Persona
Talamini, Lea
- Nascita
- Luogo:
- San Fior (Treviso)
- Data:
- 30 giugno 1908
- Biografia / Storia
- La nonna in casa faceva alto e basso
Lea, San Fior (Treviso), 1908.
I miei genitori lavoravano in campagna. Era campagna propria, loro. Si piantava il grano, si piantava per fare la polenta, si faceva il vino. Avevamo anche il baco da seta che dava un lavoro fenomenale. Eravamo sei figli. Mio papà si chiamava Lino e mia mamma Mosca Giuseppina: lei era di Pinidello, sotto a Cordigliano, sempre in provincia di Treviso.
Allora, prima della guerra del ‘18, eravamo ancora tutti uniti, si mangiava tutti insieme con la famiglia del papà che aveva cinque fratelli e due sorelle. Facevano poco, sai, rispetto a quello che facciamo adesso... allora erano tranquilli come papa. A parte che erano anche signori, perché avevano una campagna che facevano andare in casa e poi avevano una campagna con l’inquilino come affittavolo, e poi avevano un mucchio di rive su per il Cadore, perché loro erano nativi di Vodo di Cadore.
Non si uccidevano no a lavorare, va! Non si uccidevano! Avevano il domestico e la domestica. Per lavorare la campagna c’erano le bestie... Per esempio noi, che abbiamo un paio di buoi, andiamo ad aiutare un altro... Si faceva così uno con l’altro: si prestavano le bestie e si lavorava la campagna.
Le donne facevano da mangiare, se c’era da lavare, se c’era da aggiustare la roba e non facevano altro. Ricamare poco, mia mamma era capace a fare qualcosa, ma aveva tanto lavoro perché eravamo in sei e allora il tempo scappava lì. Ricamare non era come nel meridione che son morti per il ricamo.
In famiglia non c’era politica allora, niente da fare. Allora si andava in chiesa la domenica; se non andavano alla prima, andavano alla seconda.
Quando si era uniti amministrava tutto la nonna che faceva alto e basso. Loro andavano a fare il commercio, andavano a vendere le mucche, a vendere i buoi, contrattare. Per esempio, vendevano un capo o dei capi di bestiame, il ricavato lo davano alla nonna.
Mio nonno era padrone di una campagna, ovverosia erano due fratelli: uno voleva andar prete e i genitori non potevano più farlo studiare, non avevano i mezzi... allora hanno detto a mio nonno che erano del parere di vendere boschi o legname o qualche cosa per far studiare questo prete, che poi l’avrebbe ricompensato. Il prete, quando è morto, ha lasciato tutto ai nipoti maschi, cioè mio papà e i suoi fratelli. Erano due campagne, una di quattordici campi, che il campo veneto faceva mille metri.... Dato che erano famiglie benestanti, erano piuttosto ceto medio, allora sembrava che la nonna non avesse voce in capitolo come i figli. E’ capitato di comprar un’altra campagna e la nonna ha fatto la procura generale al nonno e il nonno ha comprato la campagna e gliel’ha messa in ditta alla nonna, cioè padrona diretta. Avrebbe potuto dargliela come usufruttuaria e lasciarla ai figli perché l’hanno comprata con l’utile delle campagne che loro avevano ricevuto dal prete. Il nonno, dopo, se n’è accorto che aveva sbagliato e voleva che gliela restituisse la ditta, che tenesse solo l’usufrutto e invece non ha più potuto far niente. Venuta la guerra, erano tutti e cinque soldati. Il solo sposato era mio papà, che eravamo già in quattro. Quando è venuto a casa, la nonna comincia a dirci che dovevano dividersi. Sono rimasti lì perplessi... Intanto lei aveva la campagna sua, aveva la figlia maestra e non aveva più bisogno di niente. Allora uno di questi zii si è “immulato”, come si dice noi in Veneto, si è arrabbiato... è andato a vivere in un’osteria, a mangiare a a dormire lì. E’ stato cinque anni, senza più dare un colpo.
Mio papà invece aveva fatto un contratto con la “Sinistra Piave”, che facevano tutti i lavori...Era un’impresa grandiosa, faceva tutti i lavori oltre il Piave fino a Trieste... c’era stata la guerra e dovevano aggiustare le strade... Dato che avevano un mucchio di legna in montagna, andava in montagna e spediva il legname a Conegliano dove aveva un socio. Quello lì, invece di dare i soldi al papà che pagasse il legname, si è comprato dei cavalli per conto suo. Mio papà non ha più potuto consegnare il legname alla “Sinistra Piave”. Aveva un contratto e ha perso la causa. Avevamo 21.000 lire di debito per questa causa che ha dovuto subire! Allora la nonna, che era una cadorina bestiale a dir poco, aveva i soldi ma, invece di darli a mio papà per pagare i debiti, li ha dati a quello zio lì che era all’osteria, che si era interessato il prete per farlo ritornare a casa. L’ha fatto ritornare a casa, è andato con la nonna e la zia maestra.
Quello zio ci ha mangiato la campagna che avevamo noi... la nonna non se n’è presa male per niente per mio papà e lui non ha potuto far più niente. E’ andato un po’ di qua un po’ di là e dopo la guerra ha fatto che mettersi un po’ a bere... E’ finita, perché li ha rovinati in qualche maniera, i figli.
Mia nonna aveva la campagna, aveva il servo che faceva tutto, aveva la zia che portava la busta. Quando è morta, ha lasciato tutto a quella figlia maestra. Non basta aver lasciato tutto a lei - perché delle famiglie bisognerebbe conoscer tutto a fondo! Quella lì ha presentato una cambiale falsa che aveva dovuto pagare dei debiti, e non era vero. Allora quel mio zio che era stato in osteria cinque anni ha impugnato il testamento. Impugnando il testamento, hanno dovuto dividere tutto, che erano sette, comprese le due sorelle e i cinque maschi. Così hanno venduto la campagna e hanno diviso i soldi, e la zia è rimasta senza anche lei, che aveva fatto quel che aveva fatto.
Anche divisi eravamo in quella casa lì. Eravamo mio papà e quel mio zio lì, la maestra e la sorella che poi si è sposata. Invece due fratelli sono andati ad abitare nell’altra campagna dov’erano quattordici campi di terra, e uno è andato a fare il fattore del conte Marcello. Dovevamo aggiustarci ognuno per ciascuno. Mio papà ha cominciato a andare per il mondo. Andava via l’estate. Quando era venuto sul monte Spluga faceva l’impresario e poi è stato a Trieste. Andava a lavorare nell’edilizia. Faceva sempre il capo perché erano tutti istruiti. Avevano studiato fino a vent’anni tutti. La figlia più giovane si è incasata con la zia maestra: la zia maestra s’è presa la bambina più giovane e sono state lì, ma per conto loro. E io per andare avanti, andavo a fare i lavori alla zia e alla figlia, quella mia sorella là. Avevo due fratelli che erano andati a fare il soldato. Allora non avevamo soldi e sono andata a far la semi-domestica dalla zia maestra e dallo zio che ci ha fregato la campagna. Mi dava 50 lire al mese e ne mandavo 25 al mese prima a uno e, poi finito il soldato, all’altro che è andato dopo. Quelle 25 che avanzavo, una volta compravo da vestire, una volta compravo un paio di lenzuola, così alla bell’e meglio. Ricamavo qualche camicia alla sera, quando si andava nella stalla. Qualche cosa facevo, del ricamo o all’uncinetto o all’ago.
La mia sorella più vecchia era del ‘7, io dell’ ‘8, uno del ‘10 e uno del ‘12, poi dopo che son venuti a casa dalla guerra ce n’è nata un’altra del ‘20 e un altro del ‘23. A quattro anni sono andata all’asilo... c’erano cinque - sei suore che ci tenevano lì e la popolazione offriva roba, verdura, vino... Stavamo lì tutto il giorno, non si faceva niente. Si cantava.
Quando sono venuta più grande si andava lo stesso all’asilo a giocare al pallone, saltare...
Ho fatto la terza non finita perché son venuti dentro i tedeschi e dopo non siamo più andati.... era il 1916. In casa la zia maestra era amica delle suore e c’era anche una suora che faceva scuola. Allora si frequentava tanto l’asilo anche da grandi. Facevamo teatro. Ne facevamo di belle recite. Abbiamo fatto anche il dramma “La croce di marmo”, che era un dramma fenomenale. Lo ricorderei ancora adesso. L’abbiamo fatto due volte, perché una volta ho fatto la figlia della contessa, la protagonista. Dopo invece ho fatto la mamma.
Nell’asilo c’era anche un’aula per le scuole. La prima la facevano lì e poi le scuole più alte, la seconda e la terza, erano un po’ più giù.
Quando ero a casa, io e mia sorella che era più grande, si divideva i lavori. Si lavava i piatti una volta per ciascuna, se c’era la vendemmia si andava a aiutare, se c’era da andare a raccogliere il granoturco si andava a aiutare... Una volta al mese si faceva il bucato. Si aveva una caldaia grossa, avrà tenuto un ettolitro e più! Con un fornello si faceva fuoco e si faceva bollire l’acqua. Si metteva la cenere e con il bastone di legno si metteva tutta la roba ben aggiustata. Avevamo una peschiera - non so come la chiamate voi qui - una fossa di acqua ferma in fondo alla campagna e si andava lì, quell’asse così, ti inginocchiavi e andavi a risciacquarla lì.
Ma che corredo... La zia, quella che si è sposata, ha fatto il corredo e le hanno dato il corredo, un mucchio. Poi si sono divisi la roba che hanno ereditato dal prete. Pensa, dopo che i tedeschi ce ne hanno portato via un mucchio, hanno ancora diviso undici lenzuola...
Noi eravamo oltre il Piave, sono venuti in casa, t’hanno portato via tutto, t’hanno tirato a zero. Prima han detto che venivano lì col comando degli austriaci, perché erano germanici e austriaci. Gli austriaci erano più bravi, i germanici erano bestiali. Allora ci hanno detto che se si prendeva un comando in casa, non sarebbero venuti gli altri soldati. Abbiamo preso il comando degli austriaci e poi invece di soldati ce n’è venuto un mucchio. Venivano a portar via, a requisire quello che trovavano. E poi la guerra l’hanno persa per fame perché non avevano più niente neanche loro. Siamo stati un anno sotto i tedeschi. Non abbiamo preso una goccia d’olio, né un grano di sale, né una spolina di filo, niente! Sai che vuol dire? Niente, zero, zero! E da mangiare non era come qua che avevano la tessera: lì non c’era niente, dovevamo aggiustarci! Noi eravamo ricchi, abbiamo sotterrato una botte grossa con tutto il grano. Abbiamo sotterrato una tina grossa, alta fino lì. Tutta biancheria. L’abbiamo sotterrata nella cantina che era terra. Sono andati a far la scuderia lì, sono stati un anno. Quando l’abbiamo tirata fuori, era tutta mezza marcia. Il grano l’abbiamo tirato fuori col but, tutto germogliato! Ah, era una vita cari miei!
I ragazzi alla sera andavano a trovar le ragazze. D’inverno facevano il filò nella stalla, venivano i giovanotti nella stalla e se a me, per esempio, piaceva questo qui, allora gli davo la sedia e si sedeva. Faceva capire che ti piaceva un po’, se no erano le altre che gliela porgevano. D’estate ci si vedeva fuori. Se no venivano in casa senza tanta difficoltà, senza chiedere al papà o alla mamma. Non era ancora il fidanzato fisso. La chiesa era il centro per vedere quello lì e quello là.
Lui, mio marito, è del mio paese. Suo papà lavorava insieme ai miei zii, nel commercio delle bestie, a spedire il legname, a tagliare il fieno. Per casa venivano sempre... Abbiamo cominciato a capirci con tredici, quattordici anni. Lui è andato in Francia, non so se un anno o due o tre a lavorare in miniera, e ci siamo scritti in quel periodo là. Poi è venuto a casa a fare il soldato e poi è andato in Australia.. Ha fatto un po’ di tutto. Appena è arrivato lì ha trovato lavoro negli scavi delle strade che si faceva la fognatura. Si è trovato sotto con un prete e un ingegnere. Poi si sono messi a fare la coltivazione delle banane in quattro soci. Sono andati avanti per qualche anno. Un anno hanno fatto un mucchio di soldi e credevano di impiantarsi, poi invece è andata male perché lì dopo quatro-cinque anni facevano la recessione. Se tu avevi qualche cosa, andavi a terra. Era il sistema così lì. Uno dei soci è morto dalla passemia (?). E lì è rimasto solo uno. Laggiù aveva anche un fratello, è stato quello a farlo andar giù.
E’ venuto a casa al mese di marzo del ‘34 e nel mese di aprile dell’anno dopo ci siamo sposati. Lui voleva andar di nuovo giù per l’Africa ed è venuto qui in Piemonte a trovare un fratello qui. Ha trovato lavoro su per la valle Mosso a far delle mine, che era capace a fare il minatore. Lui è venuto nel luglio del ‘35 e io nel gennaio ‘36. Siamo andati a Cossato e siamo andati ad abitare da un signore solo, da sposare, che aveva due stanze da affittare perché dei giovanotti andavano via per andare a cercar lavoro.
Per il matrimonio abbiamo fatto poco o niente perché lui aveva fretta a tornar via. L’abbiamo fatto in casa. Abbiamo fatto il pranzo in casa, tutta la parentela più stretta. Regali non me li hanno fatti. Uno ti dava 5 lire, un altro te ne de dava 50... Ci siamo sposati in chiesa. Io avevo un vestito in color cenere. Ero sempre con i preti, le monache. Sono venuti tutti i bambini dell’Azione Cattolica perché io ero presidente dell’Azione Cattolica. Lui era venuto a casa dall’Australia, era ancora ammalato, non avevano niente... L’ho vestito io! Sono andata a comprare il mio a Cordignano e, come ho preso il mio, ho fatto passare il suo. Aveva un fratello che faceva il sarto e gliel’ha fatto.
Lui è venuto via subito, io sono rimasta lì con mia mamma fino a che l’ho raggiunto. Al mese di febbraio ho avuto il figlio e sono andata a comprarlo a Biella, all’ospedale. Quando sono venuta a casa, che sono stata meglio perché mi è venuta una mastite da tutt’e due le parti, il bambino gliel’ho dato a una donna che me lo guardava e io sono andata a lavorare in un negozio, a Cossato, che vendevano salami, galline, conigli... pelavo un mucchio di galline alla settimana e sono stata lì un paio di mesi, ma poi non mi prendevano coi libretti e sono andata a lavorare alla Battiana, che allora facevano i mattoni. Menavo la carretta coi mattoni, andar su per la scala, trasportare i mattoni perché li dovevi girare tutti i giorni perché si seccassero.
Poi ho sentito che cercavano lavoro qui, a Miagliano, al cotonificio Poma. La fabbrica era stata chiusa, tre anni mi sembra, e poi l’hanno aperta. Sono venuta a chiedere e il direttore, era un uomo abbastanza vecchio, mi fa: “Oh, ma è già vecchia per imparare!” Avevo ventotto anni. Ho risposto: “Ma con buona volontà si fa presto a imparare”. E mi ha presa.
M’ha messo nelle aspe a disfar la matassa. Ma delle matasse ero un po’ pratica perché avevo la macchina da calze a casa e allora avevo un po’ di mano. Tre mesi sono venuta su da Castellazzo a Miagliano in bicicletta. Ho cercato casa qui, a furia di darci, ho trovato due stanze. Il mese di dicembre siamo venuti ad abitare qui.
Quando sono arrivata a Cossato mi sono ambientata subito. Al mio paese erano tutti bigotti, dal primo all’ultimo, e se non andavi in chiesa non avevi modo di vedere niente. Ero già ribelle allora. Mia zia andava tutte le mattine a confessarsi: per far che? Lì a Cossato c’era un certo Battista Boggio e Venuto Cereia, persone istruite, intelligentissime. Te ne facevano di tutte, ti facevano ballar la tavola... Allora capivi, t’ambientavi. Qualunque informazione avevi bisogno, gli chiedevi... Uno lavorava in Comune. Erano sinistri, già sinistri allora. Son loro che mi han detto di andare a chiedere in quel posto, alla Battiana, che avevano bisogno anche di donne. Allora sono andata a chiedere e mi hanno presa subito. Eravamo tre donne e sette-otto uomini, non era una fornace molto grossa.
La donna che mi guardava il bambino era padovana e si parlava qualche volta. Per mezzo di quelli che avevano il negozio di macellaio che avevano preso a far fieno lungo il Cervo tredici uomini ho lavorato anche lì. Loro portavano la carne e la facevi bollire, facevi la minestra, facevi cuocere magari una pentola di patate e facevi da mangiare un po’ alla buona... Anche mio marito è venuto una festa a darci una mano, poi ho visto che lavoro doveva fare e non l’ho più lasciato andare.
Lui lavorava fuori come muratore. Quando il bambino ha compiuto i tre anni l’ho portato all’asilo. Le suore davano la cera e lui è caduto con le gambe larghe così! Le suore, perché sono brave, non m’hanno detto niente! Noi ci accorgiamo che il bambino va zoppo... L’abbiamo portato un po’ dappertutto e mi dicevano sempre che era lussazione congenita. Un giorno m’incontro con la suora, quella che faceva la minestra, una buona donna e quella m’ha detto: “E’ caduto un giorno all’asilo. E’ caduto così!”
Durante le ferie nel Veneto c’era una donna, di quelle che drizzano gli ossi. L’ho portato e l’ha guardato. Aveva ancora i nervi tutti accavallati. M’ha detto: “Dove si è slogato è cresciuta la carne. Se lei lo vuol drizzare, il bambino resta zoppo perché lo devono tagliare. Allora glielo ingessano e resta zoppo sicuro”. Invece così non ti accorgi nemmeno, il piede sinistro è un po’ più basso del destro, ma non ti accorgi.
Nel ‘43 ho avuto un altro figlio. Qui mancava tutto e mia mamma aveva la campagna. Avevo tre fratelli tutti e tre soldati. M’ha scritto che se andavo giù in qualche maniera qualcosa c’era. Qui c’era la tessera... Sono andata giù con questo che aveva sette anni e il piccolo, che aveva già un po’ di gastroenterite qui, lì in venti giorni se n’è andato, è morto. Mio marito era rimasto qui, al mese di settembre sono venuta a prenderlo. E’ venuto giù e abbiamo lavorato la campagna finché sono arrivati i miei fratelli.
I miei familiari e i suoi eravamo contro, ma forte, al fascismo. Mio zio aveva l’inclinazione di far soldi e invece noi eravamo completamente alla rovescia. Pensa che una sera abbiamo fatto da mangiare a quattordici partigiani e ucciso un vitello per dargli da mangiare. Mio marito era nelle Sap, guastatore. Son partita e sono venuta su a prenderlo, anche perché non passavi facile nella ferrovia, dovevi stare attenta, nasconderti di qua e di là. Allora è venuto giù e s’è messo a lavorare la campagna. E lo conoscevano già di vecchio chi era e sono venuti a cercarlo ed è subentrato subito coi partigiani.
Sono venuta su nel ‘46 e sono andata di nuovo a chiedere in fabbrica e m’hanno preso. Mio marito faceva sempre il muratore, il manovale finché nel ‘47 è venuto in fabbrica anche lui, dove ero io, dal Poma. Ce n’erano diverse di venete dentro lì che lavoravano. Allora uno contava della sua famiglia e l’altro della sua. Si era affiatate, si andava bene. Facevo la giornata e a mezzogiorno si andava a prendere la minestra che facevano per tutti. Si andava a casa, si mangiava e poi alle due si andava di nuovo dentro.
Chi mi ha aperto gli occhi è stata la fabbrica. Perché dentro la fabbrica parlavi con una, parlavi con l’altra, che avevano anche la tessera del partito - la Crestani, la Carolina... son quasi morte tutte, mi han lasciato qui per semente... Dopo la liberazione hanno fatto le elezioni e sono stata eletta responsabile del reparto per la Commissione interna. Nel ‘58, al momento di chiuder la fabbrica, ci han mandati fuori, al mese di febbraio in sei-sete: io; la Carolina; il Frigeni; un’altra, Mosca, da Lorazzo che è morta; un’altra di Andorno... Ci hanno licenziati per rappresaglia, anche se non c’era scritto. Allora si lavorava in un mucchio di polvere, avevamo il berretto e una tasca per mettere le filandre... l’ho portati all’assistente e lui mi fa: “Sì, me le dia. Mi servono per quando ritorna”.
“Ritorno? Quando siamo a giugno va fuori anche lei!”
Sono ritornata in fabbrica nel ‘46. Quando c’erano gli scioperi da fare dovevi organizzarli. Si andava tutte le settimane, al venerdì, alla Camera del lavoro che c’era il Carlino1 allora. Si andava a prendere tutto quello di cui si doveva parlare in fabbrica e poi riferivo al reparto. Prima di cominciare il lavoro spiegavo quello che era stato detto lì e cosa si doveva fare. Quando c’erano gli scioperi si doveva far opera persuasiva. Non mi ricordo più se era quella volta dei tre morti a Modena2 o che era l’attentato a Togliatti... Allora si doveva star fuori dalla fabbrica e fare opera persuasiva, ma non è che avessimo picchiato o cosa. Invece uno dell’altra fabbrica sotto, la Polla, ha dato uno schiaffo all’assistente. Di questo tafferuglio che era lì hanno fatto una montatura: il direttore, il Colombin, ci ha messo giù una filza - ventidue - e ci ha fatto la denuncia. Hanno trovato dei testimoni, e i due che sono venuti a testimoniare contro di me non li conoscevo neanche, che non lavoravano nel mio reparto. Dei ventidue c’era uno che era recidivo e ha cercato di tirarsi fuori, e due che erano stati in prigione ma sono stati lì, per consiglio del Carlino di stare tutti uniti, che forse era meno gravoso se era un processo di massa. Ci hanno fatto ‘sto processo e ci hanno dato due-tre mesi, roba da poco comunque. Arrivano lì quei ricconi, il direttore della fabbrica e ‘ste porcasse de democristo! Siamo andati subito in Appello e poi è stato sciolto non so nemmeno perché. E le spese le abbiamo pagate noi. E ti saluto! 2.000 lire a testa! Lo scopo era impedirci di andare a lottare.
Mi sono iscritta al Partito comunista appena che sono venuta su, nel ‘46. Ho fatto la segretaria di sezione di Miagliano per diciassette anni. Si faceva qualche riunione, ma non tante. I primi tempi si faceva la festa dell’Unità, in proporzione al paese. Si faceva la lotteria e si vendevano i biglietti.Tutte le feste rendevano, più o meno, ma l’obiettivo l’avevamo sempre raggiunto. Poi si andava per le case se occorreva raccogliere dei soldi. Si portava la mimosa, casa per casa, e poi si faceva festa la domenica. Si prendeva qualcosa da bere, qualche pasticcino e le donne portavano i bambini. Si faceva festa alla donna così.
Dopo il licenziamento, sono andata a lavorare dall’Albano a Chiavazza. Era una filatura. Andavo a Biella in pullman, lasciavo il bambino a Biella, poi da Biella andavo giù a piedi. Ho lavorato sei mesi e poi lì hanno fatto cavaliere il padrone. Io e un’altra, che stava qui a Miagliano, e la Carolina - eravamo tre di Miagliano che lavoravamo lì - non abbiamo messo 1.000 lire ciascuno per farci il cavalierato e lui ci ha licenziato.
Poi sono venuta da Masserano in via Rosselli. Era una fabbrica del Poma anche quella e ho lavorato lì fino a che sono andata in pensione. Era una dipanatura per conto terzi. Avevo fatto fare i conti dall’Ergenite per la pensione: “Lasciando fuori due o tre periodi di disoccupazione, avrai 10.500 - 11.000 lire”. Era il ‘63. Ho chiesto al Masserano se aveva mezzo di mettermi qualche marchetta in più, che gliele pagavo. Non so come ha fatto, come non ha fatto... si vede che avrà denunciato altra categoria.... Ebbene sono andata a 21.000 lire di pensione. Guarda che salto. Sono stata dentro fino alla fine dell’anno e ho pagato 35.000 lire delle marchette che ha messo in più.
Quando siamo venuti qui, allora si era poveri, oltre che poveri... il sabato, se avevo un paio d’ore libere andavo a far la fascina, andavo a raccogliere le castagne per poterle far cuocere la sera e mangiarle. Non avevo la famiglia... c’erano i Gili, Aldo Gili m’aveva tenuto a battesimo quel bambino che è morto. Eravamo tanto affiatati col Marco, l’Ergenite, eravamo come di famiglia. Il più grande ha fatto la comunione nel Veneto e la cresima non l’abbiamo fatta. Il battesimo l’ha dovuto fare in ospedale, prima di venire a casa. Solo che non ci hanno permesso di mettere il nome che si voleva mettere. Noi si voleva Oscar e loro non hanno voluto. Allora mentre mi levavano il figlio, perché ho tribolato e me l’han tolto con i ferri, ho sentito dire Addo... qualcuno ha chiamato o ho sentito male... allora ho messo il nome Addo.
Quando lui si è sposato, la nuora viene dal meridione e ha voluto andare in chiesa. Noi l’abbiamo assecondata, niente in contrario. Solo che il figlio era da cresimare e m’han detto che dovevo andare dal vescovo. Sulla scala trovo un prete vecchio: “Avrei bisogno di un documento”.
“Che la vada là!”
Ne trovo un altro. “Avrei bisogno del documento di battesimo e di far la cresima al figlio, che si vuol sposare”:
“Chi gliel’ha detto che gli occorre la cresima?”
Non serviva più e non l’ha fatta. Va a prendermi ‘sti documenti.
“Cosa le devo?”
“Faccia come crede...”
“Allora le do niente!”
Se un documento costa 2.000, dimmi che fa 2.000, dimmi che fa 3... Lui credeva: “ ‘Sta qui invece di darmi mille o due mila lire, me ne dà dieci!” E io ho fatto quel che credevo! Niente!
Ad un certo punto siamo andati ad abitare nella casa Poma perché qui eravamo in due stanzette e abbiamo chiesto al direttore se ci davano un alloggio. Lì abitavano tutti operai del Poma e pagavano niente: mille lire, due mila lire. Invece noi che siamo andati dentro nel ‘58 pagavano già 10.000 lire per quindicina, che sono 20.000 lire al mese del ‘58. Non era mica poco! Due stanze, una cucina piccolina e una camera invece lunga. C’era il gabinetto in comune per quattordici famiglie. E sotto scendevi un’altra scala, c’era un altro gabinetto e c’erano altre quattordici famiglie. L’acqua potabile c’era, ma non in casa. Era un rubinetto solo per piano. Dovevi aspettare, a mezzogiorno, se volevi l’acqua. Il bagno si faceva in casa nel mastello...
Quando il Poma ha chiuso, son rimasti ancora là, son rimasti dentro finché non ha fatto più niente... I fitti bloccati e devo fare i lavori? Non hanno fatto più niente!
Quando mi hanno licenziata, abbiamo detto: “Adesso qui prendono tutta gente giovane. La ditta Poma non va... andiamo a cercarci un altro alloggio prima che ci mandino via”. In quel casone dove si stava prima, c’era una che andava a stare a Tollegno. E’ venuta qui a dirmi: “Se volete, noi lo lasciamo”. Allora siamo andati dal padrone che era a Biella e quello risponde che non fitta più, che vende. Allora mio marito e il figlio lavoravano su all’Oropa e io ero qui sola. Sono andata giù e ho detto: “Non è la questione vendere - comprare, è che noi non abbiamo soldi da spendere”
“Ma io non voglio tanto”.
Erano due stanze, il solaio, duemila metri di una riva di bosco e un’altra sponda del camposanto. Mi ha chiesto 300.000 lire. Non era caro per niente. Era il ‘60-’61. Ho detto: “Non voglio disprezzarla, perché anche il prezzo non sarebbe esagerato, ma noi soldi non ne abbiamo. Fino a arrivare a 250.000 in qualche maniera potrò cercarli. Di più no”.
“Facciamo il male metà per ciascuno”.
Ha fatto 275.000 lire e l’abbiamo preso. Si son messi a ripararlo, hanno fatto i pavimenti nuovi, cambiato le porte e siamo venuti ad abitare lì: poi, in seguito, due stanze adesso, poi due da uno, due dall’altro, la casa l’abbiamo comprata tutta. Togliendo due stanze a piano terra, l’abbiamo tutta noi. E adesso abbiamo gli inquilini dentro.
Il figlio la quinta non l’ha finita... le tre medie che fanno adesso, non c’erano allora. Non riusciva troppo e allora star là a gonfiargli la testa a uno che... Adesso lavora in fabbrica nella ex-Rivetti, da Sassone. Abita a Vigliano.
La vecchiaia non l’ho mai pensata: come cammina, cammina. Spreconi non siamo mai stati... Quando lavoravo per loro facevo tutto: camicie, calzoni, pantofole. Siamo qui, alla moda veneta. Noi siamo abituati in campagna, con le bestie. Adesso ne ho poche, ma ho una trentina fra polli grandi e galline, e sono stata con quarantacinque – cinquanta conigli. L’altr’anno mi sono disfatta dei conigli, ma adesso mi vien male a vedere il fieno che va a male. Ne prendo una nidiata magari e li tiro per poterli mangiare perché la roba che compri non sai...Sì, sì, sono tornata alle origini!
1 Domenico Carlino, funzionario della Camera del lavoro di Biella
265 In realtà il 9 gennaio 1950 a Modena, durante una manifestazione, sei lavoratori furono uccisi
dalla Polizia.
- Luoghi di attività
- Luogo:
- Miagliano
- Cariche e funzioni
- Qualifica:
- operaia cotoniera