Persona
Migliavacca, Giuseppina
- Nascita
- Luogo:
- Carisio (Vercelli)
- Data:
- 1912
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- Tessitrice
- Biografia / Storia
- I miei genitori erano braccianti ed eravamo quattro sorelle, anzi cinque, perché la prima è morta. Siamo stati a Carisio fino a quando siamo dovuti venire via per forza, per il fascismo. Mio papà assolutamente non voleva saperne di iscriversi e quindi non poteva lavorare. Era in gamba a lavorare, era un bravo contadino e tutti lo volevano, ma i fascisti andavano dai padroni e dicevano: “Se continuate a farlo lavorare, vi bruciamo la cascina!” E allora lo lasciavano a casa. Andava in un altro posto, lo prendevano subito, fin quando... Ha passato tutto il paese. Tücc ij padrùn1. Lavorava molto nelle cooperative ed era molto considerato anche dal conte Collobiano, anche se era il podestà. Allora, saputo che le bambine morivano di fame, lo ha mandato a chiamare e gli ha detto: “Per questo inverno ti do il lavoro io. In primavera, ti faccio io una lettera e vai nel Biellese. Cambi mestiere e vai a lavorare dai Rivetti”. Ha accettato e quell’inverno è andato bene così.
Arriviamo lì dai Rivetti e, combinazione, c’era il direttore che era nato a Carisio. Era venuto via da piccolo, non ci conosceva e noi non lo conoscevamo, però, sentendo parlare di Carisio, si è affezionato a mio papà. Lo considerava. Era un po’ il suo protettore, il suo confidente. Si fidava a fargli fare qualsiasi lavoro. E’ andato a lavorare in magazzino. Noi siamo venuti via prima e siamo andati a abitare a Candelo. Mia mamma si è ancora fermata a fare la monda, il taglio del riso, a Carisio. In autunno è venuta su anche lei e anche lei è andata a lavorare da Rivetti. Le mie sorelle, subito, sono andate a lavorare, le prime due.
Lavorare nelle campagne voleva dire lavorare soltanto d’estate. D’inverno era un po’ la fame. La prima figlia che è nata, è morta a pochi mesi di freddo. Non c’era neanche la stufa in quei paesi lì d’inverno. E’ nata d’inverno e ha preso una gastroenterite...
E poi mio papà era proprio segnalato, era l’unico a cui arrivava il giornale del partito “L’Ordine Nuovo”. Era l’unico che era abbonato. L’unica copia che arrivava era per mio papà. Che tra l’altro passava nelle mani di tutta la noblesse di Carisio, prima di arrivare a noi. E mia mamma, mi ricordo, si arrabbiava: “Guarda qui, tutto strafugnà2”. E mio papà: “Lascia che si istruiscano ‘sti stupidi! Lascia che leggano!”
Una volta, era il giorno dei Santi, allora nella famiglia di mia mamma erano in cinque sorelle e quindi c’erano cinque generi. C’era il nonno, ancora un uomo in gamba. Dopo che si andava al cimitero, si radunavano gli uomini, tutti in piazza. Davanti alla lapide dei caduti suonano “Giovinezza”. E mio papà il cappello in testa. Arriva il terriero, proprio quello più grande che c’era a Carisio, vede mio papà col cappello, si avvicina e gli dice:
“Come mai non ti togli il cappello?”
“Perché me lo devo togliere ?”
“Ma senti cosa suonano?”
“E beh!”
Gli ha dato uno schiaffo così e gli ha buttato giù il cappello! Mio papà: “Maleducato! Il cappello l’ho comprato io, l’ho pagato io!” Questo qua prende la macchina, va a Santhià a chiamare i carabinieri. Noi lo abbiamo visto arrivare in casa con i carabinieri... lo spavento!
Invece qui, solo una volta, quando è venuto il duce... Allora abitavamo a Vigliano, nel villaggio Rivetti. L’ultima mia sorella era sarta e, siccome lavorava bene, aveva una clientela abbastanza su. Per esempio, la moglie del brigadiere, la moglie del direttore venivano a farsi fare la roba da lei, e quindi eravamo una famiglia abbastanza rispettata. Mi ricordo, proprio gli ultimi giorni prima che arrivasse il duce, è venuto il brigadiere a parlare con mio papà:
“Guardi signor Pietro, io so chi è lei... vorrei proprio che mi dicesse la verità”.
“Ma cosa vuol sapere?”
“Ma di che partito è?”
“Non ci sono partiti. C’è solo il fascismo. Io fascista non sono. Prima ero comunista”.
“Mi basta così. Stia tranquillo che non avrà più grane!”
A Carisio ho fatto fino alla quarta elementare, perché c’era solo quella. C’era un prete che faceva scuola e, siccome sapeva da che casa venivo, diceva: “Questi comunisti ciabutùn, che credono di essere...” A me dava fastidio quella cosa lì. E quando mi diceva: “Tuo papà...”, io mettevo il muso. Un giorno mi ha pizzicata tutta. Sono andata a casa tutta conciata così, ero tutta blu, eh! Siccome un amico di mio papà era una guardia forestale, era lì in comune col conte Collobiano e dal municipio hanno visto tutto. Allora, la sera, l’ha fatto venire in casa a vedere che cosa era successo. Il giorno dopo, mio papà voleva andare dal maestro: “Quello là, lo ammazzo!” Allora mia mamma ha detto: “Stai a casa. Vado io!” Mi ha portata lì. E’ venuta la sorella del prete ad aprire e ci ha fatto entrare. Mia mamma era arrabbiata, ricordo che discuteva con la sorella... L’hanno anche chiamato in municipio e allora, dopo... “Oh, non era necessario che tuo padre mandasse tua mamma...”
Del periodo di Carisio mi ricordo che la sera si andava nelle stalle. In quei paesi quasi tutti hanno il maiale e, allora, il condimento che costava di meno era il lardo. Si vede che avevo già il mal di fegato, ma ogni volta che vedevo mia mamma friggere quel lardo e poi metterlo nella minestra stavo male. Non riuscivo più a mangiarla. La rimettevo proprio. Delle volte mio papà s’impuntava. Poverino, era attaccato alla famiglia come non so dire, ma delle volte s’impuntava: “Non mangia la minestra perché è smorbia3”. Diceva proprio così. Allora, quando lui era andato a dormire (andava prima perché andava a lavorare al mattino), mia mamma andava a prendermi la pagnotta, la soma4 con l’aglio. Finiva così. Se no andavo a dormire senza cena. Dicevo:
“Mamma, perché non mi fai mai la minestra con il latte che io la mangerei?”
“Non ho i soldi per comperare il latte”.
Facevamo una vita così. Noi abbiamo cominciato a star bene quando siamo venuti via da Carisio. Perché cinque donne, un uomo solo a lavorare d’inverno, quando fa bello, perché se poi piove o nevica non si lavora... di miseria ne abbiamo fatta tanta.
Abitavamo nel paese, in una casa di mio zio, che però era una camera sola, molto grande, doveva servire per tutto: cucina, camere... Poi abbiamo cambiato e abbiamo fatto un po’ un progresso: la cucina sotto e la camera sopra. Da una parte c’erano dei fascisti, noi in mezzo, e dall’altra una famiglia di brava gente, che però non ci conoscevano. C’era un grosso terreno dove avevamo gli orti. C’era il pezzo di uno, il pezzo dell’ altro... non era chiuso: era tutto libero. Allora (ma questo l’abbiamo saputo dopo) erano un po’ spaventati... chissà ‘ste bambine prenderanno la frutta, mangeranno... Noi ‘sta frutta non l’abbiamo mai toccata. Mio papà diceva: “Se toccate, guai, eh, guai!” Tra il nostro orto e quello dei fascisti, nel divisorio, c’era tutta una fila di prugne che cadevano. “Se toccate una di quelle prugne, guai!” E che era nostro diritto, eh! Venivano giù nel nostro orto! “Guardate che sono dei fascisti, eh! Guai! E poi, non bisogna toccare la roba degli altri!” L’altro, quando poi ci ha conosciuto, arrivava con il piatto con la frutta: “Proprio brave bambine, le vostre figlie, che non toccano niente!” Mi ricordo che la mamma ha detto: “Ho avuto la soddisfazione di sentirmi dire che le mie figlie non toccano la loro roba!” Era poi contenta così...
Quando sono arrivata, avevo dodici anni non ancora compiuti, perciò non mi hanno presa subito a lavorare. Con noi è venuta via anche una mia cugina, con la sua famiglia. Anche lei era del ‘12, però nata all’inizio dell’anno. Lei lavorava e io mi disperavo perché volevo lavorare anch’io. Sono poi entrata il 2 gennaio dell’anno dopo e sono andata a lavorare nelle doubleuses fino a che non è venuto il posto per andare a fare l’annodatrice...avevo già mia sorella e mia cugina che lavoravano lì e volevo anch’io fare l’annodatrice. Volevo imparare il lavoro proprio completo: annodatrice, passatrice, tessitrice. La mia prima sorella non aveva fatto quella trafila lì e certe cose non poteva saperle, invece io e l’altra sorella avevamo una formazione più completa.
Lavoravamo tutti da Rivetti: la mamma sceglieva il cascame dalle lane. Faceva dalle otto alle sei di sera e veniva fuori a mezzogiorno a mangiare. Il mio papà lo stesso. Fin che ho fatto l’annodatrice e la passatrice, anch’io facevo quell’orario lì. Invece, quando sono andata a fare la tessitrice, facevo dalle sei alle due. Allora ho preso un po’ le redini della casa: facevo la spesa, da mangiare, così tornavano a casa e almeno trovavano pronto.
L’ultima mia sorella, mio papà voleva farla studiare, voleva farle fare la maestra. Era molto intelligente. Le maestre le dicevano: “Se non continui, allora ti bocciamo!” Veniva a casa e piangeva:
“La maestra ha detto che mi boccia!”
“E tu ripeti l’anno se ti boccia!”
Non c’era niente da fare. Ma soffriva, proprio si disperava, mia sorella. Però, finito l’anno, ha preso il primo premio. Era brava! Allora mio papà voleva avere ‘sta soddisfazione. Era uno che leggeva tanto, gli sarebbe piaciuto: “E’ l’ultima, lavoriamo tutti! Questa qui le facciamo fare la maestra!” Lei, niente da fare: voleva andare in fabbrica. Allora un po’ tutti, e non so se abbiamo fatto bene, ci siamo impuntati: “Ma sei l’ultima! Almeno fare la sarta...” . L’ha sempre fatto un po’ malvolentieri! Diceva poi: “Io non volevo fare la sarta. Dovevate insistere, magari darmi qualche ceffone, ma farmi fare la maestra!” E’ diventata una brava sarta, però non era soddisfatta. Era brava specialmente nei cappotti e nelle giacche, ma non le piaceva fare vestiti e robe di fantasia. Per mio papà è stato un dispiacere. Diceva: “Sei l’ultima, adesso si può, lavoriamo tutti... dammi questa soddisfazione!”
I soldi della quindicina si portavano a casa tutti assieme. Chi aveva bisogno poteva prenderli. Mi ricordo che quando si usciva, mio papà diceva: “Non andate mai via senza soldi, per non fare brutta figura! Però non spendeteli!” Non era avaro, lo diceva per abituarci a fare un po’ di economia. Bisognava dar retta a quello che diceva lui, si capisce. Se dovevamo comprar qualcosa, si diceva e si prendeva. Ad esempio la biancheria, tre asciugamani, tanto per dire, se vedevo che era una cosa conveniente, prendevo i soldi e compravo. Sapevamo tutto della casa. E io non ero controllata quando facevo la spesa: non è che dovevo consegnare il biglietto... no, no. Avevano la massima fiducia. Si capisce in casa se uno ruba.
Quando c’era il bucato da fare, all’inizio quando ero l’unica che faceva dalle otto alle sei, come mia mamma, sveglia alle cinque. C’era il lavatoio all’aria aperta, in un prato. C’era l’acqua di fontana: era abbastanza calda, però non ti dico, d’inverno, il freddo! Andavo poi a lavorare alle sette e mezza, ma avevo già lavato, sciacquato e steso il bucato con mia mamma! Quando sono diventata tessitrice e facevo dalle sei alle due, allora il bucato lo facevo io il sabato, con la cenere, come si faceva una volta. Era un lavoro lungo: l’acqua la scaldavi un po’ per volta, perché se si mette l’acqua bollente sulla biancheria macchiata, ti resta la macchia! La mamma diceva: “Almeno sette!” Bisognava far bollire il bucato almeno sette volte. Lei era convinta, proprio, che fosse la misura giusta per far venire la roba bianca. Poi facevo bollire un’altra pentola di acqua pura per fare andar via il sapone, la soda... ne avevo per tutto il pomeriggio di sabato! Arrivava a casa la mamma, alla sera, e io non avevo ancora finito di fare il bucato, dalle due che arrivavo casa. La roba stava ancora lì tutta la notte e al mattino dopo si andava a risciacquare al lavatoio perché lì, almeno, c’era l’acqua di fontana.
In fabbrica capitava tante volte di essere rimproverate dai capi. Quando facevo la passatrice, il mio capo abitava vicino a me, capitava che mi faceva delle osservazioni che non mi meritavo, e allora gli rispondevo, in confidenza. Ero poi già tessitrice e capitava che, per poter pulire il telaio, sciupavi roba. Delle volte il filo si rotolava, mentre girava: fermavi il telaio, tagliavi, facevi un bel fiocco e con quello pulivi. I capi lo sapevano che si faceva, però se ti pescavano!... E’ passato il capo, mi viene vicino e mi fa: “Ma lei è pazza?” Io lo guardo e dico: “Io no, e lei?” Così... prima era tessitore anche lui, lo faceva anche lui...quindi! Potevi ancora rispondere così, eh!
Mi ricordo gli scioperi. Si andava dentro e nessuno sapeva niente, fai che sentire un fischio: tutto fermo. E allora sciopero. C’era l’Oreste Rivetti che circolava per la fabbrica. Quella del telaio vicino, quando ha visto che c’era lui l’è scapà5. Io invece sono rimasta lì. “Ma lavorate!” Ho detto: “No!” e lui ha detto una bestemmia. Dev’essere proprio quel giorno lì che hanno fatto entrare i fascisti... mongoli erano. Delle facce che non vi dico! Sono entrati e hanno sparato per aria. Io e una mia cugina andiamo fuori del salone. Guardavo in fondo, in portineria, dove c’era il cancello. Dicevo: “Ma cosa c’è? Tutta ‘sta gente e... un camion? Cos’è che fanno?” Eravamo lì, mia cugina e io, che facevamo commenti. Arriva il mio capo e fa:
“Due oche! Cosa fate? Non vedete che li portano via?”
“E dove andiamo?”
“Ma attraversate lì!”
Allora abbiamo attraversato tutti i magazzini... tutti che scappavano! Siamo uscite dalla ferrovia. Siam venuti fuori così, colle ciabatte e i grembiuli.
Mio marito giocava al pallone. Mia sorella e io al sabato andavamo a ballare e la domenica pomeriggio a veder giocare al pallone. Lo conoscevo di nome, ma proprio conoscerlo no. L’ho conosciuto alla fiera di Biella, perché lui era un amico del morosetto di mia sorella. Avevamo fatto tardi e non c’era più il tram per tornare a casa e così sono venuti ad accompagnarci. Abbiamo cominciato così...sessant’anni fa.
Siamo stati fidanzati undici anni. Poi ci siamo sposati perché lui era soldato a Vercelli. Arrivava a casa sovente, per poche ore. Se veniva a casa mia, non poteva andare dalla sua famiglia; se andava là, non mi vedeva, C’era sempre pericolo che andasse in Russia, o in Grecia... Un giorno arriva e fa: “Facciamo che sposarci? Ci sposiamo?” Ci siamo decisi e ci siamo sposati. E’ stato a casa un mese, neh, lui... Io avevo un mese di permesso. Si trattava di andare a fare il viaggio di nozze. Tu capisci... con la tessera! “E allora... dove si va?” . A trovare suo zio a Milano, so barba6 Rinaldo, il fratello di suo papà, Rinaldo Rigola7. Fortuna... loro avevano un negozio e allora, quella sera lì, qualcosa da mangiare ce l’hanno dato. Siamo andati a dormire in albergo, e il giorno dopo abbiamo mangiato in albergo, e poi...
“Adesso, dove andiamo?”
“... A Torino a trovare i miei”.
Lì a Torino, mia cugina stava abbastanza bene... lui era dentista, lei aveva tante conoscenze... abbiamo mangiato un po’ di giorni abbastanza bene. Ci ha tenuti lì tre o quattro giorni e non ha avuto bisogno della nostra tessera8. Meno male! Abbiamo avanzato i punti, quando siamo arrivati. Io avevo la casa in via Zara, però a mangiare andavo a casa sua. Allora io a Biella conoscevo poca gente: non è che potevo trovare la roba come mia suocera. Sua mamma e sua sorella tutte le sere mi accompagnavano a casa.
Poi è arrivato l’8 settembre. Io aspettavo che lui tornasse, dicevo: “Non arriva! Tutti scappano e lui non arriva!” L’11 è arrivato. E’ stato a casa otto o dieci giorni e intanto sono rimasta incinta. Dicevamo, è finita la guerra... adesso si incomincia il bambino: qui bisogna farlo! E invece, il bello è venuto dopo! Se prima trovavi qualche cosa da mangiare, dopo non trovavi più niente.
Un giorno arrivo a casa dal lavoro e dico. “L’è rivàj i Tugnìn!”9. E lui: “Ah sì!” e scappa via. Va a cercare qualcuno e combinano e vanno in montagna.
Una sera... intanto io rimettevo già e stavo proprio male... sento il campanello: “Mamma mia, chi c’è adesso?” Avevo paura e non riconoscevo la sua voce. “Ma apri! Che c’è pericolo! Sparano!” Era stato via diciassette, diciotto giorni. C’era qualcosa che non andava, non si è trovato bene. E’ arrivato a casa sperando poi di trovare un’altra sistemazione, il posto giusto. Viste le condizioni in cui ero io... ho tribolato otto mesi, finché è nato, non ha avuto più il coraggio di andar via ed è rimasto a casa. In fabbrica ho fatto una vita che non ti dico, andare e venire dal gabinetto, tutto il giorno! Ho lavorato fino al settimo mese e un mese e qualche giorno dopo è nato Giorgio. Sono stata a casa fino a che il bambino aveva sette mesi. Lui aveva trovato un posto da impiegato alla Sai. Quando sono tornata a lavorare, il bambino lo portavamo al nido. Al mattino lo portava lui e alle quattro lo andavo a prendere io.
Quando l’hanno chiamato al Partito, ho dovuto lasciare la fabbrica perché non potevo lasciare il bambino solo. Da una parte, quando andavo a prenderlo al nido... non c’era personale, Giorgio era sempre raffreddato. Non avevano tempo di pulirgli il naso. Lo trovavo così e lo lavavo tutto nell’acqua calda per staccare tutta quella roba che aveva addosso, povero bambino. Se però avessi trovato uno che me lo guardava... Se ero a Vigliano c’erano le mie sorelle e c’erano più possibilità. Mia sorella, per esempio, non ha avuto bisogno di portarlo di qui e di là... suo figlio era sempre a casa nostra. Ma la mamma di mio marito era molto occupata con il negozio che avevano, vendevano i giornali; dovevo ancora io aiutare lei.
Dico la verità, ho pianto perché non volevo stare a casa dalla fabbrica, mi spiaceva proprio. C’era esuberanza di personale e davano un premio di 10.000 lire a chi si licenziava. E allora, non era neanche tanto per ‘ste 10.000 lire, ma dicevo: “Mi consola un po’”. Il brutto è venuto dopo, quando la roba aumentava e il Partito non poteva aumentare...
Dopo nove anni e mezzo è venuto un altro bambino. Non è che l’ho cercato e adesso sono contenta di averlo, allora... si tribolava già così! Comunque, quando son qui, trovi il modo di farli mangiare, è vero? La gravidanza è stata difficile, ma meno della prima, che è stata una cosa che non ti dico!... Con la nausea che avevo, non avevo la possibilità di avere un limone, perché non c’erano. Dicevo: “Almeno potessi avere un limone da togliermi ‘sta nausea!” Lasciavo andare via tutti e, delle volte, bevevo dell’aceto. Lo bevevo così, come acqua... però dopo stavo peggio. Non c’era niente da mangiare. Non so come ho fatto, dopo, ad allattare il bambino! Si vede che ero sana perché l’ho allattato fino al settimo mese. Si trattava poi di fare andar via il latte e ho mandato mio marito in farmacia a prendere un rimedio. Quella sera, con il rimedio, arriva la notizia che un mio cugino primo era morto a Santhià nel bombardamento10. Lo spavento che ho preso!... il latte è sparito: il giorno dopo non avevo più una goccia di latte!
Il secondo l’ho allattato fino a undici mesi. Il bambino si è ammalato, gli è venuta la febbre e il dottore ha detto: “No, per il momento, no!” Poi è scoppiato il caldo e ho detto: “Come faccio a togliergli il latte?” e così l’ho portato fino a verso l’autunno.
Il primo è nato che pesava due chili e otto etti, il secondo due chili e sei. Mi disperavo: “Santo cielo! Il primo aveva tre mesi e andava ancora giù con la testa! Questo è di due chili e sei! Ma cosa faccio, io, con questo qui?” Non ho dormito tutta la notte, invece, il mattino dopo, quando è venuto, lo vedo dritto...! “Oh!”- dico - “E’ tutta un’altra cosa, qui!” E allora mi sono tranquillizzata.
Dopo che ho lasciato la fabbrica, ho sempre lavorato in casa. Al mattino mi alzavo, facevo i miei lavori, preparavo il bambino e poi andavo su a casa di sua mamma... le ho voluto bene come se fosse la mia, perché era una brava donna, una brava suocera. Lavoravo lì tutto il giorno, lavavo, stiravo, facevo da mangiare. Non ho fatto proprio la casalinga, che va ai giardini...
Ero già abituata con mio padre, figurati se non ero contenta che lui lavorava al Partito. Ero contenta, però qualche volta dicevo: “Vedi? Guarda che vita dobbiamo fare”
Lui si alzava prima delle quattro per i giornali e prima delle otto di sera non arrivava mai. Cenava e poi magari andava ancora in riunione. Alle volte arriva alle due di notte. Allora dicevo: “Ma come fa a fare una vita cosi?!”
1 Tutti i padroni.
2 Stropicciato.
3 Smorfiosa.
4 Una pagnotta strofinata con uno spicchio d’aglio..
5 E’ scappata.
6 Suo zio.
7 Uno dei fondatori e primo segretaro della Conferazione generale del lavoro.
8 La tessera annonaria, il razionamento di guerra.
9 “Sono arrivati tedeschi!”
10 Si riferisce probabilmente all’episodio del mitragliamento di un treno nella stazione d Santhià.
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Biella
- Qualificazione:
- Lanifici Rivetti