Persona
Dellamontà, Laura
- Nascita
- Luogo:
- Valle S. Nicolao
- Data:
- 19 novembre 1922
- Attività/mestiere/professione
- Qualifica:
- tessitrice
- Qualifica:
- filatrice
- Biografia / Storia
- Nel telaio non uscivo nemmeno con la testa!
Laura, Valle San Nicolao (Biella), 1922.
Il mio papà, quando ha sposato mia mamma, era vedovo e aveva già una figlia. In casa abitava con noi la nonna materna. La mia sorellastra viveva invece con la nonna paterna, però ci trovavamo, eravamo legate. Mio padre era stato un emigrato: a sei anni, era già stato in Brasile e in Argentina. Era poi ritornato e ripartito di nuovo, un’altra volta. Non si trovava a vivere qui: mia nonna proveniva dal mondo contadino e aveva le sue tradizioni. Lui aveva vedute più ampie. La nonna era abbastanza intelligente, non sapeva leggere e scrivere, ma si esprimeva abbastanza bene, però aveva la sua mentalità. Quando avevo poco più di tre anni, lui è partito di nuovo per l’America. Dopo un po’ ha scritto: voleva che andassimo laggiù, ma la mamma non voleva lasciare la nonna. E’ stato via quattro anni: stava poco bene e non è che potesse mandare tanti soldi a casa! C’era la terra, avevamo le mucche e mia mamma doveva andare a lavorare in fabbrica e poi aiutare la nonna, perché lei da sola non ce la poteva fare. Anche noi, con sei-sette anni, dovevamo fare la nostra parte. Mio papà era capace di fare il fabbro, perché mio nonno era fabbro, ma era capace anche di fare il tessitore.
Quando avevo otto anni, il papà è tornato, è arrivato a casa già un po’ malato. E’ arrivato in agosto; a gennaio si è ammalato il mio fratello più piccolo di meningite. In dieci giorni è morto. Io ero molto affezionata ai mei fratelli e specialmente a lui, il più piccolo e il più vivace. Mi ricordo benissimo quando è morto: avevamo una specie di sala e l’hanno steso là: era biondo, con gli occhi azzurri, ancora paffutello... non faceva impressione.Tutto il giorno sono stata intorno a lui. Il giorno della sepoltura pioveva, c’era l’acqua dentro alla fossa. Hanno faticato a tirar via mio papà.
Quando avevo dieci, dodici anni soffrivo un po’ di linfatismo, avevo sempre un po’ di anemia. Mio fratello soffriva di reumatismi alle ginocchia. Allora ci hanno mandato tutti e due a Riccione, in una colonia della Rivetti. Il mio papà, che era antifascista, stava male a vederci partire così, in divisa.
Io frequentavo la chiesa, andavo a cucire dalle suore. La mattina della domenica partivo presto per andare a fare la comunione. A mio papà dispiaceva vedermi andare. Avevo un paletot, con un berrettino bianco che mi aveva fatto la mamma con dei fiocchi così. Mi diceva che sembravo un gattino in mezzo alla neve. Mi ha detto: “Ma dove vai a quest’ora? Quel Gesù che tu preghi lottava contro l’ingiustizia nel mondo. L’hanno fatto fuori. E’ morto, mia cara. Non è resuscitato, è morto.” Mia sorella, doveva andare a dire una poesia a uno che facevano cavaliere. Allora mio papà: “Te la insegno io, una poesia! Questa: “Nei tempi antichi e remoti, i ladri pendevano dalle croci. Ora che i tempi sono mutati, le croci pendono dal petto ai ladri”.
Verso gli undici anni, mio papà si è gravemente ammalato. L’ha preso una debolezza estrema. Un esaurimento nervoso e organico insieme. Mio fratello ha finito la quinta elementare al mese di giugno e otto giorni dopo è già andato a fare il “bocia” da un muratore: avrebbe compiuto dodici anni in agosto. Un giorno è venuto il messo. Ha detto che dovevamo ricoverare il papà, assolutamente, perché poteva farci del male. L’hanno portato a Novara. Non è rimasto tre settimane che era già morto.
Ho fatto la prima, la seconda e la terza a Valle San Nicolao; la quarta e la quinta, mia mamma mi ha mandato in un educandato a Bioglio, dalle suore. Mi sono trovata malissimo. Ingiustizie, differenze: chi portava la roba era trattato meglio. Non voglio vantarmi di essere stata tanto intelligente però a scuola non avevamo, sia io che mio fratello, nessuna difficoltà. Tant’è vero che quando ho fatto la quarta, lì nelle educande, mi hanno dato il premio. Invece in quinta mi sono ribellata. Non trattavano bene. Quando c’era qualche sepoltura, ti mettevano il cappello e la mantella e ti mandavano. Mia madre aveva fatto sacrificio a comprarmi quel cappello e le altre se lo mettevano e a me ne davano uno che mi arrivava sugli occhi. Allora l’ho portato a casa. Il giorno dopo:
“Manca un cappello!”
“Nessuno l’ha rubato. Ho preso solo il mio perché non lo mettevo mai!”
E poi si lamentavano perché mia madre mi aveva comperato un grembiule che, secondo loro, si stropicciava facilmente. Un giorno mio papà non stava bene e mia nonna doveva andar via: “Guarda, vai e poi chiedi il permesso di stare a casa”. Hanno detto di no. Le mie compagne dicevano sempre: “Ah, prendi di nuovo il primo premio!”
“No, no, non lo prendo più quest’anno!”
Difatti mi hanno dato il secondo premio. Ma io non mi sono offesa per quello. Ho detto: “Va beh, se mi merito il secondo...” Però quelle a cui hanno dato il primo io le conoscevo. Le mie compagne hanno detto che non era giusto e l’hanno detto là, volevano darmi tutte le caramelle. “No, non le voglio. Tenete, non le voglio.”
Allora la suora mi ha detto:
“Portami qui i libri che ti cancello il secondo premio e ti segno primo premio.”
“No, non lo voglio. Se ho meritato il secondo, prendo il secondo!”
Sono fatta così! Alla fine mi avevano persino proposto - dopo che è morto mio papà - che potevo andare ancora a scuola là, che mia mamma pagava solo la minestra e il mangiare, che mi insegnavano anche sulle macchine...ho giocato di testa e non ci sono andata. Ho preferito andare a lavorare.
Ho compiuto dodici anni a novembre, al 15 gennaio sono andata a fare l’annodafili dai fratelli Garlanda. Ero talmente piccola che quando passavo da Campore1 mi dicevano di prendere il cestino e di andare all’asilo. Nel telaio, non uscivo nemmeno con la testa. Ho annodato quattro anni e mezzo e poi mi hanno dato il telaio. Allora si cominciava già ad uscire, però quello che più mi piaceva era leggere. Leggevo di tutto. Mio papà era appassionato di opere e gli dispiaceva tanto che eravamo tutti stonati. Lui cantava bene. Quando era giù in Brasile e in Argentina, andava a cantare nel coro. Aveva tutti i libretti delle opere. Leggevo anche quelli: l’Aida, il Rigoletto, la Bohème, basta che trovassi qualcosa da leggere. Ho letto, per esempio, “I Miserabili”, “I Misteri di Parigi”, quei drammoni di una volta...
La mamma non voleva che andassi in fabbrica. Voleva piuttosto che facessi la sarta. Ma io non ho pazienza...se un lavoro andava bene, bon, se non andava bene, mi dispiaceva rifarlo. Non ero portata, non era il mio lavoro. Mi piaceva andare in fabbrica, il lavoro lo facevo anche con passione, perché allora non era come adesso che è automatico, allora dovevi crearlo anche tu. Quando si facevano i campioni , ci facevano andare dentro alle sei e delle volte stavamo fino alle dieci di sera. Eravamo un gruppo, tra ragazzi e ragazze, andavamo fuori a comprare il pane, un pezzo di salame, un po’ di frutta per mangiare. Dalle sei venivano quasi le sette. Si andava un po’ a annodare. Alle nove si saltava fuori dal telaio... eravamo solo noi! C’era una che insegnava a tutte a ballare. Abbiamo imparato a ballare in fabbrica. Non c’era controllo e poi ti pagavano solo quello che annodavi, eh!
Nel ‘36 è morta mia nonna di tetano. Ho pianto più lei che mio papà, perché col mio papà ci ho vissuto troppo poco assieme. Invece con mia nonna ci andavo a dormire. Quando mio papà era in America dormivo con mia mamma, poi ho dormito sempre con lei. Era capace di raccontare le storie... mi è mancata proprio qualche cosa... La mamma era sempre lei che doveva faticare, doveva pensare a tutto, allora era severa. Mio fratello diceva: “Ma non ascoltare che intanto poi le passa!” Io ero più testa dura e la pagavo sempre.
Crescendo, non ero più portata per andare in chiesa. Non tolleravo la confessione. Non mi piacevano i pettegolezzi. La fabbrica è una maestra di vita: c’era il caporeparto che faceva le differenze, c’era quella che magari se la faceva buona col caporeparto. Poi c’erano quelle che, da mezzogiorno alle due, se la raccontavano e ce l’avevano con l’uno e con l’altro. Sentivi dei discorsi! Non mi ci trovavo proprio! Alle volte ti urtavi anche con delle persone perché ti credevano superba. C’era una mia amica che usciva con un ragazzo. Un giorno uno mi dice:
“Ma esci con quella lì?”
“Ma cosa ti interessa? E poi che cosa ha fatto?”
Nel ‘40 hanno richiamato mio fratello. L’hanno messo nel genio artieri, a Torino. Gli piaceva studiare, aveva fatto un corso serale di due anni di perito edile e aveva fatto tre anni in due. L’hanno messo alla scuola marconisti e gli piaceva da matti. Mi mandava le cartoline con l’alfabeto Morse, me l’aveva insegnato e io le decifravo. Nell’agosto del’42 l’hanno mandato a Santa Maria Capua Vetere. Ci scriveva che aveva sempre la febbre, che non stava bene, ma che era contento perché così lo mandavano a casa in convalescenza. Un giorno, io ero a cucire dalle suore, è arrivato un appuntato dei carabinieri: dovevo andare a Bioglio in caserma. Da Valle San Nicolao sono andata a Bioglio, ma non avevo il coraggio di chiedere che cosa c’era scritto su quel telegramma. Arrivata in caserma, il maresciallo mi ha detto che c’era il biglietto pagato per due per andare a Caserta, all’ospedale militare.
“Ci vorrebbe un uomo per andar giù in tempo di guerra!”
“Ma siamo solo io e mia mamma!”
Prima di uscire gli ho chiesto: “Ma cosa c’è scritto sul telegramma?”
“Non lo sai? Te lo do da leggere!”
Diceva che versava in gravi condizioni.
Siamo andate giù con mio zio. Mio fratello aveva una pancia che sembrava...Dicevano che era una peritonite specifica. Un medico voleva operare e il chirurgo no. Erano venticinque giorni che non riusciva ad andare di corpo e aveva la febbre a 40-41. Lo davano perduto e gli avevano dato l’olio santo. Un tenente medico ha preso la mamma da parte: “Per loro non c’è più niente da fare. Io però gli darei una purga. Deve però lei assumersene la responsabilità. Se vuol farlo, lo faccia lei. E comunque vada non mi tradisca, perché io sono solo tenente!” Così ha fatto. Al mattino credevano di vederlo morto e invece si era liberato e fatto! Mia mamma è riuscita a portarlo a casa, è stato sei mesi in convalescenza. Si è ripreso benissimo e non voleva più ripartire! Il foglio era tutto piegato e rotto e voleva che scrivessi che doveva rientrare a Torino. “Io non scrivo. Vai a finire a Gaeta! Siamo in guerra. Ma ci pensi!?” Ha convinto un suo amico. E’ arrivato a Torino che c’erano ancora tutte le macerie fumanti perché il giorno prima c’era stato un grosso bombardamento: “Strano... tutte le tue carte sono là. Vai giù a riprenderle!” Poi è venuto il 25 luglio e l’8 settembre. Proprio quel giorno ho ricevuto una cartolina da Bologna. “Meno male che è lì!” Tanti arrivavano e lui no. Volevo andarlo a prendere. Un bisticcio unico con mia mamma: “No, semmai vado io!” Poi finalmente, un giorno che facevo il turno dalle due alle dieci, vedo una mia amica: “E’ arrivato! E’ arrivato!” In realtà l’8 settembre si trovava a Napoli. E’ riuscito a salire su un camion con degli altri e arrivare fino a Roma. Hanno preso un treno e sono arrivati a Milano. Lì c’erano i tedeschi... piombavano i treni. Dei ferrovieri hanno buttato dei vestiti e sono riusciti a scappare. A Milano sentiva già il profumo di casa! E’ arrivato fino a Biella, ha lasciato a Valdengo la valigia, che siamo poi andate a prendere. Dentro c’erano delle chiavi inglesi perché lui era appassionato di quelle cose lì e una maschera antigas che non so nemmeno che fine abbia fatto!
A novembre ha cominciato a fare la Resistenza. La mamma aveva preso la cooperativa. Quando lui era in convalescenza aveva voluto, a tutti i costi, che la prendesse. Lui aveva contatti con l’Ozino2 e con gli altri. Veniva in cooperativa, a volte c’ero soltanto io, e prendeva roba da mangiare: “Stai zitta! Non dirlo alla mamma!” Nel mese di giugno, quando han chiamato il ‘21, è andato in montagna con Mastrilli3. Verso la fine di luglio è venuto a casa mia Gemisto4, gli ho chiesto se sapeva qualcosa di mio fratello perché non avevamo più notizie. “Mi informo e poi vi faccio sapere!” Quattro giorni dopo è arrivato mio zio con una lettera in mano. Ci ha chiesto se sapevamo qualcosa di Enzo.
“No, perché tu lo sai?”
E’ rimasto lì... non sapeva cosa dire...
“E’ ferito?”
Non è stato più capace a parlare e abbiamo capito.
Otto giorni dopo abbiamo ricevuto una lettera in cui ci dicevano che se volevamo sapere qualcosa dovevamo andare a Graglia. Siamo andate in quella casa grossa con archi, prima di andare a San Carlo. Sono arrivati giù il fratello dell’amica che era con noi e il Sassi. Ci hanno spiegato che al mattino c’era stato un attacco: i tedeschi coi mortai sparavano sulla montagna dal laghetto di Issime. Una scheggia è rimbalzata e l’ha preso in pancia. Sono riusciti a trascinarlo dietro una roccia.
“Non preoccuparti! Ti trasportiamo!”
“Meglio che mi lasciate qua. Scappate! Se prendono anche voi... non basto io? Sono già stato troppo malato, so cos’è il mal di pancia, io...”
In quel momento c’è stata una raffica, poi si è sentito un colpo.
“Sparano vicino. Guarda come sparano vicino, Breda!”
Il nome di battaglia di mio fratello era Breda. Si volta e lo vede. Si era sparato. Le ultime parole che ha detto sono state:
“Mi dispiace morire che non ho ancora ventitre anni, però si vede che dovevo arrivare solo fin qua”.
Dopo che è morto mio fratello, mia mamma ha preso anche il dopolavoro vicino alla cooperativa. Ci aiutavano, non eravamo soli. Lì si riuniva il Cln. Ci portavano loro la roba da mangiare e mia mamma la faceva. Un bel giorno ci hanno fatto la spia (e dopo abbiamo anche saputo chi). Avevano fermato una ragazza e le avevano trovato il ricordino di mio fratello nel portafoglio. Sono venuti in cinque. Io ero appena arrivata dal lavoro (allora lavoravo dall’Albino Botto) e stavo per mettermi a mangiare. I fascisti mi hanno fatto vedere il ricordino e mi hanno chiesto se lo conoscevo.
“Sì che lo conosco! E’ mio fratello!”
“Lo sa che cosa ha fatto?”
“E’ morto. Cosa volete di più?”
Volevano che la mamma andasse dal tenente.
“Allora vengo anch’io!”
Ero come di sasso, mi sentivo svuotare. Tra loro c’era uno che non aveva proprio la faccia da... sembrava un bambino. Si sono messi a frugare dappertutto, ma non hanno trovato niente. Mentre parlavano, ho detto:
“Guardate, mi fa male vedere quella fotografia nelle vostre mani. Potete ridarmela? A voi non interessa niente... ma per me... è mio fratello!”
“Ci dispiace, ma non possiamo. Dobbiamo riportarla indietro.”
Lui ha detto: “Vediamo poi.”
Quando sono andati via, ho detto: “Auguri!”
E uno mi ha detto: “Che muoia presto in combattimento?”
“No! Che torni da sua mamma, se ce l’ha!”
Quasi alla fine della guerra, un giorno (ma io non c’ero) sono passati e l’hanno data alla mamma: “Gliel’avevamo promessa e adesso gliel’abbiamo portata, vede?”
Un’altra volta, io ero andata a prendere delle foto dal Gino perché doveva fare dei “bilingue”5 falsi. Mia mamma mi ha mandato ad avvertire che aveva paura perché c’era la “repubblica” là. Sono andati in ventotto in cooperativa e l’hanno un po’ malmenata, picchiata no. Aveva paura per me: “Adesso quella là...” e poi invece... anzi i danni me li hanno persino pagati i partigiani. Ho dovuto imparare a battere a macchina su una Remington che mi sono spaccata le dita. C’era uno che era capace, ma di lui il Gino non si fidava. Mi ha fatto insegnare da lui e poi, però, battevo io.
Mio marito l’ho conosciuto all’Albino Botto, prima che finisse in Germania. Lui è di origine veneta e i suoi abitavano a Strona. Lavoravamo assieme. Prima avevo una simpatia per un partigiano, che è morto a Mongrando proprio il 21 di aprile. Mi ricordo, quando è finita la guerra, il 1° maggio. Io non volevo andarci perché la casa era vuota ed era duro. C’era Ozino che diceva: “Ma vieni, vieni!” allora sono andata. A piedi fino a Vallemosso. C’era tutta quella gente! Ero contenta però era dura. Poi siamo andati fino a Crocemosso6, sempre a piedi. Di lì abbiamo preso il camion e siamo andati a Biella. C’era Vietti7 che parlava. Poi si è messo a piovere e, quando siamo ritornati indietro, mi ha fatto male il camion. Sono stata male e l’Ozino non sapeva più cosa fare. Sono arrivata a casa che ero uno straccio.
Poi, per forza, bisogna superare le cose. Ho conosciuto lui e con lui c’erano anche gli ideali uguali. In quel momento, l’ideale era forte. Tra mio fratello...se non ci fosse stato quello... era già una cosa importante. Mi trovavo con lui, perché era una persona leale e sincera. Io non mi lasciavo infatuare da belle parole, capivo se uno era sincero o no. Volersi bene, in un rapporto, è importante, ma poi ci vuole anche la stima e la fiducia. Tra noi ci compensiamo: lui spara a zero, io ragiono troppo. Lui mi ha detto: “E’ stato un bene, perché tu mi frenavi”. Quando ci siamo sposati, ho messo subito le cose in chiaro: “Oggi andiamo bene, domani non si sa. Se non va, diciamocelo chiaramente, sinceramente”. E’ andato tutto bene.
Mia mamma aveva certe possibilità, loro invece erano in cinque fratelli, in famiglia lavorava solo lui, suo papà e sua mamma. A lei sarebbe piaciuto comprarmi un bel vestito. Ho detto: “Senti mamma, costringi loro a fare delle spese che non ce la fanno. Io non voglio!” E’ andata dall’Albino Botto e mi ha portato a casa un pezzo di stoffa blu, un po’ vivo. Sono andata dalla mia sarta che mi ha fatto fare dei ricami. Ho messo una veletta azzurra con dei fiorellini... Per lui anche, ma soprattutto per i suoi sposarci in civile era un po’ un problema... allora: “Non facciamo tante storie!”: ci siamo sposati nella chiesetta a Brovato8 nel ‘48.
L’anno prima si era risposata mia mamma. Mi aveva detto:
“Se non sei contenta, io non mi sposo!”
“Se trovi giusto, fallo! Ho un’età che so fare da me...”
Anche se dentro di me c’era qualcosa... capivo benissimo che era da egoisti, ma ero troppo abituata ad avere sempre mia mamma lì. Ho sempre vissuto solo con lei! Una mia amica mi aveva detto:
“Io a mia mamma non glielo permetterei!”
“Tu non le vuoi bene a tua mamma! Sei egoista!”
Quando mia mamma è rimasta incinta, di nuovo mi ha detto:
“Se a te fa male, io non lo compro.”
“No, assolutamente. Se è quello che vuoi...”
Quando mi sono sposata, mia mamma era incinta, però ha fatto da mangiare lei, in sala, per quei pochi invitati che c’erano e poi siamo partiti per San Remo. Ci siamo fermati due o tre giorni e poi siamo andati a Torino, dove avevo dei parenti.
Mi sono sposata il 3 aprile e il 14 marzo dell’anno dopo ho avuto la bambina. Lavoravo a Quaregna e mi piaceva. Più il lavoro era difficoltoso, più mi piaceva, mi appassionava. Per esempio, sono andata a lavorare da Faudella dove c’era tanto lavoro da donne. C’erano quei paletot, quei double-face dove dovevi stare attenta. Ogni fabbrica ha il suo stile di lavoro, cambia sistema, c’è un metodo diverso... Poi sono andata alla Gallo. Mi hanno presa quindici giorni in prova. Otto giorni che ero lì c’era uno sciopero. Mi hanno raccomandata di non farlo. Non sono stata capace, sono uscita: “A me hanno chiesto se ero capace di lavorare, non se facevo sciopero!” Ero lì da nemmeno un anno, hanno insistito per mettermi nella Commissione interna. Son rimasta eletta e il direttore mi ha persin rimproverata perché non era giusto che una, con appena un anno di anzianità, andasse giù nella Commissione interna. Lì diventava sempre più dura: un compagno, preso mentre raccoglieva le quote sindacali, l’hanno licenziato in tronco. Abbiamo scioperato per otto giorni per farlo riassumere, ma non abbiamo ottenuto niente. Non ottenendo niente, la gente era demoralizzata. Poi è venuto il doppio macchinario e tutto il resto. Avevano paura: quando c’era sciopero, passava il caporeparto. Anche quando sbagliavano avevano paura. Una volta ho sbagliato io. Sono andata là e gli ho detto:
“Ne ho combinata una! Ho sbagliato, non ho visto... adesso ho già fatto un pezzo così!”
“Va beh, si può sbagliare...”
Bisogna anche ammettere quando si sbaglia. Poi sono venute le lotte del’60-’61... non ne potevo più, per fortuna sono venute le ferie. Quando sono tornata al lavoro abbiamo ottenuto quelle 25.000 lire. Ma c’era un po’ di malcontento. Mi ricordo di una di Valdengo che diceva: “Io non faccio più sciopero perché hanno dato i soldi anche a quelli che non hanno scioperato!” In mensa cercavo di far capire: “La lotta la facciamo per noi o non concludiamo niente! Lo sapevamo già che i soldi erano per tutti: non si può fare differenza!”
Nel ‘63 ho smesso di lavorare, perché siamo andati a Torino. Mio cognato aveva saputo di un negozio da rilevare a Torino. Voleva andarci lui, ma era ammalato e così ci ha detto: “Volete andare voi?” Mio marito ha deciso di sì. Io ero contenta solo un po’. Dopo tutto era un lavoro nuovo non tanto per il negozio (avendo già avuto la cooperativa), ma bisognava imparare a fare i gelati. Una volta lì, non è che ci piacesse proprio tanto, perché per fare il commerciante bisogna nascere con la mentalità del commerciante. Noi, invece, eravamo operai trasportati. Sono venuti anche il fratello di mio marito e sua moglie. Lei era un tipo nervoso e in negozio bisogna aver pazienza perché la gente è com’è. In città non è come qui da noi che si prendono anche due o tre etti di formaggio. C’era una cliente che se voleva l’etto, era l’etto. Mia cognata: “Come faccio io a tagliarne un etto?!” Io invece le dicevo: “Mi scusi, se è poi un etto e dieci o novanta grammi! Io il peso in mano non ce l’ho!” Ma lo dicevo in una maniera che quella là rideva, mentre con mia cognata si arrabbiava. La gente bisognava capirla! Ce n’era tanta che la pensava diverso da noi, però avevamo un rispetto!...Mi ricordo che, nelle ultime elezioni, mio marito aveva appena preso la macchina tutta imbandierata fuori dal negozio! Sapevano com’eravamo, ma noi rispettavamo loro! Poi mi sono presi i dolori e mia figlia, sospendendo mio cognato, doveva aiutarci. Faceva le magistrali e non ce la faceva più. Le è preso un esaurimento. Lei se doveva studiare, doveva studiare! Ho detto: “Guarda, smetti!” Poi è andata a studiare il russo a Italia-Urss. Ha studiato tre anni e forse, se ci fermavamo a Torino, ci sarebbe stata l’occasione di occuparla alla Fiat, perché conoscevamo della gente. Io ho passato un inverno completamente bloccata per i dolori fino a marzo. D’estate bisognava vendere i gelati e eravamo aperti fino a mezzanotte e toccava a me. Lui si alzava presto al mattino perché arrivava il latte e c’era ancora il latte sciolto. Fiorella si alzava più tardi e andava anche lei lì. Ci siamo detti: “Da soli non ce la facciamo!” Ci è venuta l’occasione di vendere e siamo ritornati a Cossato, nel 1968.
Trovar posto non era facile. A novembre è arrivata l’alluvione. A lui avevano detto che da Tallia avevano bisogno. E’ andato e gli hanno detto:
“Oh, semmai di notte”
“Va beh, pazienza. Vengo anche di notte”
“La mandiamo a chiamare”
Una settimana, due, tre. E’ andato a chiedere.
“Ah, ci hanno detto che è un elemento pericoloso”
“Ma chi?”
“All’Unione industriale!”
“Ma io non ho mai ucciso nessuno!”
Allora ci siamo decisi. Abbiamo fatto un salone e abbiamo preso un’aspa. Abbiamo lavorato così due o tre anni. Non era una cosa facile: se c’era lavoro avresti dovuto lavorare giorno e notte... se c’era poco lavoro, ti pagavano poco. Mio marito ha trovato da occuparsi dove facevano la moquette, girava col furgone e poi alla Dacova. Io sono andata avanti ancora un po’ di tempo con mia figlia. Arrivata a cinquantacinque anni, dovevo poi andare in pensione, le ho detto: “Guarda, se trovi un posto...” Pur lavorando ventotto anni in fabbrica e pagando dodici tra commercio e artigianato sono andata in pensione con la minima... se fossi sola non potrei vivere.
Quello che mi è piaciuto di più è stato il lavoro in fabbrica. Mi trovavo di più, avevo le mie soddisfazioni. Anche nella lotta, anche se delle volte era dura. In fabbrica c’era la gente. Era tutto diverso. Quando sono arrivata da Torino, una donna ha detto a mia mamma che il direttore della Gallo (quello che mi aveva detto che mia figlia non sarebbe entrata lì perché ero della Commissione interna e io gli avevo risposto: “Può darsi che quando mia figlia sarà in età di lavoro, non ci saremo né io né lei qui dentro”) aveva detto di me: “Avevamo un’operaia qui dentro che era la migliore. Ho avuto molte discussioni da fare, però l’ho sempre ammirata”. Nel lavoro ho avuto anche delle soddisfazioni. Mi ricordo che alla Gallo avevo da fare un campione. Ordito nero, catena nera e la trama un color bruciato. Il campione lo volevano perfetto. Se c’era anche un piccolo difetto, bisognava disfarlo. Però faceva la riga. Io non ho lasciato che passasse niente. Il disegnatore mi ha mandata a chiamare.
“Guardi un po’ questo campione!”
“Scusi, lo voleva perfetto e io non potevo fare a meno di disfare i difetti!”
E’ tornato poi il caporeparto da me.
“Sai che cosa ha detto? “Se quella tessitrice ha fatto il campione ed è riuscito così, con quella ratatuia9 che ho là dentro, facciamo che sospendere perché non so cosa mi viene fuori!”
Sono convinta che anche dentro di noi operai si è troppo condizionati, si ha troppa paura. Io mi dicevo sempre: “Fai il tuo lavoro. Fai il tuo dovere. Rispetta gli orari...Lavorare bisogna. Poi, quando hai fatto il tuo lavoro, non hai paura di nessuno!”
1 Frazione di Valle Mosso.
2 Ercole Ozino, dirigente del sindacato clandestino e, nel dopoguerra, primo segretario della Camera del lavoro di Biella.
3 Bruno Salza, “Mastrilli” come comandante partigiano.
4 Franco Moranino, “Gemisto” come comandante partigiano.
5 Documenti di riconoscimento in italiano e in tedesco.
6 Frazione di Valle Mosso.
7 Mario Vietti, dirigente del Pci biellese.
8 Frazione di Valle S. Nicolao.
9 Letteralmente: “roba di scarto”; può riferirsi sia alla qualità dei filati sia, per disprezzo, al personale.
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Strona
- Qualificazione:
- operaia tessile
- Luogo:
- Cossato
- Qualificazione:
- operaia tessile