ne scoppiava una, non aveva neanche più le memorie! E là!
Alla mattina sono andati tutti gli uomini per le strade a controllare, perché era una settimana di nebbia e non si vedeva né di qua né di là. Si sentivano i rumori dalle strade che avevano rotto il fronte, da Caporetto a venire giù. Non si sapeva più se si era italiani o tedeschi.
La sera prima era arrivato quel capitano... quel tenente con quel fanalino e ha detto: “Mi dispiace che non posso darvi la pagnotta perché non è arrivata la sussistenza. Ma ho una bella notizia da darvi: i nostri italiani hanno circondato Trento e Trieste e la bandiera italiana sventola sul Castello del Buonconsiglio!” Allora eravamo contenti.
Alla mattina, mi ricordo, questi uomini venivano a casa con il sigaro in bocca o con una zolletta di zucchero o con una pagnotta. Che festa! Quando si trovava un militare di qualunque razza o fanteria era un abbraccio.
Allora i tedeschi sono arrivati tutti prigionieri. E noi vicino alla chiesa dove eravamo c’erano delle praterie, ma praterie della palude. C’era l’acqua. Hanno detto: “Lì è tutto pieno di soldati prigionieri”. Alla mattina, via tutti a vedere questi prigionieri che facevano venire su da queste praterie. Li mettevano in riga e li mandavano sulle strade... non so dove li portavano... che facevano anche pena. “Ah, tu sei quello che mi ha rubato la vacca!” E giù botte! “Tu sei quello che mi ha rubato il maiale!” E giù botte! “Tu sei quello che mi ha portato via la biancheria!” E giù botte! “Tu sei quello che ha violato le ragazze!”. Venivano su in fila. Era l’una e continuava la fila ad andare, andare, andare. E i nostri che erano andati lì... botte sulla schiena! Erano nemici e la guerra è così. Gli ultimi che sono venuti su mi facevano una pena che li vedo ancora. Erano padri di famiglia anche loro, comandati dalla guerra. Vecchi, perché i tedeschi avevano fatto la mobilitazione fino a sessant’anni. Venivano handicappati nel camminare e gli davano botte sulla schiena.... “Pelandrone! Su! Ne hai fatte abbastanza!” Piangevano... non erano capaci.... Oh, che strazio!
Allora il mio papà ha detto: “Ho salvato i miei figli, ho perso la moglie e adesso star qui...” E’ scoppiato il tifo... il tifo nero: si moriva dissanguati di dietro. Prendeva tutte le ragazze dai diciotto, ventitre, ventiquattro anni. Tutti noi figli, ero io la più vecchia, nessuno. E’ andato dove c’era il comando tedesco che avevano una carovana, loro la chiamavano così, una specie di roulotte in cui avevano i colombi viaggiatori. L’avevano lasciata lì e il mio papà è andato a comprarla. Ci ha fatto caricare tutti sopra e ci ha portati al paese trainati da cavalli italiani. Siamo arrivati al mio paese, in mezzo alla truppa militare. Munizioni a quintali. Tutto distrutto: in tutto il paese c’era solo un pezzo di chiesa tutta screpolata. Proprio raso al suolo. Siamo stati due giorni e due notti. La notte tutti accucciolati dentro ‘sta roulotte, ‘sta carovana. Però alla mattina, mio papà e noi tutti all’opera: si andava nelle trincee a prendere le tavole, gli assi. Mio papà ha montato una baracca, 8-12 metri come tre stanzette, tanto più alta della sua testa, perché lui era grande. In due giorni ci siamo fatti questa baracca, ma tutta inchiodata, eh, montata sui cuscinetti di pietre che sotto passava l’acqua, se pioveva. Lì passava aria e tutto. E allora c’erano, grossi così, dei rotoli di catrame e con questo catrame il mio papà l’ha foderata tutta, sopra, dietro e davanti. Allora lì non entrava più né sole né aria e si avevano le porte. E dentro a quella baracca lì siamo vissuti per due anni e più finché il governo ci ha fatto le case. Per due anni ci manteneva il governo. Ci dava: gran riso, “torregiano” che era poi un sugo per condirlo e ci dava un po’ di zucchero per i bambini, un po’ di latte condensato. Per due anni ha mantenuto tutta la zona. All’inizio c’eravamo solo noi, poi in primavera hanno cominciato ad arrivare le baracche che montavano giù a Messina, giù in Bassa Italia. C’era gente da tutta Italia che lavorava lì, dal Piemonte, da Rovigo. Tutti operai perché lì c’era il lavoro. Non c’erano più piante, di tutti quei vigneti più niente, tutti rasi al suolo, non una casa l’avessi pagata cento miliardi!
C’erano questi soldati e gli portavano da mangiare e si lavavano le loro camicie per guadagnare quei 50 centesimi. In primavera il Piave ha rotto l’argine. Ero fuori dalla baracca a far da mangiare. Un palo qui, un altro di qua e un paiolo attaccato. Legna ce n’era sparsa per la campagna dappertutto. Ero lì che tagliavo legna da ardere per far fuoco e l’acqua cresceva. Mio papà era ancora a letto: “Papà, papà c’è l’acqua che viene su, che mi copre i piedi!”
“Adesso mi alzo. Si sarà rotto il Mortis”- c’era un fossone grosso che si chiamava così e invece... passano tre a cavallo... li ho ancora davanti agli occhi. Li conoscevo tutti e tre, Castaldel, Manfredi e un altro: “Scappate che si è rotto il Piave! Scappate che si è rotto il Piave!” Allora via! Dove si aveva l’osteria era rimasta una parte, come un castello, ma neanche da fidarci ad andare sopra... ci siamo ricoverati là. L’acqua...
La mamma è morta e facevo io la mamma per tutti. Mi hanno sempre rispettata da mamma anche dopo sposati: se avevano qualche cosa venivano da me a confidarsi, a chiedere consiglio. Sempre, anche quando siamo venuti in Piemonte. Eravamo quattro femmine e tre maschi. Li ho cresimati, comunicati, sposati e sotterrati tutti giovani... Quando eravamo profughi eravamo tutti scalzi. Il Tullio, il piccolino che si ricordava ancora della mamma che gli dava la poppata... due anni o poco più. Mi faceva pena. “Hai freddo?” “No”. Diceva di no. Allora io lo consolavo. Ma cosa vuoi consolare... nudo, lì sotto, d’inverno con ‘ste braghette larghe così, con ‘ste gambine dentro, figuriamoci!.. E il Signore manda il freddo secondo il pane. Eravamo tutti svestiti, non c’era il paletot... Facevo tutto io. Morta mia mamma non sapevo neanche infilare l’ago. E ho fatto tutto: calze, vestiti. Poi dopo, quando si costumava andare a ballare: “Fammi il vestito da ballo, fammi il soprabito...” Io non so come facevo...
Prima della guerra avevamo terreni, case... eravamo “signoretti”. Si aveva anche la donna di servizio, non per smorbieria3... sette figli, con il negozio, e far da mangiare... al sabato e alla domenica facevamo la trippa e venivano su tutti ‘sti capi famiglia a mangiarla.
Al mio paese c’era solo la terza. Se si voleva fare la quarta bisognava fare sette chilometri a piedi, senza mezzi di trasporto. Io ho fatto la terza e poi mi ha fatto scuola la mia maestra, scuola personale...Ha detto: “Questa bambina è intelligente, mi dispiace sciuparla così!” La sera andavo a casa sua. Era grossa così!... una romagnola. Grassa, tutta imbustata. Mi ricordo che la sera - io di qua del tavolino, lei di là - si slacciava un po’. Mangiava le mele cotogne così, le tagliava e poi le condiva con olio e aceto. Intanto che lei mangiava, io, di qua, scrivevo...
Dopo la guerra, quando il governo ci ha pagato i beni immobili, il mio papà e suo fratello commerciavano in case, cavalli e in tutto. Hanno fatto dei soldi. Ma un giorno mio zio, passando il passaggio a livello di San Donà - lui dice che erano aperte le sbarre invece il governo dice che erano chiuse - è arrivato il direttissimo da Trieste...ha portato via tutto: cavalli e vino. Si sono salvati solo quello che guidava i cavalli e mio zio. Però il governo vuole la sua parte e... fare la guerra al governo come si fa? Lì è stato il colpo di grazia! Lui è partito ed è andato in Francia con la sua famiglia senza dir niente. Ci ha piantati lì... e tutti i debiti sono rimasti a carico di mio papà. Lui ha voluto andare a vedere dov’era. Il maresciallo dei carabinieri ha detto: “Non andare! Vai a fare qualche pazzia! Hai sette figli...” Ma lui no, è andato. Si è ammalato perché soffriva già di reumatismi, di artrosi... E’ venuto a casa, è stato ricoverato in ospedale... Noi si era tutti mogi. Ah, un disastro! Quanto soffrire! Allora lì siamo andati a ramengo... senza negozio, senza mamma... come si mangia, come si vive? Si aveva ancora un pezzo grosso di terra. L’ha venduto, me lo ricordo ancora: 94 biglietti da mille. Però si mangia, si mangia, ma si va alla fine. Allora c’era Rivetti che veniva a prendere le operaie e le portava nel convitto di Vigliano. Le mie due sorelle, le più giovani: “Papà lasciaci andare!” Sono andate. La mia Margherita si adattava ai cibi del convitto: pane e cioccolata che non abbiamo mai mangiato e un po’ di formaggio. Le suore le accompagnavano a lavorare al mattino e venivano a prenderle quando tornavano a casa. Noi si scriveva, però le lettere prima le leggevano le suore. Allora la Margherita resisteva... c’era il dottore che andava a visitarle una volta alla settimana in fabbrica. E la mia Amalia, che era un fiore...dodici anni aveva... i dottori hanno detto: “Mandate fuori dalla fabbrica questa bambina, perché diventa cieca dall’anemia”. Mia sorella non sapeva come fare per avvertirci, perché le suore controllavano tutto. Si è affidata a un’amica che lavorava vicino a lei in torcitura. Ci ha mandato una lettera e allora il papà ha scritto alle suore che facessero il piacere di mettere in libertà queste due ragazze perché lui era andato in Francia e ci aveva trovato casa e il lavoro là. La direttrice voleva un bene alle mie sorelle! Perché erano brave e erano le privilegiate. La mia Amalia che non si adattava al cibo cercavano di darle un pezzettino di formaggio, una fetta di salame... Ma sì! Lei aveva l’anemia, era venuta così! Allora le ha dato la liquidazione ... hanno portato a casa 140 lire. Hanno fatto il pacchettino per il treno e alla mattina le hanno accompagnate alla stazione di Biella e sono venute a casa. Eravamo contenti che eravamo tutti e sette assieme, tutti radunati - perché eravamo un tutt’uno -, si parlava e il mio papà ha detto: “Ma tu, Margherita, che sei la più vecchia, spiegami un po’ com’è questa città di Biella”.
“Non posso dirti niente, papà, perché là siamo andati solo in passeggiata con le suore, però sento in fabbrica che c’è tanta gente che viene su, si trova un alloggio e lavora nelle fabbriche. Sicché, noi abbiamo bisogno di lavorare, fa voglia di provare...” Allora mio fratello più vecchio, quello del ‘7: “Papà, se sei contento, parto domani mattina e vado a vedere se trovo un posto da sistemarsi e poi venite su”. Mio papà d’accordo. Io, la più vecchia, ho preparato tutte le cose nella valigia e la mattina è partito. E’ andato a prendere il treno a San Donà ed è venuto su... è venuto sì, ma alla cieca. E’ andato a finire a Vigliano in una trattoria che si chiamava Negro. Dormiva là e cercava di giorno se c’era da lavorare in qualche posto o la casa per farci venire su. Finché un giorno: “Ho trovato!”. due stanze a Chiavazza. Oh, quanto piangere in quelle due stanze! Una era bella e ci stavano i letti di ferro, così come si poteva... l’altra era un pontile chiuso e si vedeva attraverso le fessure per terra! Lì dormivano i miei fratelli e mio marito, perché ci parlavamo da tanti anni e aveva chiesto a mio papà di venir su a lavorare...
Abbiamo dovuto pagare quel demonio di un padrone per quella porcheria di casa 90 lire al mese di affitto.
Abbiamo spedito tre o quattro letti matrimoniali di ferro, un buffet, un guardaroba e poi le cose personali e viene il giorno della partenza... mio papà rimaneva lì con una zia. Provvisorio. Alla sera mio papà ha detto: “Fai un borsellino da mettere al collo!” Una cosa larga così, di tela a righe con una fettuccia bianca e giù nello stomaco4. Mi ha dato - adesso non ricordo più - venti e passa biglietti da mille... che dopo non li ho visti più, fin dopo la guerra...
Si doveva partire da San Donà alle cinque e mezzo del mattino e alle due e mezza si era a Biella. Ma quello che doveva venirci a accompagnare alla stazione è rimasto addormentato... il treno non c’era più. “Che va a Milano, fin dopo pranzo, non ce n’è più!” E’ passato un treno che andava a Mestre. “Prendiamo questo!” Si aveva i biglietti di terza categoria. Dopo un’ora, un’ora e mezza che eravamo a Mestre, annunciano: “Arriva il direttissimo da Trieste diretto a Milano, ma non porta la terza classe”. Io che avevo i soldi: “Prendiamo la seconda!” Allora, su, tutti in seconda per venire fino a Milano. Siamo partiti da Grassaga che piovigginava, ma di neve neanche visto l’ombra. A Milano abbiamo trovato neve, neve, neve. Non che venisse giù, c’era già. A Milano, poi, abbiamo aspettato quello che andava a Torino. Siamo passati di nuovo in terza classe, però durante il viaggio a Milano è venuto ben il bigliettario: “Eh, qui siamo in seconda classe, avete il biglietto di terza... chi è che paga qui?”
“Ah, io!”
Fatto sta che mio fratello Pietro ci aspettava alle due e mezza a Biella. Non siamo arrivati. Ci ha aspettati alle quattro e mezza. Non siamo arrivati. Ha aspettato alle sei. Niente. Otto e mezza.... Ha detto: “Fino a mezzanotte non ci sono più treni”. E’ andato a dormire a Chiavazza, dove si aveva ‘sta trappola di alloggio. Si arriva a Biella e non si trova nessuno. Non si conosce nessuno. “Ma dove andiamo?” Abituati sempre ad un paesino piccolo di campagna. Oh, poveri noi! Scendi dalla stazione. “Che strada prendiamo?”
“Non so”.
Si vede che una mano celeste ci ha accompagnati, ci siamo trovati sul ponte Cervo. La neve alta...
Si aveva un cagnolino che si chiamava Bugie. Tanti anni che si aveva... mio fratello Tullio: “Ah, io voglio il cagnolino!” Abbiamo pagato anche il viaggio del cane; si doveva mettere nel vagone delle bestie e lui se l’è sempre tenuto in braccio, e io, l’ingrandimento della fotografia della mia povera mamma sotto il braccio, perché non volevo romperlo...
Quando siamo al ponte, tutte luci dappertutto... Una strada lunga e illuminata, che era quella che andava a Vigliano. E qui c’è una strada che va a Tollegno, una a Pavignano, un’altra... Allora ho detto: “Antonio, tira in alto il cappello! Dove va il cappello andiamo anche noi!” Il cappello è andato di là. Prendi la strada e via, e via... Troviamo una coppia e si credeva di essere a posto. “Siamo anche noi del Veneto e non sappiamo dire niente!” Allora sempre avanti, avanti... tutte le case chiuse, non si vedevano luci in giro. Il mio fratellino piangeva che era stanco di portare il cane, l’altro portava i bagagli, e io quella fotografia... e avanti. Era un’ora che si camminava... e abbiamo visto un globo così acceso, davanti alla stazione del tram - c’era ancora il trenino - “Caffè della Stazione - San Quirico”. “Oh, meno male che c’è una trattoria! Andiamo dentro!” Uno aveva fame, l’altro piangeva... io non sapevo più come fare. “Fanno da mangiare qui?”
“Oh, sì! Vi faccio passare di là”.
E poi viene fuori un ragazzo, dietro la porta: “E’ forse la famiglia del Pietro?” E quando ho sentito così, mi ha allargato il cuore. “Ah,” - dice - “vi ha aspettato tanto e poi è andato a casa a dormire. Ma non è qui, no”.
“Allora come facciamo noi?”
“Ah, vengo io ad accompagnarvi!”
Mi ricordo che abbiamo mangiato l’insalata verde con il prezzemolo e l’aceto, che noi non si costumava mangiare quello... E poi di nuovo su a piedi per venire a Chiavazza in quel buco lì... Per entrare c’era un sottoportico così buio, senza luci... lui davanti e noi dietro... oh, tutti piangiolenti... C’era una scala di tutte quelle pietre del Cervo... tutti uno sotto l’altro per andare su... oh, in che stato! “Se ci vedesse il nostro papà dove siamo!” Mio fratello ha aperto la porta e ci siamo seduti tutti sopra il letto... questo ragazzo a consolarci e tutti a piangere... E lui: “State tranquilli! Poi cambia! Troverete lavoro e cambia tutto!”
Alla mattina... sotto c’era una donna, una mantovana, che aveva anche lei degli operai a dormire e a mangiare, è venuta sopra con una caffettiera così. E’ stato un ristoro, un po’ di conforto... Ci ha suggerito: “Lì c’è una fabbrica, lì ce n’è un’altra!” Si andava a girare queste fabbriche per trovare lavoro. Si camminava magari un’ora, mezz’ora... dappertutto dove si andava dicevano : “C’è l’inventario adesso. Venite dopo, a gennaio”. Tutti così, niente da fare. Allora mia sorella Margherita, che era la più spiritosa, un giorno dice: “Adesso voglio andare a vedere la città. Fanno il mercato di lunedì. Andiamo a vedere!” Si prende la mia sorella Amalia e vanno. Per la strada ha trovato una chiave...”Oh, fortuna, fortuna! Troviamo lavoro!” Arrivata a Biella, ha trovato le Damo, le amiche che erano nel convitto: “Oh, Margherita, vieni a Tollegno che trovi lavoro! Hanno fatto una fabbrica nuova di tre piani, trasportano le macchine”.
La mattina dopo, la mia Margherita e i fratelli, tutti alla Filatura. Il direttore ha chiesto come mai erano andati lì e lei ha raccontato tutta la storia e gli ha chiesto l’alloggio. “Subito! Al Termine!” Le case operaie erano tante, lì, ancora da finire... Se non si era quattro da lavoro non le davano. Noi eravamo sette! Ha aperto la prima porta, lì, vicino al campo sportivo che dalle finestre si vedeva la partita... al numero uno. Mancava ancora l’acqua e la luce. “Subito, subito! Farla subito! In giornata e che vengano su!” Eravamo tutti contenti. Si andava a lavorare... Siamo venuti su a gennaio in questa casa. Acqua, gabinetto dentro, casa nuova, il lavoro vicino... oh, sì, felici!
Il mio papà era al paese con la speranza di mettere a posto qualche cosa con quel fratello che l’ha mandato a ramengo... E’ venuto ammalato e l’hanno portato nell’ospedale a San Donà. Non voleva dircelo e alla mamma del mio fidanzato, che era una liguaccia lunga, che non era capace a stare zitta - una bella donna, bei denti, si chiamava Clotilde - ha detto: “Guarda, Clotilde, se fai sapere qualcosa lassù in Piemonte, quando vengo fuori ti ammazzo! Perché se loro sanno, vengono di nuovo qui!”
Noi abbiamo scritto che si aveva questa casa, il gabinetto interno, l’acqua, un bel giardinetto davanti.... una posizione magnifica, la più bella. Si vedeva il campo sportivo, si assisteva alla partita... che i dirigenti tedeschi avevano il tifo per lo sport e mantenevano la squadra, una squadra meravigliosa, quasi tutti dipendenti della Filatura. E la banda l’avevo davanti alla porta: facevano le prove in quello stanzone dove hanno poi messo gli attacafili a dormire...
Quando abbiamo preso la quindicina - duecento lire e passa -: “Oh!” Si era talmente abituati bene, non si guardava! Nello spaccio c’era di tutto, calzature, piatti... ci ha fatto il libro per andare a fare la spesa e con la quindicina si pagava.
Mia sorella Maria era nei ring, la mia Margherita sotto in torcitura. Io provvisoriamente sono stata in doubleuse con la mia Amalia. Poi è venuto il Sunder5 a prendermi e mi ha portata in magazzino lana-calze a fare l’impaccatrice. Lì sono stata trentacinque anni, fino a che sono andata in pensione. Sempre: in un tavolo così, eravamo in cinque che si lavorava. Una sbatteva le matasse, poi vedeva il difetto; una attorcigliava; una legava il pacco; poi l’incartatrice e dopo si preparava il pacco, che partiva.
In fabbrica eravamo tutte sorelle! Nel magazzino! Se c’era una storia era per tutte. Era una confidenza, un dolore, un momento da godere, senza lavorare. Il rapporto con il caporeparto era ottimo: ti sgridava, magari ti faceva piangere, poi veniva e ci consolava. Quando si arrivava alle cinque e mezza, si aveva un po’ di sosta e lui andava su e giù vicino alla scala. Delle volte veniva qualcuno e lui: “Ma almeno foste furbe e metteste qualcuno di guardia!”
Il casone era pieno di friulane. Le sentivo... non si capiva niente noi del piemontese. La prima parola “Neh, neh!” e per me era tanto antipatico! E ‘ste ragazze che facevano: “Quìnta, quìnta, quìnta”6 sembravano cantare: “Sta’ qui, sta’ qui, sta’ qui!” Là sotto, dove c’è il centro vendita adesso, era tutto pieno di ragazze. Tutte, alla sera, avevano l’appuntamento e le piemontesi erano tanto gelose: “‘Ste forestiere, ‘ste forestiere ci portano via perfino il moroso!”
Mio marito Antonio l’ho conosciuto laggiù. Sua mamma veniva a fare la spesa da mia mamma. Mia mamma era partoriente, mi aveva nel letto e lei è venuta con suo figlio in braccio. Ha fatto la spesa sotto che c’era mio papà e la mia nonna e poi era venuta sopra a trovare mia mamma. Era una donna a cui piaceva anche parlare di grasso, se era in mezzo agli uomini, anche di “ciccia”... si è seduta sul letto - me lo raccontava poi la mamma - e tira fuori ‘ste tettone e allatta il figlio. Io piangevo. Mi prende là, senza chiedere, mi mette sotto lì: “Mangia! Prendi anche tu!” Quando ha finito: “Te’ - l’ha messo lì nella mia culla - sta’ lì che quando sei grande te la sposi poi!” Ma quando è stata l’ora di sposarlo non voleva assolutamente. Diceva che ero tisica, che avevo bisogno di sangue una volta sposata, che doveva prendere una contadina...”Vuoi sposare quella tisica?”
“E’ tisica? Meglio, così moriamo assieme!” - rispondeva lui.
Mi diceva tutto. E poi io non volevo più: “Contro la volontà dei tuoi...” E lì si litigava. Lui era buono, sessant’anni assieme! E’ morto nell’ ‘80, al 18 dicembre... Ma lei...Che spudorata! Aveva un pezzo di tela per fare le braghe per l’Antonio e suo marito: “Te’, vai dalla tua morosa, di’ che le faccia lei!” Oh, ne ho fatto, neh, della roba! Stupida, neh, anche quando non volevo! Ah, tremenda quella donna! Tremenda!
Ci siamo sposati nel ‘27. Siamo venuti su dalla Filatura, su per la scaletta, tutti a piedi. Sono andata in viaggio di nozze a Torino a conoscere gli zii, perché mio marito aveva uno zio a Torino e i cugini. Lui non li aveva visti ancora perché nelle ferie andava giù al paese a casa sua. Ci hanno trattati tanto bene, ci hanno alloggiati, ci hanno portati a vedere il monte dei Cappuccini, di qua e di là, un po’ di tutto. Siamo venuti a casa dopo tre-quattro giorni e... là abbiamo incominciato la nostra vita. Subito non ce l’ha data la casa la Filatura. C’era una casa lì del “Tamlìn”. Non si aveva niente: solo un letto di ferro vecchio da due piazze, un burò vecchio. Lui aveva il banchetto che lavorava da calzolaio. Ci faceva pagare anche lui 90 lire al mese di due stanze: la cucina sotto e la stanza sopra, ma nessuna comodità: né acqua in casa né gabinetto né posto per mettere la legna. Questo Tamlìn nel prato veniva a mettere i còi, i cavoli, ed è andato a reclamare dal podestà che andava gente, dal calzolaio e dal parrucchiere, con i cani e i cani gli mangiavano tutti i còi! Non si vestiva mai da festa, solo quando andava dall’avvocato...
Quando abbiamo poi potuto andare alle case della Filatura, tutti i miei fratelli di là, io di qua, tutti vicini, si era una famiglia sola... A Pasqua è poi venuto su il mio papà e siamo andati ad aspettarlo, al trenino, sulla strada... Un cadavere! Aveva solo la pelle e le ossa! Sembrava di vedere un morto! L’abbiamo curato e quelli della Filatura: “Adesso diamo il lavoro anche al papà quando sta bene!”
“No! Il papà è sofferente al cuore, è un invalido della guerra. Il papà sta a casa con me”.
Quando mio marito ha chiesto di venire nel Piemonte con noi, sua mamma gli ha dato 85 lire che non sono neanche bastate per il viaggio perché ho pagato io la seconda classe... Poi ha trovato questo lavoro a Vigliano poi, pian pianino si è messo da solo... calzolaio privato. La prima cosa che abbiamo comprato: il fucile da caccia per lui e poi la macchina da cucire le scarpe.
Quando si era proprio giovani, non si incalava7 neanche a farsi un bacio e poi, prima di arrivare all’intimità...eh! Eravamo più timidi, più riservati... per la strada come fanno adesso, giammai, giammai! Un bacio sempre all’oscuro, sempre solo quando non c’era nessuno che vedeva.
Nel ‘28 ho avuto una bambina... è vissuta tre giorni. Poi, dopo tre anni, ho avuto un aborto a sei mesi e mezzo. Avevo trent’anni quando ho avuto il Gianni, un bimbo che era da regalo! Cinque anni e l’ha preso la poliomielite. L’ho tenuto sessantasei giorni a Biella in isolamento e poi è stato diciannove mesi ad Ariccia per le cure ortopediche... ancora oggigiorno è la migliore clinica attrezzata.
Quando mio marito è andato a portarlo, il Gianni... perché era un bambino intelligente: “Papà, dove vai ad abitare?”
“Abito in quella casa lì”. E gli ha mostrato una casa lì vicina.
La suora ci scriveva una volta al mese, due o tre righe: “Il bambino va bene...” Arrivo a casa a mezzogiorno e ho trovato un bigliettino che alla domenica faceva la prima comunione... Sono andata in fabbrica, ho chiesto il permesso. Sono venuta fuori alle quattro e mezza e alle cinque e mezza prendevo il tram lì davanti... Alle sette e dieci di mattina ero alla stazione Termini di Roma...Sono arrivata a Ariccia, avevo il cuore che mi scoppiava dalla gioia di vedere ‘sto bambino. Prendo il praticello, lì, su di corsa con la valigetta...La portinaia: “Chi è il suo bambino?”
“Gianni”
“Ah, quel bambino che ha sempre in tasca del grembiulino la fotografia dove ci sta lui e mamma sua e la fa sempre vedere a tutti”.
Mi fa sedere in cucina e prende il telefono:
“Suora, ci sarebbe la signora che chiede di vedere il suo figliolo...”
“Venga alle undici!”
Erano le nove del mattino... io a piangere, piangere. Questa donna, che Dio la benedica, quanto mi ha consolato! “Prenda questo e prenda quello”. Come facevo a mandar giù qualcosa? Visto che ero proprio disperata è tornata a chiamare... allora sono andata su. Lì c’era una piccola sala d’aspetto... un saliscendi con ‘sti infermieri con dei bambini in braccio... un anno, due, tutti piccolini. E io che guardavo con gli occhi spalancati, per vedere se veniva giù anche mio figlio... scoppiavo... Finalmente è venuto... un grembiulino a quadretti bianchi e blu, capelli rasati perché dovevano fare le cure, massaggi, ginnastica in piscina... Sono corsa su per le scale, me lo sono abbracciata così sul cuore!La prima parola che mi ha fatto: “Mamma, stai ancora lì, tu?”
“Sì, bambino mio”.
“Ma papà mi ha detto che abitava là in quella casa! Ho guardato, mamma, ma io non ho mai visto nessuno!”
Si riteneva un bambino abbandonato. Ricordava tutti di nome, si ricordava del Pietro, del Tullio, di tutti. “Mamma, dimmi del nonno”.
“Caro, il nonno è volato in cielo! E’ andato in Paradiso!”
“E’ morto il nonno!” L’ha ripetuto tante volte...
“Mamma lo sai che domani faccio la prima comunione e ricevo Gesù? Sono tutto vestito alla marinara. Chissà come sarò bello!”
Cara creatura!
Il mio Gianni, a casa, non aveva fatto nessuna malattia dei bambini. Lì, una dopo l’altra.
E’ stato diciannove mesi. Dopo han detto che le cure le avevano fatte tutte. Dove passa la paralisi rimane il segno. Il braccio sinistro l’aveva grosso così... aveva la spalla un po’ così e l’orecchio... Una fortuna che non gli ha preso il cervello perché la poliomielite e la meningite assieme... E’ venuto con venticinque anni: aveva le gambe dritte e grande. Andava su per quella collina.... io dal magazzino lo vedevo: andava a funghi, andava a castagne... intelligente. C’era il cassiere della Filatura... lo mandava in banca, a prendere e fare. Era fidato. Ma poi non gli davano neanche una scatola di sigarette. Lui non ha mai portato neanche una lira, povero ragazzo!... Però la Filatura ha fatto male a non prenderlo: io glielo avevo chiesto. Avevo detto: “Non perché abbia bisogno di mangiare... lavoriamo noi, io e il suo papà... ma per il morale”. Povero ragazzo!... e invece non ce l’hanno preso. Non gli abbiamo lasciato mancare niente... e non c’è niente che mi pesa.
Poi un sabato... l’ultima puntata del “Musichiere” di Mario Riva8... voleva stare a casa per vederla... Lo vedevo male... e lui voleva finire il motorino, voleva andare a Biella a prendere il pezzo... Era là che lavorava con ‘sto motorino, lo aveva disfatto tutto, perché era capace... aiutava i meccanici qui di Tollegno e loro lì alla bettola gli pagavano da bere, il caffè, le sigarette... E’ venuta mia cognata, la moglie del mio Pietro e le ho detto: “Ahi, ho una spina nel cuore. Lo vedo male e non vuole venire dal dottore!” . Allora... poverino... ha detto: “Per toglierti questa spina, mamma, vengo dal dottore”. E’ andato a fare la doccia nei bagni della Filatura. Stavo male: vedevo che non arrivava più, sono andata incontro... Ho trovato il Mario, quello che lavorava là dentro: “Ha fatto bene, Emma, a venire... perché è molto stanco”.
L’ho preso, siamo venuti su per la scaletta e siamo andati in municipio dal dottore. “Dottore, dottore, lo vedo male!” Quando mio figlio ha tirato giù i pantaloni e ho visto quelle gambe gonfie: “Ah! Vedo mio fratello, il mio povero fratello Pietro! Il cuore, il cuore!”
“Ha detto bene, signora. Se non avessi qui i clienti, lo porterei giù subito. Vada a casa, mi aspetti, e appena finito lo portiamo all’ospedale”.
Lui insisteva con il dottore che voleva andare al lunedì, perché voleva vedere l’ultima puntata.... E’ morto. Io e mio marito lo abbiamo vestito in casa. E ha finito la sua vita.... finito così!
Sono andata in pensione appena che ho compiuto gli anni. Il 1° aprile mi è arrivata la pensione e il 7 aprile è morto mio figlio. Così non ho potuto neanche godermelo... Mi ricordo che gli avevo dato 300 lire; se le è messe nel portafoglio... le ho ancora trovate lì, nel cassetto...
Quando il Gianni era ragazzo mi lavava i piatti... mio marito che faceva il calzolaio smetteva alle undici e mi preparava da mangiare. Venivo a casa e mi diceva: “Siediti là”. Mi serviva anche perché ero sempre stata un po’ delicata, malaticcia... e sono ancora qui adesso! A lui piaceva mangiare bene: la carne, l’arrosto, il pesce, la verdura... Siamo stati assieme sessant’anni, ci siamo fatti sempre buona compagnia, abbiamo sofferto assieme per questo ragazzo... tanto... per questi figli che sono andati male. Abbiamo sofferto e pianto assieme: in due si soffre meno.
Sono cinque anni che sono al ricovero... da quando è morto mio marito. E’ venuto con ottant’anni senza vedere il medico; la prima febbre che gli è venuta, il dottore gli ha dato gli antibiotici... non è passata. L’ha mandato in ospedale... gli hanno operato un tumore tra la vescica e l’intestino... gli hanno fatto l’ano artificiale... l’ho curato fino a che ha chiuso gli occhi.
1 Boccale per birra.
2 Difterite.
3 Non per darsi delle arie.
4 In petto, sotto la veste.
5 Alfredo Sunder, direttore tecnico della Filatura di Tollegno.
6 “Racconta, racconta, racconta”, dialetto friulano.
7 Osava.
8 Popolare trasmissione televisiva dei primi anni ‘60.
- Note ai luoghi collegati
- Molto vivide le descrizioni del fronte alla fine della Grande guerra.