Persona
Pensotti, Maria
- Nascita
- Luogo:
- Occhiepp0 superiore (Biella)
- Data:
- 10 giugno 1907
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- tessitrice
- Qualifica:
- orditrice
- Biografia / Storia
- Oh, gli uomini non capiscono!
Maria, Occhieppo Inferiore (Biella), 1907.
Sono nata a Occhieppo Inferiore nel 1907, però ci sono stata poco perché a mio papà non piaceva e siamo andati di nuovo nella Bassa perché lui era della Bassa vercellese. Ci siamo stati fino alla guerra mondiale del ’15-18. Mio papà è andato militare e allora siamo dovuti venire perché mia mamma doveva andare a lavorare per poter vivere.
Soldi ce n’era pochi, lavoro ce n’era, ma pagato poco, pochissimo. Mio papà lavorava in laboratorio, poi alla sera faceva ancora qualche lavoretto, e allora si tirava avanti abbastanza bene, rispetto a tutte le altre famiglie che tribolavano tanto di più.
Sono andata a lavorare con dodici anni, mia sorella ha tardato di più perché era più delicata di me ed è andata con quindici anni, ma altrimenti a casa mia bisognava lavorare per poter andare avanti. A casa c’era molta armonia, si andava d’accordo, ci volevamo bene, però non si arrivava mai a far tutto, mancava sempre qualcosa. Con mia sorella avevamo cinque anni di differenza, non c’era proprio quell’unione, eh, perché era troppo diversa. A me piaceva andare a ballare. Sono sempre andata a ballare, accompagnata dai miei genitori, perché erano giovani anche loro. Quando sono nata io mia mamma aveva diciannove anni quindi, quando io ne avevo sedici, era ancora giovane anche lei. Ho passato proprio una bella gioventù, tranquilla. Ho trovato il mio ragazzo, ho fatto l’amore per sei anni, mi sono sposata che avevo ventun’anni e mio marito ventiquattro. E’ stato duro perché ci siamo sposati con qualche debito. Lui lavorava all’albergo Principe, faceva il portiere di notte, ma non è che guadagnasse tanto. Il padrone, un certo Colombo, lo pagava sempre soltanto con acconti, e allora si faceva un po’ pellagra, sul serio. L’ho proprio vista brutta dopo sposata; invece da sposare ero più tranquilla.
Il corredo me l’ha fatto mia mamma: un bel corredo, tutto ricamato a mano, tante lenzuola, tante camicie da notte, tante camicie da giorno che allora si portavano. Io non sapevo ricamare perché sono andata a lavorare con dodici anni e si facevano sempre ore straordinarie, anche la domenica. Non avevo tempo e poi non mi piaceva, dico la verità. Ero più portata per i lavori di casa, ma ricamare e cucire no. Invece mia mamma era tanto brava: cuciva e faceva maglie.
Quando mi sono sposata, soldi io ne avevo pochi, lui non ne aveva nessuno perché erano tre fratelli senza papà; suo papà si era fatto male lavorando come muratore, è morto con ventinove anni. E allora la mia suocera ha tirato su ‘sti tre ragazzi come poteva. Abbiamo messo un po’ insieme la fame e la sete, come si diceva a quel tempo là. Però c’era l’amore, l’accordo.
Sono stata tre anni senza bambini, perché non venivano. Il mio cruccio era quello. Poi ho avuto la prima, nel ‘31, e poi, sette anni dopo, ho avuto il Franco.
Nella guerra del ‘45 è stato il periodo più brutto. Nell’albergo dove lavorava sono entrati i tedeschi e lui è dovuto uscire perché l’albergo l’hanno chiuso. E non trovava lavoro perché non aveva la tessera del partito. Non aveva mai preso la tessera. In casa sua erano tutti antifascisti proprio, tutta la parentela. Tanto, tanto. Erano proprio comunisti, già allora.
Il mobilio me l’ha fatto il mio papà, che era falegname. La spesa non era stata tanta. Abbiamo pagato per farlo verniciare, farlo scolpire un po’, comprare il legno. Volevamo comprare la stufa, lui aveva un cugino, che è già morto, e m’ha detto: “Oh, ma perché la stufa? Bisogna comprare il potagé!1 E’ più bello! Io faccio il fumista e faccio i potagé. Te lo faccio”.
“Ma no, non abbiamo i soldi per pagarlo, il potagé. Costa anche di più!”
“Ah, me lo paghi poi quando puoi...”
Quindici giorni dopo che era venuto a portarci il potagé, è venuto a chiedermi i soldi perché gli scadeva una cambiale e doveva pagarla. E noi non avevamo i soldi per pagarlo... Dalla sera alla mattina trovare ‘sti soldi! Sono andata dalla mia mamma, mia mamma qualche soldo in più li aveva sempre, e le ho detto: “I sun ant ij pastìss fin-a ‘l còl, t’ è pròpi da ‘jutémi!”2. Lei difatti me li ha dati e l’ho pagato.
E poi sempre: questi quattordici mesi disoccupato, non voglio dire ‘l mé òmo3 che lavori ha fatto! Ha persino portato una vacca al toro! Un contadino gli ha detto: “I arìa manca ‘d porté na vaca”4 (la portavano su alla Colma) e lui l’ha portata, basta che gli dessero qualcosa! Mio cognato aveva il macello dei cavalli... andava a prendere i cavalli a Vercelli con la bicicletta e poi veniva su. Ha fatto proprio una vita abbastanza cattiva.
E io da Rivetti ho passato tutto quello che si poteva passare, specialmente in tempo di guerra, quando sono venuti dentro i tedeschi a sparare e fin che ce n’è!
Ma dij gran paüre!5 In tutti questi anni di guerra! C’era poco da mangiare, Franco era sempre tanto delicato! Adesso è l’uomo che è, ma allora era così: ha fatto cinque polmoniti, figuriamoci! Quindi abbiamo tribolato a tirar fuori la famiglia. Poi quando incominciavamo a star bene, è venuto malato ‘l mé òmo, gli è venuto un brutto male. E’ morto con sessant’anni. Adesso io sono abbastanza tranquilla, ah sì! I miei figli mi vogliono bene, anche la nuora, anche il genero quando lo avevo. Mi hanno sempre voluto tutti tanto bene. Viviamo bene perché, nella disgrazia che mi è mancato il marito, mi restano due pensioni. Però con queste due pensioni bisogna pagare tutto: non ho né ticket né una storia e l’altra, devo pagare tutto. Allora, la pensione mi diventa piccola.
I ricordi più lontani che ho sono di quando mio papà lavorava a Ceresito sul Monferrato, nel castello del Gualino, quell’orefice che c’era a Biella, avevano una fabbrica d’oreficeria a Biella e lì aveva un gran castello. Lavorava lì da falegname, c’era sempre qualcosa da fare. Lì vivevamo proprio bene perché c’era la campagna e i contadini ci davano sempre qualcosa.
Siamo poi andati ad abitare a Chiavazza, hanno comprato una casetta in cui stavamo tutti assieme: il nonno, la nonna, mia mamma e sua cognata cioè la moglie del fratello di mia mamma che era anche lui soldato, e noi quattro bambini. Io e mia sorella e i due figli della zia. Io ero la più grande, avevo nove, dieci anni e gli altri eran tutti più piccoli. Puoi pensare alla mia povera nonna - poverina la vita che ha fatto con noi quattro che ne abbiamo fatte di tutti i colori! Eravamo solo bambini vivaci e poi non avevamo mai niente da mangiare: ci dava la polenta a tutte le ore!
Fino alla terza elementare, le scuole le ho fatte a Trino. Dal paesino venivo a Trino. Era lontano, ma c’era uno che veniva col biròcc6, ci caricava tre o quattro col carrettino e andavamo a scuola. Quando è finita la guerra, sono poi andata a fare la quarta, la domenica, alla scuola festiva a Biella. Era in via Arnulfo, dove una volta c’erano i bagni. Allora andavo già a lavorare e allora, la domenica, andavo lì a scuola. Ho fatto la quarta e la quinta. La sesta non ho più voluto andare: cominciavo ad aver voglia di andare a ballare, di andare a spasso e non avevo più voglia di studiare e non ci sono più andata.
La comunione l’ho fatta, ma proprio la chiesa noi non l’abbiamo mai seguita. Poi, arrivata a una certa età, andavo poi a messa e mi piaceva proprio. Adesso che sono vecchia non ci vado più. Sono tanti anni che non vado. Non sono contraria alla religione. Sono tanto comunista, ma la religione non posso lasciarla proprio. Non so se è perché i miei genitori me l’hanno fatta sentire. Mia mamma non l’ho mai vista andare a messa, però non era contraria, ci faceva pregare, ci mandava in chiesa. Mi sono sposata in chiesa, ho battezzato i bambini. Mio marito era tanto contrario: per esempio quando passava il prete per benedire le case, se si trovava in casa, non lo lasciava entrare. Io qualche volta dicevo: “Ma solo per la gente...” Sapete com’era nei paesi una volta... si aveva sempre paura che la gente dicesse: “Ma perché? Ma come?” Allora dicevo: “Ma lascia...” Niente da fare: se c’era a casa lui, il prete non entrava.
Mia mamma non ci lasciava tanta libertà, però alla sera immancabilmente si andava a ballare. C’era il ballo a Chiavazza e si pagava ogni tre balli che si faceva. Sopra sul palco, c’era il bar coi tavolini. Mio papà non era tanto bravo, ma mia mamma sì. A lei piaceva anche vestirmi bene: era ambiziosa, era capace a cucire anche se non era mai andata a imparare. Sono sempre stata vestita abbastanza bene.
Col fidanzato non uscivo mica! Eravamo vicini di casa e quindi ci vedevamo sempre. Una sera faceva freddo ed eravamo fuori della mia porta, lì nel cortile che si parlava. Arriva mio papà, che era un poverino: “Cosa fate qui fuori con questo freddo? Ma andate dentro che c’è la stufa accesa!” Siamo rimasti un po’ male tutti e due e siamo entrati. Quando è andato via, mia mamma: “Ma non lo sai che fa il filo a tua figlia, quel ragazzo lì?” “Eh beh! Star fuori o star dentro non è la stessa cosa?” Fait7, è venuto sei anni a casa mia. E quando mia sorella si è fatto anche lei il fidanzato, lui voleva venire in casa perché non la lasciavano uscire. L’ha chiesto a mio papà. “Ah no! Son quattro anni che ce n’è uno qui che mi scalda le sedie! Aspetta almeno che vada fuori questo, poi vieni te!” Il mattino che mi sono sposata, la sera è entrato in casa lui! E’ morto anche il mio cognato; è morto giovane, cinquantadue anni. Aveva un male che non si è mai saputo cosa fosse: era paralizzato tutto. Era un bravo ragazzo.
Mi sono sposata di sabato, alle sei del mattino. Era il 22 di dicembre del ‘28 e faceva un freddo cane. C’era tutta la parentela e ben quattro macchine: i miei parenti hanno preso tutti la macchina, non pagata da me!, pagata da loro. Il vestito era azzurro, ma il soprabito era nero. Avevo ventun anni. Mi sono sposata in nero, eh! Abbiamo fatto la festa prima, noi dicevamo ‘l fé niscióle8, cioè la festa di fidanzamento, perché si mangiavano le nocciole, ma c’erano anche i pasticcini e tutto il resto. ‘L mé òmo aveva invitato tutti i suoi coscritti di Chiavazza. Erano in tanti e m’hanno regalato le sedie della camera, imbottite. Poi c’erano tutti i miei amici della fabbrica e tutta la parentela. Mia mamma ha fatto le bugie: tre cavagne9 da granoturco piene di bugie. Non c’erano le bignole: non avevamo i soldi per comprarle! Abbiamo mangiato, bevuto, c’era la musica perché tra gli amici c’erano quelli che suonavano. Sai, nei paesi, una volta... A Chiavazza c’è sempre stata la musica, c’è ancora adesso. Abbiamo fatto festa fino a tardi la sera... proprio un bel matrimonio, allegro.
Ho proprio fatto un bel matrimonio. Quando siamo entrati in chiesa, non era neanche accesa perché non abbiamo fatto dire nessuna messa, solo una benedizione, cinque minuti... Uno zio, fratello di mia suocera, attraversando l’altare maggiore, è inciampato, l’ha scarpüscià pròpi10, e ha tirato una di quelle bestemmie, non so più adesso, ma grossa! Ci siamo solo tutti guardati addosso! Erano tutti sovversivi i parenti di mio suocero! C’era il vicario, don Cantone, che l’ha guardato e gli ha detto: “Oh, ben, ‘l è mèj dì parèj che dì d’àut!”11.
Lui era contrario e nemmeno io ero tanto a favore. Mia sorella invece si è sposata... messa grande perché i parenti di mio cognato erano di chiesa. Hanno fatto proprio una cerimonia, messa cantata, comunione e fin che ce n’è. Invece noi, credo che il prete non abbia detto nemmeno tutto quello che aveva da dire per mandarci via in fretta... in fondo alla chiesa c’erano quattro beghine, tutte così! e lui si è detto: “Ch’i-j disbròja ch’a i vago fóra, perchè chì... a va nèn bén!”12
Ho avuto tanti regali, tanti tanti. Non ho comprato un cucchiaio, io ho avuto tutto in regalo. Una delle mie zie m’ha comprato il marmo della mobilia, un’altra mi ha comprato due lenzuola, un’altra mi ha dato dei soldi. In fabbrica mi hanno regalato un servizio di piatti, con le posate e tutto che ‘l mé òmo è andato con il cestone da macellaio, grosso eh!, tutto pieno di roba. Ma tanti, tanti regali che non ho comprato una forchettina!
Sono andata in viaggio di nozze a Torino perché c’era una zia di mio marito che era senza figli. Era la capa delle passafalle dai Piacenza, una famiglia che stava abbastanza bene. Ha detto: “Io non vengo al matrimonio, ma vi aspetto a casa mia”. Siamo stati otto giorni a Torino. Ci ha portato dappertutto, malgrado facesse tanto freddo. Sono andata con le calze di seta e lei, poverina, è andata a comprarmi delle sottocalze (allora si usavano) color carne di lana leggera da mettere sotto le calze di seta.
Ho avuto i figli in casa, perché mio papà non mi ha lasciata andare all’ospedale. Diceva che i figli dovevano nascere a casa loro. La bambina l’ha tenuta notte e giorno mia mamma. Me l’ha sempre tenuta lei. Difatti... non che non mi volesse bene, ma la sua nonna e il nonno erano i preferiti, perché l’hanno proprio allevata loro. Invece il Franco, che era una birba, mia mamma se lo teneva quando andavo a lavorare, ma appena arrivavo mi diceva: “Prenditi tuo figlio... e vattene che stia un po’ tranquilla...” La bambina l’ho allattata fino a quattordici mesi, il Franco invece cinque mesi perché ho dovuto andare a lavorare, che lui era disoccupato. C’era un signore della val di Mosso, che era un gran fascista e diceva sempre: “Perché non prendi la tessera?” E lui: “Ma io non ho mai preso nessuna tessera!” Quando è rimasto disoccupato, è andato da quell’industriale: “Se può farmi avere un posto...”
“Guarda, c’è un posto alla Cooperativa da magazziniere, proprio quello che va per te!”
Era la Cooperativa torinese, in piazza Duomo. L’hanno preso in giro perché come è entrato gli hanno chiesto la tessera del partito fascista. E’ rimasto disoccupato, ma non ha preso nessuna tessera. E’ andato poi a lavorare dal Buratti, a Chiavazza. Finita la guerra, l’albergo ha di nuovo aperto e finché è morto ha sempre lavorato all’albergo Principe. Fin da piccolo, andava a far stagione a Andorno, poi d’inverno faceva l’aiutante muratore. Poi da giovane, faceva il lift all’albergo Principe, su e giù in ascensore, andava alla stazione a prendere i clienti, ha fatto un po’ il facchino di piano, un po’ il cameriere finché è arrivato che ha fatto il portiere di notte. Di notte ero sempre sola coi bambini: non lo vedevo mai perché non faceva mai neanche il giorno di vacanza.
Mia mamma abitava sotto e io sopra. Al mattino bisognava alzarsi presto, preparare il mangiare per mezzogiorno, poi alzavo i bambini, li vestivo e li portavo uno a scuola, e uno dalla nonna. Poi andavo a lavorare. A mezzogiorno, come arrivavo, mia mamma mi ficcava il Franco perché era cattivo. Andavo sopra a mangiare, ma c’era ancora tutto da fare: i letti da fare. Non c’era lavatrice, non c’era lavastoviglie. Allora si andava a lavare... c’era una roggia che passava lì proprio vicino a casa mia, ma bisognava andare presto perché altrimenti l’acqua era sporca: tutte le fabbriche, i Sella, i Pria e tutti, scaricavano tutti i colori delle tintorie. Si andava presto presto, anche al buio. C’era una donna, più anziana di me, che veniva anche lei a lavare presto, portava la lanterna. Si lavava con la lanterna lì vicino. Mi facevo coraggio perché c’era questa donna vicino: dietro di noi, passavano dei toponi grossi così e io ho paura di quei piccoli così!
Facevo la giornata. Sarebbe stato dalle otto alle sei, ma da Rivetti si faceva almeno dalle sette alle sei, e la domenica quasi tutti bisognava andare. Il mio caporeparto era bravo, faceva il giro alla sera del sabato per dire: “Domani si lavora”. Quando arrivava vicino a me mi diceva: “Ma sai, l’Oreste non capisce le ragioni, almeno una volta ogni tanto devi venire!” Allora, mentre gli altri facevano dalle sei a mezzogiorno, io facevo dalle sei alle dieci. Alle dieci di corsa a casa, c’era poi tutti i bambini magari ancora a letto, tutti i lavori da fare...Era una vita tribülà13.
Nel reparto eravamo più di settanta, tutte d’accordo, solo la Colombina ha messo il malumore. Era una ragazza che è stata allevata nell’ospizio; però era cattiva d’animo e non aveva nessuno. Ha incominciato a intrufolarsi in quel partito benedetto fascista. Si vede che gliele facevano buone. S’è trovata bene ed è diventata una fascista sfegatata. Non ti faceva vivere, insomma: insultava, guai se si diceva qualcosa, guai se avessimo parlato della guerra, se avessimo detto: “Ah, hanno preso... hanno ammazzato”. Erano cose che non si potevano dire. Io ero una di quelle che arrivava sempre per ultima, ma quelli che arrivavano prima nello spogliatoio si fermavano a parlare e tutte le mattine era una litigata. Una mattina abbiamo trovato dei volantini partigiani nello spogliatoio. Li abbiamo letti, ma poi li abbiamo lasciati lì, non li abbiamo toccati. Quella è arrivata dentro e li ha trovati: “Chi l’ha portati?”
Nessuno ha parlato. “Noi quello che abbiamo trovato, l’abbiamo guardato e lasciato lì!”
“Ah, qualcuno l’ha portati!”
E’ uscita, è entrata coi tedeschi. Con i tedeschi che sparavano, per terra, ma sparavano. I tessitori, eravamo tanti, hanno fermato tutti, non lavoravano più. Loro gridavano: “Lavorate! Lavorate!”, e nessuno dava acqua, nessuno faceva andare i telai. I telai fanno bordèj14, tutto silenzio, nessuno che si muoveva e loro continuavano a sparare. Quel reparto lì lo chiamavano la piccola Russia, proprio di tessitori di una volta, della mia età e anche di quelli più vecchi: “S’i uma da móri ch’i mòru nèn travajant!”15
Fuori nel cortile della Rivetti, quel grande cortile che c’è all’entrata, c’era tutta la “repubblica”16 con le mitragliatrici spianate. Ah, non parliamone! Era arrivato mezzogiorno e dovevo andare a Chiavazza, ma sono passata per il Cervo, mi sono tutta bagnata, mi sono strappata i vestiti, graffiata le gambe, ma sono scappata a casa! Quelli che sono venuti fuori dai cancelli, li hanno caricati su un camion e portati a Vercelli. Li han tenuti poco, ma li hanno portati a Vercelli in prigione. Fra i quali c’era anche un uomo che aveva già la sua bella età, uno di Sandigliano. E’ venuto a casa e dopo otto giorni è morto. Era un uomo che aveva sempre lavorato, ma io non credo sia morto per il patimento o la paura, ma per il puntiglio: “Perchè i u d’andé ‘n parsùn ch’i u facc gnènte?”17
Questa Colombina, il giorno dopo, non l’abbiamo vista arrivare a lavorare. L’avevano ammazzata. Avevamo tutti paura e abbiamo messo due ragazzine fuori, a guardare chi veniva dentro, se arrivava la “repubblica”. Il capo, il direttore e tre orditrici sono scappati e sono stati nascosti. Una l’hanno trovata i fascisti. Sono andati una sera e l’hanno portata in caserma. L’han tenuta più di sei mesi in prigione, poi l’hanno lasciata andare. “Ma io non l’ho ammazzata! L’ho picchiata quel giorno perché abbiamo litigato. Ma mi maséla i u nèn masàla!”18
La Colombina aveva lasciato un testamento, diciamo, che se le capitava qualcosa, perché lei se l’aspettava, stava a Vigliano nelle palazzine Rivetti e lì c’erano tanti partigiani, con i nomi delle persone che le avevano fatto del male.
Il direttore aveva un fratello nei partigiani. L’aveva avvertito: “Fate attenzione! Scappate! Guarda che stamattina hanno preso la Colombina! Senz’altro è successo qualcosa!” E allora sono scappati tutti a nascondersi.
Il mio padrone, monsü Delfo19, il fratello dell’Oreste, era un padrone, ma era bravo, era anche una persona che si poteva parlargli, non è più stato in grado di venire in fabbrica. Quando è andato a Roma, sembrava che se lo sentisse che non veniva più a casa, ci ha mandato a chiamare in portineria e ci ha salutato tutti. Non è più tornato perché è morto a Roma, in un albergo.
L’Oreste era il padrone generale, aveva tutta la fornitura, tutto il finissaggio, tutto un altro reparto. Il Delfo era tanto bravo, lasciava vivere lui. Era un bell’uomo, aveva le sue morose e se ne fregava di tutto e ... la fabbrica andava avanti lo stesso. Io all’Oreste ho parlato insieme una sola volta: gli ho chiesto lavoro per il Franco, che era disoccupato. Avrà avuto quattordici-quindici anni e faceva il tipografo al Piazzo, imparava questo mestiere e gli piaceva. Poi quello ha chiuso perché gli sono andati male gli affari e allora è rimasto disoccupato. Ho chiesto per farlo entrare da Rivetti e sono andata dal padrone, monsü Oreste, e m’ha detto sì. Poi passa una settimana, due, tre e non me lo chiamava mai. Allora una sera ho detto: “Adesso vado a chiedere io, cudì ch’a m’lo pija nèn ‘s mat?”20 Sono andata nell’ufficio a cercarlo. Erano le sei, dopo il lavoro. Quando mi ha vista arrivare, ha fatto un urlo da spaventare non so chi. “‘T’è già tórna chì!21 Sono stufo di vederti, questa brutta faccia, chissà cosa vieni sempre a fare qui!” Trattava proprio da cani. Io, non abituata, sono andata fuori. Mi sono seduta sul primo scalino e mi sono messa a piangere. C’era uno, un impiegato che gli mancava un braccio, mi è venuto vicino e mi ha detto: “”E’ la prima volta che lo senti gridare?” “Sì e sarà l’ultima! Mi i vach pü ciamé-j gnènte!”22. Sono andata a casa, avevo voglia di piangere: “Fa niente, non ti prendono...” La mattina dopo è venuta la sua segretaria, la tòta Bianco23, a chiedermi in che reparto volevo metterlo. E quell’impiegato mi ha detto: “Non venite mai a parlare a monsü Oreste la sera, perché ‘l’è cagnìn24. Venite durante la giornata, o la mattina, ma la sera non andate a parlargli!”
Tra compagne di lavoro avevamo proprio un affiatamento! Tanto che quelle poche che ci siamo ancora, ci vediamo, ci cerchiamo ancora adesso. Perlopiù ci telefoniamo, perché non ci muoviamo più tanto perché siamo tutti d’una certa età e forse io sono la più vecchia. Quarantadue anni non son pochi! Prima ho lavorato a Vigliano, sempre da Rivetti. Ho fatto tre anni la muccia25. C’era monsü Genio26, era un altro fratello che era un po’ gabia27 quello lì, ogni tanto ci licenziava, otto-quindici giorni e poi tornava a prenderci. E’ venuto a dire che avevano bisogno a Biella, mi hanno chiesto se volevo andare. Ho detto sì e ho sempre continuato a Biella. Ho sempre fatto l’orditrice. Prima della guerra c’era una della Baraggia che portava il bollino della Camera del lavoro. Non c’era nessuna tessera, pagavo il bollino e lei diceva: “Tienilo nascosto perché guai se te lo trovano!”
Ai tempi della Commissione interna c’erano troppe idee: c’erano i demo28, una che voleva sempre aver ragione lei e cercava di non lasciarci mai parlare; c’era il socialista che dava a vedere che faceva per gli operai, ma io penso che fosse ancora più amico del padrone. Mi venivano a chiamare alla macchina: “Sopra c’è una riunione”. Mi pagavano regolarmente, non ci ho rimesso niente, però mi arrabbiavo tanto. Invece bisogna essere un po’ tranquilli per queste cose. C’era una con cui ero tanto amica e che era tanto di chiesa. Ma una volta che c’era sciopero, su settantadue che eravamo, lei ha lavorato da sola. Il capo ha fermato e le ha detto: “Ma io non posso far girare la trasmissione di settanta macchine perché ne gira una! Tu non vuoi far sciopero e te ne stai qui seduta finché non te ne vai a casa!” Allora mi sono arrabbiata un po’ e le ho detto: “Se guadagnamo qualcosa, tu poi te lo prendi! Non ci rinunci!”
In fabbrica ci dicevamo tutto, persino le minime cose. “Siamo senza soldi, questa volta non arriviamo alla fine della quindicina!” Ci facevamo le confidenze, raccontavamo le barbottate del marito. Io con mio marito ho litigato tante volte... per fare l’amore, dico la verità. Perché lui lavorava di notte e nei giorni di lavoro io non c’ero. La festa eravamo a casa tutti e due, ma io avevo i lavori da fare. Allora quando lui diceva: “Vieni...” Tante volte io dicevo no e allora si litigava: aveva ragione anche lui, e io non avevo torto. Poi tutte queste cose le dicevo in fabbrica e una, magari più allegra: “Ah! Ma t’è fin-a fòla! Lassa ij travaj da fé!”29. E un’altra invece: “Ma j’òm a i capissu nèn!”30
Mia mamma le ha preso una trombosi con sessantacinque anni. E’ stata due anni che non parlava più, però faceva ancora tutti i suoi lavori, capiva ma diceva solo mamma e mati31, cioè noi. Poi l’ha presa un’altra trombosi ed è morta. Invece mio papà è morto con ottantacinque anni, però, poverino, è morto al Belletti Bona; quello mi è rimasto un po’ qui. Affittava una camera vicino a mia sorella e viveva da solo. Poi non stava troppo bene, ai ragazzi dava fastidio, diciamo la verità. Io avevo il marito malato, non potevo far di più di quello che facevo. Non potevo prenderlo con me. Allora l’abbiamo messo al Belletti Bona. Quando è arrivato, non parlava e non capiva più niente. Due ore dopo parlava e capiva dov’era. Dopo sei mesi è morto. Quello è stato un grosso dispiacere per me... hanno deciso così e io ho fatto come volevano loro. Ma... che non mi portino al Belletti Bona. Mi portino dove vogliono, ma non al Belletti Bona!
Mia figlia la lasciavo libera perché mio marito voleva che fosse libera. Aveva idee moderne, anche se era già vecchio: “Dille a che ora deve tornare a casa e poi dalle fiducia. Lasciala andare e non c’è bisogno che tu le vada dietro se va a ballare!” L’ha sempre avuta la libertà, mia figlia, io non l’ho mai privata di niente. Una volta che era già fidanzata col Tavio, quello che l’ha sposata, ed era il periodo delle ferie, una squadra di amici, qualcuno sposato, qualcuno no, volevano andar via tre-quattro giorni (adesso vanno tutti, ma quarant’anni fa non andavano). Lui mi aveva detto: “Credo che abbia fiducia in me”.
“Ma bisogna dirlo a mio marito perché non posso prendermi una responsabilità così da sola!”
Allora gliel’ ho detto. “Guarda, se prendono anche il Franco con loro, li lasciamo andare”.
Sono andata sotto da mia mamma: “La Guerrina va via insieme al Tavio, con una squadra, tutte coppie insomma, ma prendono il Franco insieme”.
“Ma sì...”
Qualche giorno dopo che la ragazza era andata via, vado sotto e mia mamma piangeva. “Perché piangi?”
“Ma ci ho ripensato... quella ragazza che l’hai lasciata andar via... e adesso sto male”.
“Ma perché?”
“Ma sai...”
Allora mi è venuta in mente mia sorella che era ancora più all’antica di me, anche se era più giovane. “Hai parlato con la Olga, neh?”
“Ha detto che hai fatto male”.
“E ben, male o bene quello che è fatto è fatto. Non piangere, che io non piango. Quando arriva, arriva”.
Difatti è arrivata e si son sposati con onore. Qualunque cosa sia successa, l’onór del mund a l’éra.32
In tempo di guerra da Rivetti c’era la mensa. Al mattino portavo il raminìn33 e a mezzogiorno andavo là, mangiavo la mia razione in fretta, poi prendevo il raminìn e andavo a casa, davo la minestra ai ragazzini. Mio marito andava alla Raf34, come dicevamo allora, e portava a casa un po’ di meliga, che poi si tribolava a farla macinare, un po’ di riso che poi venivano i moschini e c’erano tutte le farfalline che correvano per casa. Quello che si trovava meno ero lo zucchero, e per il Franco che era delicato non avevo mai un cucchiaio di zucchero per fargli qualcosa. C’era un negozio di commestibili davanti a me, con due signorine vecchie da sposare, mi davano qualche volta un pacchettino di zucchero che io tenevo come se mettessi centomila lire in cassaforte, da darne un po’ quando il Franco veniva malato. C’era mio cognato che faceva il macellaio, però non ha mai fatto borsa nera, mai. Diceva: “Mi contento di quello che guadagno. Io non voglio andare a farmi ammazzare in giro!” Non so come abbia fatto a vivere! Da Rivetti ci davano poi qualcosa, qualche volta ci davano persino il formaggio e qualche dozzina d’uova. La fabbrica era troppo grossa, non è che ci si potesse proprio togliere la fame, ma qualcosa ci davano. Uno aveva una famiglia molto grande, tanti figli, non so se sette o otto, ha portato a casa una ruota intera di formaggio, perché ce ne davano a seconda di quanti erano in casa, razionato. Anch’io ho avuto la mia parte. Verdura ce n’era sempre, anche d’inverno. Abbiamo mangiato tanti fagiolini e coste da diventare persino verdi. Un’altra volta ci hanno dato 500 lire che andassimo a comprarci qualcosa.
Mio marito, come arrivava, mi dava quello che prendeva. Essendo nell’albergo aveva poi le mance. Non è che se le tenesse tutte, perché andava a fare la partita a carte (tutto quello che faceva) ma non era uno che andasse in giro a spendere, però gli piaceva avere qualcosa in tasca. C’era già la Guerrina sposata, allora diceva: “Stanotte l’ho fatta buona. Ho preso qualcosa! Adesso telefoni alla Guerrina e al Tavio che vengano a cena qui”. Erano poi 1.000 - 1.500 lire e facevamo tre parti: Franco, la Guerrina e il Tavio. E poi diceva: “Ah, qualcosa lo do anche a te!”
Ma lo stipendio era mio. Io ero a cottimo e non tutte le volte era buono. Dicevo: “Guarda, questa quindicina non l’ho proprio fatta buona!”
“Eh, cerchiamo di tirare un po’ la cinghia!”
Non diceva mai: “Bisogna far questo. Bisogna far quello”. Era un uomo fatto alla buona, un brav’uomo. In tempo di guerra si privava di tutto. Se c’era un boccone buono, un pezzo di carne, era tutto per i ragazzi. Delle volte io dicevo: “Ma lavoriamo anche noi. Dobbiamo pure stare in piedi!”
Quando mia figlia ha finito la quinta, le ho detto: “Vuoi andare a scuola? O cosa vuoi fare?” Facendo sacrifici l’avremmo mandata a scuola. Lei ha detto: “Mi piacerebbe far la maestra”. Abbiamo fatto i nostri conti: “E se non riusciamo a mandarti fino a che abbia finito di fare la maestra?”
“Allora mandatemi a cucire”.
Ha fatto la sarta fino a che si è sposata. Invece il Franco è andato a fare le medie, però arrivato alla terza, ha litigato col professore e non ha preso l’esame di terza. Ha dovuto poi farlo dopo. L’ho tirati su così, alla buona, senza tribolare, mai passato un dispiacere. Il Franco è stato più contento perché era già un altro periodo, lavoravamo tutti e tre, la sorella era già sposata...allora gli abbiamo comprato una moto, poi un’altra, poi abbiamo comprato la macchina... era viziatello, proprio tanto, tanto. Era un altro periodo, più grasso diciamo, il magro l’ha passato la Guerrina. Non era perché fosse il maschio...
Quando hanno chiuso da Rivetti, in quattro o cinque insieme al Franco hanno comprato quattro telai per 200.000 lire, ma pagati un po’ per volta perché i soldi non li avevano. Hanno affittato un salone a Pavignano. Ma non avevano lavoro e si sono divisi. Pagati 200.000 e venduti per 100.000. Mé omo era malato con un brutto male, ha tribolato tanto. Un uomo che era cento e passa chili... quando è morto sarà stato solo più cinquanta. Un brutto periodo, proprio brutto per il dispiacere. Perché tribolare è un conto, ma passare dispiaceri è un altro. Eh, per mio marito ho proprio passato dispiaceri.
Per un po’ ha fatto il rappresentante della Perugina, ma non era il suo lavoro: non guadagnava neanche i soldi per la benzina che consumava, dopo per la Star. E’ poi andato a lavorare da Rivetti ad Andorno (che è poi quando ha conosciuto la Carmen). L’hanno di nuovo licenziato, ed è venuto a lavorare alla Camera del lavoro. Quel giorno ho detto: “Sono tanto contenta”, però mi ricordavo del P. e della V., che tante volte, se non fosse stato per i suoi del P., non avevano neanche i soldi per mangiare... “Ah, adesso va di nuovo in un posto che mi tocca ancora di tribolare!” Allora, specialmente l’Adriano35 mi ha detto: “Sta’ tranquilla che adesso le cose son cambiate. Hai ragione che il P. e la V. l’han vista brutta, e l’ho vista brutta anche io, ma adesso le cose son cambiate!”
Adesso la vita la passo bene. Peccato che son vecchia: ho ottantatre anni e allora ho tutti i mali addosso, mal di schiena... Quest’inverno mi ha presa sotto una macchina e ho tribolato un po’; ma altrimenti ho due figli che non sono bravi, sono dei santi, perché io ho il mio carattere: quello che voglio dire, devo dirlo... comando io, non loro, ma mi sopportano.
L’abbiamo vista brutta. Ma adesso no, adesso sono una signora. Ho due pensioni, non sono una sciupona...non vado in nessun posto... ma soldi ne avanzo pochi perché ho un po’ le mani bucate, non per me, una volta per uno, una volta per l’altro... Ma se vengo malata ho i soldi per curarmi. Il loculo nel cimitero l’ho già comprato, i soldi della sepoltura sono già da parte. Per il resto avanzo quelle 50.000 lire che devo metter via perché magari loro ne hanno bisogno... Quando prendo la pensione, 50.000 lire a uno, 50.000 lire all’altro... e mio nipote Marco quando ha bisogno di qualcosa, me li chiede e io glieli do. ‘M n’an fà mi dij sót!36 Perché devo avanzarli? Preferisco dargli 50.000 lire oggi.. che aspettare che muoia perché li prendano!
1 Cucina economica.
2 “Sono nei pasticci fino al collo, devi proprio aiutarmi!”
3 Mio marito.
4 “Dovrei portare una vacca”.
5 Ma delle grandi paure!
6 Biroccio, carretto.
7 Fatto.
8 Fare nocciole.
9 Ceste.
10 E’ inciampato proprio.
11 “Oh, bene, è meglio dir così che altro!”
12 “Devo sbrigarmi perché se ne vadano fuori perché qui...non va bene!”
13 Tribolata.
14 Rumore. Letteralmente, bordello.
15 “Se dobbiamo morire, almeno morire non lavorando”.
16 Si riferisce ai militi della Repubblica sociale.
17 “Perché devo andare in prigione se non ho fatto niente?”
18 “Ma io ammazzarla, non l’ho ammazzata!”
19 Il signor Delfo.
20 “Perché non me lo prende questo ragazzo?”
21 “Sei già di nuovo qui!”
22 “Io non vado più a chiedergli niente!”
23 La signorina Bianco.
24 Di malumore, mal disposto. Letteralmente, cagnesco.
25 L’apprendista.
26 Il signor Eugenio
27 Matto.
28 Democristiani.
29 “Ma sei stupida! Lascia i lavori da fare!”
30 “Ma gli uomini non capiscono!”
31 Ragazze.
32 Lett: l’onor del mondo c’era, ossia le apparenze erano salve.
33 Pietanziera, generalmente chiamata baracchino.
34 Modo di dire molto usato (cfr. anche altre interviste). Come l’aviazione inglese, la Raf, faceva le incursioni, così gli operai biellesi scendevano nelle campagne per procurarsi il cibo.
35 Adriano Massazza Gal, segretario della Camera del Lavoro.
36 Cosa importa a me dei soldi!
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Biella
- Qualificazione:
- operaia tessile