Persona
Arposio, Giuseppina
- Nascita
- Luogo:
- Carisio
- Data:
- 3 Luglio 1928
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- operaia tessile
- Qualifica:
- orditrice
- Qualifica:
- maestra di orditura
- Qualifica:
- impiegata
- Nazionalità
- italiana
- Biografia / Storia
- Non mi han mica tirato su a bignole!
Giuseppina,Biella,1928
Sono nata da una famiglia di origine vercellese. Mio padre era proprio di Vercelli e mia madre era di Casanova Elvo. Lui faceva il fuochista da Serralunga, lei prima lavorava in una ditta qui vicino, forse la Sella, e poi dal Benna in via Delleani. Sono figlia unica e sono vissuta fino a quattro anni a Chiavazza1, poi i miei hanno deciso di andare ad abitare a Ponderano, in una casetta vicino a nostri amici che venivano dal paese di mia madre. Siamo stati lì due o tre anni, poi hanno comprato una porzione di casa a schiera, sempre a Ponderano. Mio padre era venuto nel Biellese nel ‘22. Era uno di quelli che era uscito dal Partito socialista nel ‘21 per entrare nel Partito comunista. Nel ‘22 le squadracce fasciste battevano le campagne - erano pagate dai latifondisti - e una domenica mattina sono andati a casa a dire a mio padre che per lui lavoro nel paese non c’era più. Non si è perso d’animo: è venuto nel Biellese; si è cercato una cameretta. Ha girato, aveva qualche conoscenza, ha trovato da fare il facchino e si è trasferito qua con la mamma.
Mia madre andava in chiesa, frequentava le funzioni; mio padre non ci ha mai proibito di farlo, ha sempre lasciato ampia facoltà di decisione a me e a mia madre. La mia vita procedeva normalmente tra la scuola e l’oratorio: ho fatto la comunione, la cresima. Nel ‘39, finite le scuole elementari, mi apprestavo a dare gli esami di ammissione alle scuole medie. Avrei dovuto fare l’esame a settembre, perché non avevo pensato di farlo prima. I miei non avevano tanti soldi, gli stipendi allora erano quelli che erano..., ma io avevo voglia di studiare. Proprio allora i tedeschi invadono la Polonia. Mio padre, che purtroppo di guerra ne sapeva qualcosa, si è preso un po’ di timore: “Non abbiamo i soldi!” L’aveva mandato a chiamare anche il parroco: “L’aiutiamo ad avere la borsa di studio!” Ma aiutare è ipotetico, e se poi non ci riuscivo? Ho avuto buon senso: “Non ci vado, pazienza! Andrò a lavorare!” Ho rinunciato, a malincuore, ma ho rinunciato. Sono andata a imparare a cucire, fino a quattordici anni. I miei mi hanno chiesto se volevo fare la sarta o cos’altro volevo fare. Non mi piaceva stare seduta tutto il giorno a cucire. Ero un po’ irrequieta e preferivo muovermi.
Uno che lavorava con mio padre aveva il genero che faceva il portinaio da Cerruti. Questo ha messo una buona parola, sono andata e m’han fatto un esamino, e a metà luglio sono entrata in fabbrica, a quattordici anni appena compiuti. Sono andata in orditura a fare la porgifilo, la muccia, come si diceva allora. L’orditrice mi comandava a bacchetta, era una donna un po’ irrancidita, già avanti negli anni e da sposare, ma a me non è che desse tanto fastidio.
Era tempo di guerra e da mangiare non ce n’era tanto. Mi ricordo che mi riempivo le tasche di castagne secche e, quando uscivo alla sera, passavo dallo spaccio della fabbrica e mi compravo tre etti di fichi secchi. Prima di arrivare a casa me li ero mangiati tutti, quindi ero già abbastanza sazia. Nel magazzino dei filati c’erano sacchi di carrube, perché i Cerruti avevano ancora i cavalli. Li avevano poi venduti ma erano rimaste le carrube. Con la scusa che ci mancava un po’ di colore, andavamo là a mangiarcele perché anche quello aiutava a riempire lo stomaco! Mio padre aveva comprato un macinino per macinare il granoturco, perché noi avevamo un piccolo pezzo di terra. Di notte non andava a dormire e faceva girare questo macinino... non veniva farina molto fine, ma si mangiava anche quella!
Verso la fine della guerra, abbiamo fermato le macchine perché non c’era più pane, il famoso “sciopero del pane”. Le brigate nere sono entrate dentro e ci hanno picchiati. Io lavoravo in un orditoio, dietro di me c’era un telaio su cui lavorava una signora di Chiavazza, piccolina, ma piuttosto energica. Uno le si è avvicinato e lei ha preso una navetta e gliel’ha data sulla testa e poi è stata picchiata. Io mi sono ficcata in una cassa e mi sono messa il coperchio in testa! Sono rimasta lì finché ho sentito che era tutto passato... ero ancora una ragazzina e non avevo tanto coraggio!
Spesso mancava l’energia, e anche per periodi lunghissimi. Eravamo tutti seduti e si aspettava che tornasse. Arrivano dentro di nuovo e vanno nel magazzino filati. Portano giù tre ragazze, la Nella, l’Emma, la Ines, quest’ultima l’abbiamo rivista solo a fine guerra, tutta gonfia e irriconoscibile.
Poi è finita la guerra, mi ricordo il primo maggio di libertà che abbiamo avuto. Siamo andati tutti allo stadio di Biella ed era un bella giornata. C’era tanta gente! Il 2 maggio parto per andare a lavorare, ho sempre fatto la giornata, e pioveva e nevicava insieme. Il 2 maggio! Arrivo là: “Manca l’energia, stanno arrivando gli americani. Andate pure a casa!” Non ho fatto il solito giro e alla Rotonda ho visto arrivare i tanks americani!
Nel mio cortile c’erano parecchie ragazze, avevo un’amica di cinque anni più di me. I miei mi lasciavano volentieri andar fuori con lei perché era giudiziosa. A me piaceva tanto il cinema e, alla domenica, si partiva all’una e mezza, a piedi, e andavamo a Biella a vederci un film. Se era corto, ce ne vedevamo due! Correvamo fuori da un cinema per entrare in un altro! Ci bastava essere a casa per le sette, le sette e un quarto. Tante volte (durante la guerra ndr) si stava a casa da lavorare e tempo libero ne avevamo parecchio. Leggevo moltissimo, ho sempre avuto la passione: tutto quello che c’era di scritto, nero su bianco, io leggevo. La sera ci si radunava, anche con altre ragazze, in casa della mia amica che aveva anche due fratellini. Avevano una casa grande, una grossa cucina, ci scaldavamo vicino alla stufa a legna. Avevamo anche un grammofono, un po’ vecchiotto, con dei dischi più vecchi ancora, si suonava qualcosa e si facevano anche due balli tra noi ragazze. Nell’ultimo periodo, venivano giù alla sera anche dei partigiani. Ne avevo uno fisso, uno che era scappato dalla Piaggio2 ed era andato in montagna, che ci portava la roba da lavare. Passava da dietro, scavalcava il muretto, batteva. Sapevamo che era lui. Lasciava la roba sporca, prendeva quella pulita e se c’era qualcosa gliela davamo, un piatto di minestra. Se poteva, si fermava una mezz’oretta, un’oretta. Come lui ce n’erano parecchi, perché a Ponderano c’erano tanti partigiani. Mio padre, lavorando nel cuoio, un po’ glielo davano e faceva degli scarponi, un po’ grossolani, che dava a questi ragazzi che avevano tutte le scarpe sfondate.
Nel ‘45, a Carnevale, ero andata a trovare mia zia a Vigliano e mi ero fermata a dormire da lei. Al mattino vedo arrivare mio padre: “Non venire a casa! Ponderano è tutta circondata. Ci sono tutti i ragazzi a casa... dobbiamo studiare un sistema per farli uscire!” Gli uomini più anziani, come mio padre, che non correvano il rischio di essere presi e mandati al fronte, si sono tutti prestati e li han portati fuori. Ne han preso solo uno, che aveva tutte e due le gambe rotte e non poteva scappare..
La busta, fin che mi sono sposata, l’ho sempre data in casa. I miei bisogni, le mie necessità le han sempre coperte i mei. Se volevo qualcosa, lo dicevo e, se si poteva, beh, lo prendevo. Se non si poteva, me lo facevano capire. Non ho mai fatto capricci per avere quello che non potevo avere. Anche se ero figlia unica, non mi han mica tirata su a bignòle! Mi hanno insegnato che se non lavori non mangi; che non bisogna essere troppo “piagnoni”, perché la vita non è tutta rose; che non bisogna aver paura; che siamo tutti uguali; che non ci sono differenze; che uno ha avuto la fortuna di nascere ricco, l’altro non è nato ricco, però i ricchi vanno male alle volte, e i poveri stanno meglio. Bisogna solo avere un po’ di grinta: questo mio padre me lo diceva sempre, ma anche mia madre era abbastanza grintosa.
Nonostante da giovane frequentassi l’oratorio, le suore e la chiesa, già in tempo di guerra ho cominciato a diradare moltissimo. Una volta, c’era mia madre con me e ne abbiamo parlato tanto, ho sentito una predica in cui si diceva che la guerra era venuta per i nostri peccati. Mia madre, poveraccia, non mangiava quanto ne aveva bisogno. Le era venuta un’epatite ed è stata tra la vita e la morte non so per quanto tempo. Io avevo sempre fame. Che peccati facevamo perché ci dicessero quello? Lei non c’è andata più in chiesa e anch’io ho cominciato a diradare.
Finita la guerra, gli stipendi erano ancora da fame. I partigiani han trovato parecchio duro rientrare nelle fabbriche, perché i datori di lavoro non li volevano mica tanto. Han cominciato a denigrare la Resistenza: “Ah, quello lì! Sa solo lui i soldi che si è fatto in montagna!” E’ cominciata la caccia alle streghe. Se facevi sciopero ti guardavano di brutto, se eri troppo rosso eri guardato storto. Lavoro non ce n’era tanto. Facevamo tre giorni alla settimana e lì cassa integrazione non c’era, prendevi solo i giorni che facevi. Ma se il lavoro riprendeva, bisognava lavorare anche la domenica mattina. Tutte le giovani si erano messe d’accordo di non farlo. Il sabato, alle 8, arriva a casa mia una ragazza che era nell’ufficio del nostro capo: “Vi manda a dire che se domani mattina non venite in fabbrica, lunedì avete tutti i libretti pronti!” Abbiamo preso le biciclette, chi è andata a Chiavazza, chi a Sandigliano, ad avvertire tutte. Cos’altro potevamo fare? Dove trovavi da lavorare da un’altra parte? Le orditrici più vecchie... loro sarebbero andate a lavorare e speravano che noi non andassimo per dire al direttore: “Ha visto? Non han voglia!” Quando ci han trovate là, sono rimaste male. Questo però mi è sempre pesato un po’, perché è stato un compromesso con la mia coscienza.
Le orditrici, come le rammendatrici, erano una categoria che si considerava appena un passo sotto degli impiegati. Guardavano un po’ dall’alto… non si adattavano, loro, a sposare un operaio. Di sposate ce n’era una su dieci. Tutte un po’ acidine... Quando una di noi giovani veniva proposta per essere messa alla macchina, non ci aiutavano per niente, cercavano di boicottarci. Quella che avrebbe dovuto insegnare a me, ogni tanto mi diceva che ero un “gatto di piombo”. Non sarò stata Speedy Gonzales, ma ero abbastanza veloce! Lei era nevrastenica, tutta scattante. Mi hanno poi tolta di lì e messa in una macchina vecchia con un’altra che si era dimostrata un pochino più disponibile. Sono diventata orditrice abbastanza in fretta, ma facevo poi l’istruttrice delle porgifilo. Le più balorde, le più scadenti me le ficcavano tutte a me! Dicevo sempre di sì perché speravo sempre di tirar fuori qualcosa! C’era una ragazza che nessuno voleva - sarebbe stata da licenziare - e ho detto: “La prendo io.” Ha imparato, adagio, adagio. C’è voluto un sacco di pazienza, ma è diventata orditrice, e anche bravina!
Quando sbagliavo - perché non è detto che non abbia mai sbagliato, e in quei posti si possono provocare dei bei danni - andavo in ufficio e lo dicevo.
“Come potresti rimediare?”
“Così e così”.
Il capo sembrava burbero, ma con lui si poteva abbastanza parlare. Per segnare la produzione, si annotava tutto su un libretto che si lasciava sulla macchina. Una sera abbiamo beccato le anziane che si attardavano per andare a vedere sul libretto se segnavamo giusto. Una delle giovani ha aspettato la più anziana fuori della fabbrica e gliene ha fatto un “fagotto”. Quella corre di nuovo dentro in portineria: “La tale mi ha picchiata!” Il portinaio, che era una persona abbastanza furba: “Io non ho visto niente...Se eravate fuori della fabbrica sono cavoli vostri!”
Sono stata iscritta alla Cgil fin dal ‘46, ma le commissioni interne sono sempre state fatte nei reparti dove c’erano i lavori più brutti. Nei reparti un po’ d’élite, non ce n’erano: nel reparto ordissaggio, dove c’ero io, non ce n’erano e così in rammendatura.
A me piaceva tantissimo ballare. Avevo abbastanza libertà, con una sola clausola: dovevo rientrare a una certa ora, altrimenti la domenica dopo non si usciva più... piuttosto rientravo cinque minuti prima e non cinque minuti dopo.
Mi piaceva già allora fare politica. Ho messo su il gruppo delle donne socialiste, tutte ragazze. Abbiamo trovato la sede. Mi son data da fare: le iscrizioni, le tessere. Ponderano era un paese veramente socialista. Mi pare che fossimo diciassette, diciotto, solo ragazze. Nessuna votava ancora, perché allora ci volevano 21 anni. Poi c’è stata una scissione, una scissione proprio brutta, e mi son proprio sentita tradita. Mi sono allontanata.
Andavo in montagna... ero capace di partire alle quattro del mattino, ritornare alle sette di sera, lavarmi, cambiarmi, andare a ballare fino all’una, poi alzarmi alle sei per andare a lavorare. Non stavo mai ferma. Ho avuto qualche flirt, qualche amico. A casa mi dicevano sempre: “Ti diamo libertà finché non te ne approfitti. Se ti peschiamo in fallo, per te è finita!” Ero abituata ad obbedire. Ad esempio, una delle mie simpatie era uno che lavorava da Cerruti come fuochista, era il cugino di una mia amica. Quando i miei sono venuti a saperlo, non erano d’accordo perché lui aveva un brutto vizio: si ubriacava e, quando si ubriacava, diventava cattivo. Quando anch’io l’ho saputo: “Chiuso, finito!” Poi un altro di Ponderano, che mi piaceva parecchio. Ma lui mi teneva un po’ come una ruota di scorta. Magari al ritorno dal militare, se ero ancora disponibile. Ho detto: “Ci vediamo poi!” Ho cominciato a uscire con un ragazzo di Candelo, che poi è diventato mio marito, e che era tornato dalla prigionia in Germania. Ne avevo sentito parlare, appena finita la guerra, quando ritornavano i primi prigionieri. Uno era passato gridando per la via dove abitavo: “E’ tornato l’Abramo di Candelo! Era un ragazzino, quando l’han preso. Ha diciott’anni adesso. E’stato più di un anno in Germania... peserà venti chili!” E io avevo prestato ascolto. Quando un gruppo di ragazzi di Candelo è venuto a Ponderano, ho chiesto: “Ma chi è questo Abramo che è stato in Germania?” Me l’hanno presentato e abbiamo chiacchierato un pochino, ma non c’è stato seguito. Dopo due anni, ci troviamo una sera a ballare a Ponderano. Abbiamo legato. Un anno dopo - lui aveva ventun anni - mi dice: “Tutti han ricevuto il foglio per andare a militare. Io invece ho ricevuto il congedo...Cosa ne diresti se ci sposassimo?”
“Oh, già? Cosa andiamo a fare? Se andiamo d’accordo, adagio adagio cominciamo a programmare...”
Case non se ne trovavano, andare ad abitare coi suoi no, perché erano anziani, lui aveva ancora un fratello da sposare, e poi erano molto diversi come mentalità: gente molto di chiesa, timorosa, bravissime persone però non ci sarei stata neanche una giornata a convivere con loro. Glie l’ho detto francamente. Noi avevamo una casa abbastanza grande, l’ultimo piano era libero (c’era una piccola anticamera, la camera da letto, un bel balcone). Mio padre ci ha proposto: “Se proprio volete sposarvi... vi do l’ultimo piano. Per i primi tempi facciamo assieme, mangiate con noi.” E così abbiamo fatto.
Il mio matrimonio è stato tradizionale. Mia madre diceva: “Magari chiamo l’organista.”
“Ma mamma, suma mat?3 Ma se non vado in chiesa... Ci vado solo per sposarmi!”
“Facciamo addobbare la chiesa.”
“Niente...la teniamo com’è!”
Non ho voluto niente di straordinario, neanche il fotografo. Ero vestita di bianco, una cosa semplice, lineare. L’abito l’ha fatto la mia sartina, avevo un velo corto. Ma, quel mattino, nella nostra chiesa di Ponderano, un ragazzo si è fatto prete. E’ venuto il vescovo, la chiesa era addobbata perché c’era festa grossa. Ne ho approfittato e così mi sono sposata con organo, fiori, addobbi... tutto per niente. Ad ogni modo è stata una bella cerimonia. Abbiamo fatto il pranzo, alla sera abbiamo preso il treno e siamo andati a Torino. Siamo stati un giorno a Torino dai miei zii e poi siamo andati in viaggio di nozze a Venezia, otto giorni. Ci è piaciuto, siamo anche andati a Padova a trovare degli zii di mio marito.
Mio marito prima faceva il meccanico, poi di lavoro di questo tipo nel Biellese ce n’era pochissimo e allora è andato a prendersi la patente per guidare il camion. E’ entrato in una ditta di Biella che lavorava anche per la Fiat di Torino. Andava spesso a Torino e forse qualcuno ha visto che era capace a fare il suo lavoro: è stato richiesto da una ditta di Torino per fare servizio esclusivamente alla Fiat. Lui era incerto, aveva paura che io non fossi d’accordo, ma io ero disponibilissima a trasferirmi, curiosa come sempre di vedere città nuove. Mi sono messa a guardare gli annunci sui giornali: cercavano un’orditrice in una ditta di Torino. Scrivo e a giro di posta arriva la risposta che mi aspettavano...
Il lunedì seguente lui va a Torino e io, il martedì, mi presento a questa ditta. Mi hanno assunta, ma ho preso due mesi di tempo per non lasciare a mezzo il campionario, per non piantarli in asso. Casa l’abbiamo trovata abbastanza facilmente. Era il 1956 e a Torino c’era poca immigrazione. A Torino avevo dei parenti, dei cugini e degli zii che mi hanno segnalato un appartamento libero. Il padrone di casa ce l’ha affittato subito volentieri perché eravamo due giovani senza figli. Camera, tinello, un cucinotto, un bagno e un balcone. C’era il riscaldamento... era già una casa abbastanza buona. L’affitto era di quindicimila lire al mese, caro per allora. Era in via Sospello e io lavoravo al Lanificio di Torino, in via Bologna 240. Non era vicino, ma attraversavo la città in bicicletta. In via Sospello non ci siamo stati tanto, perché sotto avevamo un bar aperto fino alle due di notte! Mio marito si alzava alle quattro e mezzo - cinque e si dormiva poco con quel fracasso!
I miei si trovavano spersi a Ponderano e hanno deciso di vendere casa e di venire a Torino. Abbiamo comprato due alloggetti, uno per noi e uno per loro.
Al Lanificio di Torino lavoravano malissimo, ma proprio male da cani... erano indietro di cinquant’anni. Io ero abituata alla qualità, lì si puntava alla quantità, ma con tutti gli errori che si facevano si impiegavano delle giornate per recuperare e ti mangiavi anche la quantità. C’era una maestra, che ne sapeva meno di una porgifilo. Veniva magari a cominciarti la pezza, la cominciava sbagliata e poi la colpa era tua! Erano cose che non mi stavano bene. Una sera, dopo sei mesi, ero arrabbiata e, mentre vado a casa in bicicletta, passo davanti a un altro lanificio, il Lanificio Giordano in corso Vigevano. Mi fermo, suono, chiedo alla portinaia se cercavano orditrici, se si poteva parlare con qualcuno. C’erano il commendator Foglia e il marchese Fracassi, vengono tutti e due e mi fanno un fracco di domande. Il commendator Foglia lo avevo già conosciuto qui nel Biellese. Questi signori, molto gentili, mi portano a vedere le macchine. Praticamente ero assunta e mi avrebbero dato la stessa paga che prendevo nel Biellese (nel Torinese i tessili prendevano molto meno).
Il giorno dopo vado in ditta e dico al caporeparto che mi dimetto. “Ma non è possibile!” Manda a chiamare il direttore che mi chiede: “Perché?”
“Prima di tutto perché prendo poco; in secondo luogo perché non si lavora bene e io non sono abituata a lavorare così!”
Hanno deciso di darmi anche loro la tariffa biellese, ho chiesto che ci fossero delle modifiche nelle lavorazioni... non dico di fare tutto come si faceva da Cerruti, ma almeno, le cose buone che lì non si facevano ancora, di farle! Devo dire che le compagne di lavoro, le orditrici e le porgifilo, avevano una maggior coscienza sindacale rispetto a Biella. Lì c’erano veneti, meridionali, un po’ di tutto, e forse per quello la mentalità era molto più aperta. C’era veramente solidarietà.
A Torino mi trovavo bene. Allora aveva 700.000 abitanti. La sera uscivi, c’erano i dehors, i circoli del Partito socialista e del Partito comunista dove si giocava a bocce, facevi merenda, ballavi. Torino era una città tranquilla, vivibile, non come è diventata dopo l’immigrazione di massa. Quando sono arrivata io, in fabbrica funzionava già la mensa. Non di precotti, era proprio una mensa con un cuoco, una cuoca, c’erano tre primi, tre secondi. Sceglievi e se volevi qualcosa come una bistecca ai ferri, te la facevano al momento. A un prezzo veramente buono. In mensa poi si potevano fare discussioni, anche di commissione interna. Le grandi città erano più avanti delle piccole.
Quando sono arrivati i miei a Torino, mia madre si è ammalata. Un tumore ai polmoni. Le han dato poche settimane di vita, ma è campata tre anni e mezzo. Mio marito ha avuto un grosso incidente ed è stato sei mesi in ospedale. Lui, già reduce da Dachau! Mi sono divisa tra l’uno e l’altra, e la fabbrica. Quando mia mamma stava male, stavo a casa. Permessi me ne hanno dati parecchi. Quando è morta la mamma, forse per lo stress, mi è venuta una faringite. Mi hanno curata con degli antibiotici, ma hanno lasciato il tempo che trovavano. Arrivavo alle dieci di mattina e non parlavo già più. Ero la maestra, dovevo dare spiegazioni, impostare le cose. Non riuscivo a parlare e dovevo arrivare alle cinque di sera! Il dottore mi ha detto che dovevo fare una cura seria. Ho chiesto l’aspettativa e al mio posto è andata l’altra ragazza biellese che lavorava lì. Era la migliore, l’unica che poteva farlo. Dopo un po’ di tempo, stavo meglio. Sono venuti a chiamarmi, a dirmi se volevo rientrare. Ho detto di no, perché mi spiaceva toglierle il posto. Allora mi hanno proposto di andare nell’ufficio vendita tessuti dove arrivavano le ordinazioni e dovevi seguire le lavorazioni fino alla spedizione. Sono andata, sperando di farcela. Ci sono riuscita e mi hanno passata impiegata. Ho cercato di integrare le poche scuole che avevo. A Torino ho fatto tre anni di scuole serali e un corso di steno-dattilo. Mio marito è stato molto disponibile: non si lamentava se non c’era la cena pronta, se doveva lavare i piatti. Ci aggiustavamo noi due, non avendo figli. Inizialmente speravamo di non averne: volevamo farci un po’ di base, un po’ di fondamento. Dopo, quando avremmo potuto averne, per motivi miei, di salute, non ho più potuto avere figli. A mio marito i bambini piacevano, ma non ne ha fatto una malattia: “Lasciamo stare. Stiamo benissimo noi due... non pensiamoci più!”
Per più di vent’anni sono stata lontana dalla politica. A Torino ho cominciato a sentire che mi mancava qualcosa. A casa si parlava sempre, la politica era “in tavola” tutti i giorni da noi. Avevo un cugino carissimo, quasi un fratello per me che non ne avevo, che lavorava all’“Unità”. Anche lui autodidatta, perché veniva da un paesino vicino a Vercelli e aveva fatto solo la quinta. Prima faceva il magazziniere, poi è andato in archivio, e poi alla telescrivente. Una bella testa, un bel cervello. Ero affascinata da questa persona e ci frequentavamo molto e in casa sua ho conosciuto Rondolino e Pacifico4 e via dicendo. Non mi sono iscritta subito, ero una comunista in attesa...
Ad un certo punto, la segretaria del direttore va in maternità e m’han proposto di sostituirla. “Non so se ce la farò.” La sera, anziché alle sei e mezzo, uscivo alle sette e mezza - otto. Da segretaria non sapevo fare un tubo. Ho dovuto imparare a fare le fatture, tenere i contatti con l’esterno... Nonostante tutto, la mia passione più grande è sempre stata fare l’orditrice... il mio primo lavoro è quello che mi è piaciuto di più!
Poi è morto il nostro datore di lavoro che era un biellese di Sordevolo, una brava persona. Sono subentrati i suoi figli, questi purtroppo erano tutto il contrario del padre. Volevano vivere tranquilli, soldi ne avevano una barca, e volevano smantellare la fabbrica. Ho cominciato a drizzare le orecchie. Mio marito aveva un buon impiego ed era già un po’ di tempo che insisteva che rimanessi a casa per dare una mano a lui e per accudire un po’ di più la casa. Sono stata ancora sei mesi e poi ho detto: “Prima di farmi licenziare da loro, è meglio che me ne stia a casa io.” Nel 1970 mi sono dimessa: avevo 42 anni e 28 di lavoro e infatti non è che prenda una gran pensione... Sono stata contenta perché poi ci siamo fatti tanta compagnia! Io, essendo a casa, l’ho sempre aspettato per cena, anche se arrivava a casa alle nove, nove e mezzo. Poi magari stavamo due ore a tavola a parlare, finché lui crollava dal sonno e si andava a letto. Ma parlavamo sempre! Abbiamo sempre parlato tanto, di lavoro, di politica. Non sempre eravamo sulle stesse posizioni, ma discutevamo. Forse il nostro matrimonio è stato buono anche per quello: tutto quello che ci passava per la testa ce lo dicevamo.
Avevamo comprato un alloggio più grande, in zona Monterosa. Mio papà si era riaccompagnato ed era andato ad abitare al mare. Mio marito era stato poco bene ed è andato dal dottore: “Ma scusi. Lei, montato com’è, non ha mai pensato di chiedere l’invalidità?” Era nel ‘73. Hanno respinto la domanda e abbiamo fatto ricorso. Glie l’hanno data nel ‘75. Ha lavorato fino al ‘77 finché la ditta per cui lavorava è entrata in crisi.
Abbiamo deciso di ritornare nel Biellese, perché lui diceva sempre che non se la sentiva di stare a Torino da pensionato. Voleva tornare perché, nonostante fosse di origine veneta, sentiva il Biellese come casa sua. Abbiamo venduto l’alloggio di Torino e abbiamo comprato una casetta a Candelo. Mio marito ha preso l’appalto per guidare lo scuolabus del Comune. Ma io ho avuto delle crisi terribili! Non mi piaceva più stare in un paese piccolo, non mi piaceva più. A Torino, quando avevo smesso di lavorare, avevo tanto tempo. C’erano mostre, ho visitato tutti i musei: Risorgimento, Egizio, Pietro Micca, la Cittadella. Andavo da sola perché non è che avessi delle amicizie e i parenti avevano ognuno la loro famiglia. Ma, nella grande città nessuno fa caso se vai ad una mostra da sola. A Candelo mi sono sentita spiazzata.
Due anni dopo, nel ‘79, mio padre ci ha proposto di tornare a Torino. Io ero molto tentata e mio marito, per farmi contenta, mi ha seguita. Abbiamo comprato un alloggio, con l’aiuto di papà, in zona Parella Campidoglio. Abbiamo fatto di nuovo trasloco. Dopo un po’ mio marito si mette a dire: “Ma io non ci sto mica!” Era estate e Torino, d’estate, è orribile. Tutto chiuso, tutto sporco. All’inizio di settembre gli ho detto: “Senti, non mi piace vederti così... vai giù.” Mio padre rimane solo e vuol venire con noi. L’alloggio da grande diventa piccolo. Gli ho detto: “Non voglio sacrificarti più! Vai a Candelo e ‘buona notte!’” E’ andato a vedere se poteva riprendere lo scuolabus. Gli han detto di sì e subito gli han trovato casa. Ha messo tutto a posto. Io venivo il sabato e la domenica e lo aiutavo. Ho detto al papà: “Senti, non possiamo rovinarci la vita per restare a Torino. Se vuoi, ci segui.”
“Sì, sì... vengo anch’io”.
Ha continuato a fare lo scuolabus per altri quattro anni. Nel frattempo, è venuta l’occasione di comprare una casa a Biella. L’abbiamo ristrutturata. C’erano tre alloggi, uno l’ha preso sua sorella, l’altro mia cognata e mio nipote e uno noi.. Nel 1982 ci siamo trasferiti lì. Mio marito e mio padre hanno avuto il loro da fare. Mio papà, a quasi 87 anni, ha fatto ancora insieme a mio marito il muretto di divisione. Era tutta gente attiva, ancora in gamba. Poi, purtroppo, mio marito ha fatto un’operazione ed è saltata fuori una cosa che non doveva saltar fuori. Gli han dato due anni di vita, poi, fortunatamente, sono stati cinque e passa. Io lo sapevo, lui no. Negli ultimi tempi l’avrà saputo anche lui, perché non era stupido. Con me non lo diceva, perché lo sgridavo, ma con gli altri lo diceva: “Questa volta, forse, ci lascio le penne!” Dopo vari giri, medicine, chirurgie, Pavia, Torino, è morto nell’agosto del 1989. Dove stavamo bene in tre, ci sto larga da sola. Però mi piace starci e ci starò...
I primi tempi sono stati terribili. Non avendo né fratelli né sorelle, son rimasta proprio spiazzata. Non potevo neanche aprir bocca che “magonavo” subito. I compagni di Candelo sono venuti a contattarmi e hanno cercato di coinvolgermi in qualche attività. Ho cominciato a capire che il mondo era anche fuori, non solo dentro le mura di casa mia. Poi hanno fatto il mio nome alla Camera del Lavoro per fare il “740”. Subito sono stata un po’ titubante: “Se trovate qualcuno più giovane...” poi sono andata. Sono stati quaranta giorni effervescenti. Tanto da lavorare e anche arrabbiature, ma a me il contatto con la gente è sempre piaciuto moltissimo, ho conosciuto tante persone. Mi hanno fatta sentire a casa mia. Sono uscita un po’ dal tunnel. Mi hanno poi proposto di entrare nel Sindacato pensionati di Candelo...Accettato! Mi sono impegnata, ho trovato gente disponibile a starmi vicina, a aiutarmi moralmente. Mi trovo veramente molto bene... a Torino non andrei più... oggi come oggi, sto benissimo dove sono.
1 Un quartiere di Biella
2 Durante la guerra gli stabilimenti Piaggio da Pontedera erano sfollati nel Biellese.
3 Siamo matti?
4 Della redazione torinese de “L’Unità” .
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Biella
- Qualificazione:
- orditrice
- Luogo:
- Torino
- Qualificazione:
- maestra di orditura
- Luogo:
- Candelo
- Qualificazione:
- attivista sindacale
- Cariche e funzioni
- Qualifica:
- iscritta alla Cgil
- Qualifica:
- iscritta al Pci
- Qualifica:
- consigliera comunale a Candelo