Persona
Drago, Dina
- Nascita
- Luogo:
- Bioglio
- Data:
- 24 maggio 1907
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- operaia di maglieria
- Qualifica:
- tessitrice
- Biografia / Storia
- Ci voleva lo sgabello per farmi arrivare alle macchine
Dina, Bioglio (Biella), 1907
Sono la quinta di sette fratelli. Mia mamma era nata a Ficulle1, dalle parti di Roma, in provincia di Terni. Mio papà era di Lessona, era D. Felice. Mio papà - erano tre fratelli - non era giusto con gli altri fratelli: era di un’altra mamma. Quando i figli sono diventati più alti, non so per qual motivo e quali conoscenze avessero, sono andati a Roma e hanno messo su un negozio di verdure e facevano anche mercato. Lui non andava tanto d’accordo con la matrigna e anche gli altri fratelli l’hanno messo un po’ da parte e quando c’erano gli affari da fare lui era sempre quello scartato... A Roma ha conosciuto mia mamma, perché il papà di mia mamma aveva anche lui un negozio di macelleria. Si sono sposati e sono nate due mie sorelle a Roma, Vittoria e Maria, una nel 1894 e l’altra nel 1895. Con ‘sti due fratelli non andava granché e mio papà ha detto: “Mah, ritorno a Lessona! Cerco una casetta per star lì con ‘ste due bambine”. Poi lì, a Lessona, non andava bene neanche lì. Alla mamma non piaceva proprio... Lui faceva il contadino. S’è messo a prendere qualche po’ di terra intorno alla casa e credeva di poter ambientarsi, invece niente! Non so per quale motivo, qualche mercato... o se avesse incontrato qualcuno di Bioglio, sono venuti a Bioglio. Lì è nata mia sorella Ester, mio fratello Fernando, poi io, Peppino e Renata Siamo stati allevati lì, a Bioglio, tirando avanti con la campagna, un po’ di bestie... Mio papà andava a giornata a fare qualche lavoro e la mamma, figurarsi con tutti ‘sti figli, doveva stare a casa. Certo che lei ha dovuto ambientarsi... prima la sua vita era più tranquilla, più comoda... ma sa, la vita... il destino!
Posso ricordarmi di quando si è sposata mia sorella, la prima. Aveva vent’anni, si è sposata nel 1914, a Bioglio. Aveva sposato un certo C. Fedele, un capomastro. Era un uomo molto intelligente, un socialista... una cosa speciale come uomo, proprio tanto tanto intelligente. Si faceva notare, aveva un colloquio spontaneo ma molto corretto, molto da ammirare... incantava quando parlava e non solo noi, perché noi.... zoticoni come eravamo!
Io sono andata a scuola dalle suore... i maestri c’erano solo per i maschi, qui in piazza, mentre noi andavamo all’asilo... In quinta è venuta malata la suora e siamo andate a finire le scuole con un maestro che si chiamava Uberti Bona. Mia mamma, malgrado tutte le sue miserie, vedeva la scuola prima di tutte le altre cose. Mio papà era un po’ zoticone...”Oh, dovrei fare questo e quest’altro! Manda giù qualcuno!”
“No!” - rispondeva la mamma - “Prima deve fare i suoi compiti! Quando poi è disponibile, potrà venire!”
Prima c’era da fare il compito...
Il giorno del matrimonio di mia sorella, mia mamma m’ha mandata a scuola perché diceva che non era il caso che stessi lì al matrimonio. Trovo una donna che chiamavamo la “mulinera”: “Ma, at vé scóla?”2
“Ma perché, mulinera, non devo andare a scuola?”
“Ma perché si sposa la tua Vittoria... la spusa al Muretu!”3 - lo chiamavano il Moretto perché era nero di carnagione.
“Oh ben ben! Dopo la vedo!”
La mia Vittoria non era sempre stata con la mia mamma, era stata a Lessona da una mia zia, che la voleva tenere lei... “Senti, tu ne hai tanti... femmine ne hai due. Lasciane una a me! Lasciane una a me!”: Quando sono nata io, la mamma ha detto: “Adesso gli altri devono andare a lavorare o cosa... Chiamo la Vittoria che venga ad aiutarmi!” Lei ha dovuto venir su e ce l’aveva sempre con me: “Sei nata tu e ho dovuto venir via... Io imparavo a far la sarta, imparavo questo e quest’altro!” Era arrabbiata... ma sa com’è nelle famiglie, se è necessario è necessario...
Allora si lavorava già a dieci anni. Io a undici andavo già a fare i lavori in campagna, al mattino a portare letame e al dopopranzo a raccogliere le foglie per le mucche. Quando c’erano le vacanze a scuola, andavo lì da quel signore, ero già prenotata: “Vieni giù, dobbiamo far questo, far quello!” E poi dovevo aiutare anche in casa... Era un martirio. Un bel giorno mi sono decisa e ho detto: “Adesso voglio andare a lavorare... Ti, Ester, ciama ‘n pó là ‘nt la fabrica si a iè gnün ca l’a manca ad mi!”4
Mia sorella Ester lavorava da Bertotto Pietro, alla Romanina. Ha chiesto e sono arrivata in questa fabbrica... Ero talmente piccola... non arrivavo nelle macchine con le spolature. Sa, ci sono quei grossi cassoni con quelle matassone così che filano... Non ci arrivavo. Il capo dice: “Ma io non posso correrti dietro con lo sgabello per farti arrivare alla macchina! Devi cercarti un altro lavoro!”
Mi mette con delle donnette vecchie, anziane, brutte. Ma brutte che avevano proprio lo specchio dei brutti! Bisognava girare a mano la ruota per ricuperare le spole. Non osavo dir niente, ma al secondo giorno: “Ma io non voglio mica far questo lavoro! Non voglio mica stare con ‘ste vecchiette!” Mentre facevano girare la ruota dormivano. Io riempivo i tubetti di acqua e quando ne vedevo una dormire, zac!, glielo tiravo! Oppure battevo le mani e dicevo: “Ehi! A i è al padrùn!”5 E allora queste si tiravano su e avanti a far girare!
Arriva il giorno che dobbiamo andarci a prendere la paga. Arrivo davanti a uno sportello - come fosse un ufficio postale - : “Senta, - dico - ma io non voglio mica stare a fare quel lavoro lì! Non posso star ferma tutto il giorno con quelle donnette... Se non ha altro lavoro da darmi, mi segni gli otto giorni... Io sto a casa!”
Quando mia sorella è andata anche lei a prendersi la paga, questo glielo dice. “Oh ma basta là! Aspetti prima di segnarle gli otto giorni che le parlo io!” Per la strada - perché si faceva la strada a piedi da Bioglio alla Romanina, passando per Banchette - “Cosa ti è preso di andare a dire al Severino che vuoi segnarti gli otto giorni!?” E schiaffi giù per la strada! Me ne ha dati tanti! Ciaf! Cercavo di correre e mi correva dietro! Eh, proprio una tragedia!
A casa ho detto: “Guarda mamma, vado a cercarmi un altro lavoro!” e lei: “Ah, no! Ma devi avere pazienza! Chissà, cercheranno qualcos’altro da darti da fare!”
Ma io sono andata lo stesso. Arrivo alla portineria del Modesto Bertotto: “Sono venuta a cercare lavoro”
“Ma oggi è domenica!”
Si vede che si è presa anche della compassione, questa qui, perché mi ha detto: “Vado a vedere se c’è il signor Modesto, se può parlarti!” Arriva ‘sto signore e mi chiede da dove venivo, cosa volevo fare... “Guardi, lavoro da suo cugino, ma non mi piace lavorare lì... A star seduta tutto il giorno io non ce la faccio! C’è un lavoro che posso muovermi?” Si è messo a ridere: “Ma sciù chi uma da büteti fé!..6. Vieni mercoledì e vediamo”. Vado a casa: “Mamma, ho trovato lavoro! Vado mercoledì!”
M’han messa a portare trama nei telai, con quei canestri grossi per mettere dentro le spole. Venivo dal magazzino e portavo giù le spole nei telai, erano trecento telai! C’era un’altra insieme a me, che era di Veglio. Ci facevamo compagnia. Ero contenta, ero contenta! Lavoravo come una matta... ma lavorare proprio! Dei carichi di spole, con quel cestone grosso! Me lo tenevo qui sul fianco, alta così!
Un giorno sono andata nel magazzino del cardato e in mezzo alle spole vedo saltar fuori qualcosa... un nido di topi! C’era un tessitore che era chiamato Canùn7, di soprannome. Un ometto, uno giovane... “Guarda che belli! Li porto al Canùn!”
“Ah, Canùn! Ti ho portato le spole!”
“Sì, sì! Lasa püra lì!”8
C’era un passaggio in mezzo ai telai, ha tirato una cordicina e, quando sono passata di lì, c’erano sette o otto topi appesi! M’ha preso e ha detto che dovevo baciarli tutti! Oh, per carità! Delle guerre!
Facevo sempre scherzi, una volta a un altro ho cucito i calzoni in fondo!
Sono andata avanti benissimo... soltanto mia mamma è venuta malata. Mia sorella prima si era sposata e era per conto suo. L’altra mia sorella, Maria, era a Biella. C’era una conoscente di Bioglio che era anche lei commessa in un negozio e ha detto: “Ah Maria, vieni che c’è posto nella Cooperativa cattolica”. Veniva a casa il sabato. Ha conosciuto uno di Cossila, un commerciante di legnami, un certo Caneparo, che era separato dalla moglie che faceva la maestra. Poi questa donna, accendendo un fornellino non so se a alcol o a petrolio, s’è bruciata tutta ed è morta. Lui aveva dei fratelli in America ed è andato giù anche lui. Ha detto: “Adesso comincio a andar giù, poi ti mando a chiamare. Vieni giù anche tu con il bambino”. Il bambino, si chiamava Carlo, incominciava ad andare a scuola... Mia sorella va giù in America e lascia il bambino a noi, a mia mamma. Diceva: “Se te lo lasciassi un po’... mi spiace proprio non dargli un’idea dell’italiano...” E mia mamma: “Oh par carità! Laslo chì, ansèma i aut la sta fin-a cëll!”9. Quando mia sorella sarebbe stata d’accordo di farselo mandare giù... Mussolini non lasciava espatriare. Viene con vent’anni e va a fare il soldato... mentre è soldato scoppia l’altra guerra... di modo che lui non è potuto andare via. E’ stato fatto prigioniero, è andato in Grecia, Corinto, giù di lì... Mia sorella diceva sempre: “Oh, ma non posso avere ‘sto figlio! Non posso avere ‘sto figlio!” Intanto le era morto il marito e desiderava tanto ‘sto figlio... A Corinto c’è stata una gran battaglia. Mia madre era tanto malata di cuore a quel tempo... io ero poi sposata, avevo già la figlia e abitavo sotto. Ogni tanto andavo su da mia mamma. Un giorno arriva un carabiniere e mi dice: “Qui è D.? Perché avrei una comunicazione da fare”.
“Sì c’è il papà, ma è tanto anziano... Cosa è successo?”
“Abbiamo avuto comunicazione che D. Carlo è morto in battaglia a Corinto”.
“Guardi... io non dico niente né a mia mamma né a mio papà... mando in caserma mio marito”.
La sera arriva mio marito, gli spiego. “Non dirmi quello!” Nel mentre il postino arriva con una cartolina della Croce Rossa che diceva che non era morto, che era ancora vivo. Tra le due versioni non si poteva sapere quella giusta e quella sbagliata. Abbiamo passato otto-dieci giorni! ‘Sti carabinieri che andavano e venivano... Poi è arrivato e è andato in America e lì finisce la sua... la nostra storia perché lui poi s’è fatto la famiglia. Si è sposato con un’italiana di Foggia e ha avuto tre figli. Viene ancora su di tanto in tanto.
Poi si è sposato mio fratello ed è rimasta la Renata. Si è sposata uno di Bioglio, che era sempre stato in Francia. Aveva divorziato, non aveva divorziato... non si è mai saputo bene... di modo che qui si sono sposati soltanto in civile. Un tipo piuttosto... da non considerare. Ha avuto due figli, sempre combattendo con l’uno e con l’altro. Adesso è malata, al Cottolengo... E’ anziana anche lei... è del ‘10. Siamo ancora in tre: io, lei e mio fratello del ‘12... cinque sono andati...
Noi sorelle abbiamo lavorato tutte in fabbrica. La mia Ester faceva la pinzatrice, la Vittoria era in filatura dai Botto, al Mulin Gròs. La Maria è andata poco perché poi ha fatto la commessa. Il fratello faceva il muratore assieme al marito della Vittoria.
Quand’ero piccola, per noi era poco festa. Non c’era l’oratorio. Io e un’altra mia vicina avevamo l’impegno di tenere la biblioteca. Se lei avesse visto com’era ben sistemata! Era della chiesa. Venivano le donnette a prendere i libri e a portarli. Noi li segnavamo... li tenevamo tutti ben messi, senza polvere, niente... La domenica venivano a prenderli e dopo li riportavano... un continuo così. La biblioteca era bellissima, dei libri bellissimi... tanti ne ho letti.
Il dopopranzo della domenica ero impegnata lì, con l’altra mia amica che si chiamava Gianna. Andavamo molto bene, sennonché d’inverno... andavo su con un fagotto di legna per accendere la stufa e poi c’era l’inconveniente che ‘sti libri erano sempre scoperti e tutte le settimane dovevamo togliere la polvere. “Ah Gianna, potessimo almeno trovare delle tende da mettere qui!” C’era una scala che andava su nel sottotetto della chiesa... siamo andate a vedere se trovavamo qualcosa. Sotto in chiesa c’era la funzione e noi scivolavamo sulla cupola... Quando andavo a Bioglio c’era ancora qualcuna che si ricordava: “Ah ma Dina, quante che t’è facc-ni! Cula vòta an gésa!”10 Quel povero prete deve aver detto quella funzione tutto in fretta, per poter venire su!
Giocavamo in casa, un po’ alle carte. Facevamo un po’ gli stupidini. Più di tutto stavamo nelle stalle. Era Natale e mia sorella mi aveva regalato un bel grembiulino rosso, bello, ben fatto, con delle alette... Mia mamma: “Oh, non metterlo nella stalla che poi ti prende l’odore!” Me lo son messo fuori... la mia mamma, poveretta, manda la mucca fuori a bere nella vaschetta che c’era e la mucca me l’ha mangiato. Ho pianto per tre giorni!
A ricamare, lavorare all’uncinetto ho imparato così, per istinto, guardando qualche libro. Ho fatto una bambola che mi dispiace non averla conservata. C’era una donna che faceva un po’ la sarta e andavo sempre lì intorno a prendere dei ritagli, portarli via. Con quelli ho fatto una bambola. Ho disegnato gli occhi, la bocca. Coi fili di una coperta ho fatto i capelli... con la treccia... tutta la testa fatta di capelli... tutti ricci! Una cosa da vedere!
C’erano due sorelle, che erano venute da Torino, già più anziane di me. Tutte signorinette, si tenevano un po’ in disparte e io, invadente com’ero, andavo lì e le stuzzicavo. Erano tutte un po’ delicatine e la loro mamma diceva alla mia: “Ma lei con tutti ‘sti bambini, come fa a tenerli così bene?” Che avevamo delle facce rotonde, bianche e rosse! Mangiavamo polenta e latte, ma eravamo sani.... Poi siamo diventate amiche. Loro avevano delle bambole! Figurarsi! Io le guardavo e mi sembrava di vedere il mondo! Ogni tanto me le prendevo, le portavo fuori con l’ombrellino... facevo un po’ la signorinetta!
Avevo un’inventiva speciale! Peccato che ero una poveretta... non è per vanto. Ho fatto la quinta classe e c’era una suora che era bravissima. Una suora terribile, ma brava a insegnare. In un anno faceva tutto il programma della scuola. Tutte le sere segnava sulla lavagna venti, venticinque parole del vocabolario. Dovevamo cercarle nel vocabolario, scriverle, studiarle e poi il mattino dopo recitarle. Non era permesso dire: “Questa parola non l’ho trovata!”, perché rispondeva: “Che vocabolario avete? Ci deve essere, dovete saperlo!” Abbiamo studiato quasi tutte le parole del vocabolario!
Non ho potuto continuare, ma se potevo... l’italiano io lo sapevo benissimo.
Prima di sposarmi sono andata a lavorare in maglieria, dai Cappio a Campore. Ho lavorato sei anni nella cucitrice. Si facevano tante camicie di seta, mutande, maglie, polsini. Poi mi sono sposata. Ho trovato ‘sto marito, un brav’uomo, un santo... un lavoratore matto che, pur di non farmi faticare, avrebbe lavorato anche di notte. Di Bioglio, soltanto che era sempre stato via... Era andato in Algeria, in Francia a lavorare. Faceva il muratore, cottimista.
L’ho conosciuto che avevo diciotto anni. Andavo a Campore11 con le altre. “Non corriamo tanto che dietro ci sono i soldati...” C’era una pattuglia di una ventina di alpini che andavano su verso la Valsesia. Arriviamo a Campore e, all’incrocio, c’era uno fermo che parlava col pittore. Ho chiesto: “Chi è quello lì che parla insieme al pittore?”
“Oh, a l’è al Mario dal Munt...”12
“Non l’ho mai visto...”
Finito lì, invece lui mi ha notata. Fatto il soldato è venuto a casa e mi ha cercata. Io non andavo mai in giro per il paese. Il marito di mia sorella Ester mi ha avvisata: “Guarda che c’è il Mario che ha bisogno di parlarti”. C’era mia sorella Renata che andava a fare i servizi alla domenica in un albergo, lì a Bioglio, e mia mamma diceva: “Vai a aiutare la Renata che venga a casa un po’ presto!” Lui ha saputo che io andavo qualche volta ad aiutare mia sorella e si è presentato lì. Io stavo per uscire... “Oh! Vèn magari cumpagnéti!”13
“Non abito tanto lontano, appena lì sotto... alla Cà ‘d l’Ungia!”14
“Ah, ben ben fa niente! “’nduma giü an tòch ansèma!”15
Così ci siamo conosciuti, parlati... poi lui è andato con suo papà che lavorava in Francia. Ci siamo lasciati con nessuna promessa.... Senza avere proprio una fissa di questo ragazzo, però non cercavo... Ne avrei avute di occasioni. Quando è tornato poi mi sono sposata. Avevo trent’anni.
Siamo andati ad abitare nella frazione Monti, sempre lì a Bioglio. In affitto. Regali, a quel tempo... C’era uno zio che mi aveva regalato la cucina, la cucina economica... e poi, nella fabbrica, i piatti, le pentole, qualche cosetta così. Lui, stando sempre via, non aveva tante amicizie.
Il mio è stato un parto terribile. Sono stata tre ore sotto i ferri, a casa. Mia sorella Ester era andata all’ospedale per una maternità. Quell’anno all’ospedale s’eran gelati i tubi, non c’era più riscaldamento. Era stato quell’inverno terribile che c’era stato tanto freddo... è morta tanta gente di freddo... S’è presa la polmonite, è morta dopo diciannove giorni dal parto. E mia mamma non voleva più che andassimo all’ospedale: “Oh per carità, non farmi più quello!” Di modo che sono stata a casa.... ‘sto parto non si presentava bene, s’era puntato qui tutto da una parte, non veniva. Non c’era dilatazione.
Il dottore è venuto al mattino: “A mezzogiorno in punto sono qui... intervengo io”. La bambina è nata verso l’una, l’una e mezza... Avevano tappezzato tutto il letto, fatto bollire le lenzuola... E’ intervenuto così a freddo, senza anestesia... Dei mali da morire, dei gridi! Sono stata tre mesi senza potermi muovere dalla camera... le mie gambe erano diventate piccole come le gambe di una sedia. Avevo anche una mammella cieca, non avevo il capezzolo...
Il dottore mi ha detto: “Può avere un’altra maternità, ma lei non sopravvive.... Verrà fuori il bambino, ma lei non ce la fa!”
Dopo nove anni, che la figlia è venuta alta, io volevo andare a lavorare e lui non voleva assolutamente. Venerava ‘sta figlia... Ho detto: “Guarda Mario, devo proprio andare a lavorare perché devo pensare anche alla mia pensione!”
Quell’anno mia figlia, la Cornelia, aveva sempre un po’ di mal di gola, aveva le tonsille... il dottore mi ha consigliato: “Se tu potessi mandarla al mare!” C’era un prete qui a Biella che portava i bambini alle colonie... a Imperia. L’hanno accettata e dovevo andare a Vallemosso a comprarle delle robine da mettere al mare: costumini e tutte ‘ste cosette. Andiamo al mercato e allora si andava a piedi, passando davanti a tutte ‘ste fabbriche. “Guarda quante fabbriche e che io non possa andare a lavorare a causa di quell’uomo!...” Sono andata alla portineria di una: “No, non c’è niente!” Tiro dritto e vado giù a finire al Mulin Gròs, l’Albino Botto. Sistemo la Cornelia sotto una pianta, con dei biscotti. “Sta’ lì che devo andare a parlare con un signore!”
Non ero più giovane, avevo circa quarant’anni perché mi sono sposata con trenta e a trentatré ho avuto la figlia... La portinaia mi dice: “C’è il signor Federico che può magari riceverla”. Mi si presenta questo qui, mi chiede da dove vengo, chi sono, cosa facevo. “Da quanto tempo che è a casa?”
“Nove anni”.
“Oooh, se è nove anni, può stare ancora di più! Non è che c’è molta premura!”
“Beh, non è che ho proprio premura, ma non posso arrivare a dieci! Dico solo se può prenotarmi in qualche posto”.
“Avrei bisogno d’una pinzatrice”.
“Ah, quello non so farlo... ma posso imparare. Non importa se non mi paga per un po’ di tempo, basta che posso imparare!”
Sono andata a casa, non ho detto niente al marito perché se dicevo che ero andata a cercarmi lavoro mi mangiava viva. Un giorno mi sono messa a fare pulizia in camera - la Cornelia era già otto, dieci giorni che era al mare - ho tirato giù le tende, ho fatto il bucato... Arriva uno a chiamarmi dalla ditta che l’indomani dovevo andare a lavorare. “Oh, mamma mia! Come faccio a dirglielo?”
Arriva a casa la sera e trova ancora tutta la casa sconquassata. “Ah, ma non hai fatto la cena?”
“Adesso la facciamo. Facciamo in fretta”.
“Ma cosa ti è successo? T’è n’aria tant s’na manéra!”16
“Niente, niente! Sono un po’ stanca”.
Pian pianòt, piano piano, ho detto: “Guarda che devo andare a lavorare domani”. E’ venuto giù il finimondo. Per tutta la notte abbiamo pianto, riso... quasi ci mettevamo anche a botte per la rabbia che avevo con lui e lui se l’è presa tanto! Aveva paura che la figlia ne risentisse troppo.
Una vicina mi ha aiutata. “Lucia, devo andare a lavorare!”
“Lassa ch’i ‘t la tèn mì!”17. Lei stava a casa, aveva il marito paralitico. Mia figlia aveva i capelli lunghi, glieli ho fatti tagliare, così era più facile... Poi c’erano le suore, all’educandato Cerruti, lì vicino a noi... Quando andava a scuola, mangiava lì a mezzogiorno...
Facevo un bell’orario. Tre giorni alla settimana, dalle sei alle sei, mezz’ora a mezzogiorno. Perché si portavano fuori le pezze, che uscivano dalla rameuse, la macchina che asciugava le pezze. Erano calde, noi dovevamo portarle fuori a prendere aria, che si raffreddassero.
Mi son fatta sedici anni, finché sono andata in pensione.
In fabbrica eravamo tutte amiche e tutte nemiche, perché il nostro mestiere era piuttosto difficile: bisognava tirar fuori i nodi dalla stoffa e, se si rompeva, la rammendatrice si arrabbiava: “Eh, varda lì!”18. Allora andavo e dicevo: “Posso arrabbiarmi anch’io, neh! E’ stato uno sbaglio e può darsi che non si poteva fare a meno... Non ho fatto apposta. Non insultarmi perché ti insulto anch’io!” Sta’ tranquilla che io non sto zitta... “Non crederti per la tua categoria che sei di più di me che sono pinzatrice!” Erano le più considerate dal padrone, ma anche noi avevamo la nostra responsabilità...
Ho lavorato fino a cinquantasei anni e al momento di salutarci mi vedo arrivare tutta ‘sta frotta di ragazze, donne, anziane. Mi vengono vicino nel banco e m’han consegnato una medaglia d’oro per il lavoro che avevo fatto e per la compagnia. Perché io tenevo tanta compagnia, ma non dicevo mai male di nessuno. Non sono mai stata pettegola... da me non usciva mai: “Questa ha fatto così o cosà”. Ad ogni modo m’han dato la medaglia... non il padrone, neh!... le ragazze!
Magari una diceva: “Oh, il marito m’ha fatto questo... il fidanzato m’ha fatto quest’altro!” e io dicevo sempre: “Varda che ‘l mund l’è nèn nüi chi lu fuma!”19. Parlavo sempre, ma anche lavorando... perché lavoravamo come bestie... Non era mica scherzi lavorare tutto il giorno, ma lavorare, lavorare... un tanto per pezza, il cottimo...120-130 pezze al giorno! Era un lavoro da martiri e a casa dovevo preparare da mangiare, la figlia che andava a scuola... si andava a dormire che era quasi mezzanotte e al mattino alzarmi alle quattro e mezza... Così era la nostra vita!
Quando sono andata in pensione ero contenta, contenta.... soltanto che dopo è stata una tragedia a casa mia.... Sono andata in pensione il 3 marzo... per un mese son venuta giù a Biella che c’era la Cornelia che aveva l’influenza e aveva la bambina piccola... Il 1° aprile del medesimo anno... lui si è ammazzato... è caduto da nove metri. E’ caduto ed è morto... non morto subito. L’ho portato all’ospedale... Una tragedia così! Mia figlia diceva: “Se resti qui, cosa facciamo? Venire su e giù di continuo...C’ho la bambina piccola...” Non so se ho indovinato o no - a mente fredda uno può prendere un’altra decisione - fatto sta che adesso sono ventotto anni che sto con loro... Adesso ho ottantaquattro anni... è ora di morire. Adesso è tutto in più quello che si ha...
1 In provincia di Perugia, vicino a Orvieto.
2 “Ma vai a scuola?”
3 “Sposa il Moretto!”
4 “Tu, Ester, chiedi un po’ in fabbrica se c’è qualcuno che ha bisogno di me!”
5 “ Ehi! C’è il padrone!”
6 “Ma cosa dobbiamo metterti a fare?”
7 Cannone.
8 “Lascia pure lì!”
9 “Oh, per carità! Lascialo qui, insieme agli altri ci sta anche lui!”
10 “Ah, Dina, quante ne hai fatte! Quella volta in chiesa!”
11 Frazione di Valle Mosso.
12 “Oh! E’ il Mario del Monte...”
13 “Oh! Magari vengo ad accompagnarti!”
14 Casa dell’Unghia.
15 “Andiamo giù un pezzo insieme!”
16 “Hai un’aria tanto in un certo modo!”
17 “Lascia che te la tenga io!”
18 “Eh, guarda lì!”
19 “Guarda che il mondo non siamo noi che lo facciamo!”
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Valle Mosso
- Qualificazione:
- operaia
- Note ai luoghi collegati
- Lavora in fabbriche di Valle Mosso e di Strona