Libro
Ermenegildo Zegna e la "battaglia del marchio"
Data: 5 novembre 2011
data di edizione
Il marchio, la griffe, il brand, lo si chiami come si vuole, oggi rappresenta spesso (nel bene e nel male) la stella polare che orienta gli acquisti, il segno che distingue chi vende e chi compra, il simbolo che sublima un “prodotto” a stile di vita se non a filosofia esistenziale. Non sempre e non per tutte le categorie merceologiche le regole sono sempre state queste. In un’epoca neppure troppo lontana uno dei marchi biellesi e italiani più conosciuti al mondo è stato protagonista di una lunga e difficile contesa per potersi affermare. Ma non si è trattato di un conflitto commerciale condotto contro un’agguerrita concorrenza, bensì di una guerra mossa a una mentalità chiusa e a un modo per noi inconcepibile di intendere il messaggio e l’identità di una produzione eccellente. Nella seconda metà degli anni Venti, Ermenegildo Zegna (1892-1966) avviò quasi in solitaria una vera e propria “rivoluzione culturale” che si può tramandare come la “battaglia del marchio”. Il casus belli stava letteralmente nel marchio, quel marchio che i fabbricanti di tessuti (biellesi e non) non potevano applicare alle stoffe prodotte dai loro telai. I pannilana biellesi (come quelli veneti e pratesi) dovevano restare manufatti anonimi a tutto vantaggio dei grossisti che fungevano da intermediari tra i lanifici e il mercato dei sarti e dei dettaglianti. Una pezza senza marchio era acquistata al prezzo (tendenzialmente basso) imposto dai rivenditori e da questi smerciata con margini di guadagno più o meno ampi senza che il lanificio fosse in alcun modo “citato”. Inoltre, in assenza di marchiatura, un panno di Tollegno o di Trivero poteva essere tranquillamente spacciato per inglese in regime di palese frode fiscale e commerciale. Il futuro conte Zegna, imitato da pochi, avversato sulle prime da molti “colleghi” che ritenevano comunque remunerativo lo stato delle cose e duramente contrastato dalla potente corporazione dei grossisti, decise di esporsi in prima persona “firmando” ogni metro dei suoi tessuti con marchi divenuti poi notissimi in Italia e all’estero, come Electa (1929), Soltex (1935) e Astrum (1936). E non era solo una “questione di principio” e di correttezza verso i consumatori (che così potevano subito assegnare un nome e un cognome ai pregi e ai difetti di ciò che compravano). Era anche, in ambito tessile, il primo passo fermo verso l’emancipazione da quella sudditanza tecnico-psicologica che ci teneva ancora alla catena del Made in England. L’apposizione di un semplice logo trasferibile a stiro sulla stoffa e il coraggio di rompere gli schemi puntando in grande stile sulla pubblicità avrebbero in breve tempo, vinta la “battaglia”, fatto scuola e trovato a quel punto l’appoggio di altri grandi imprenditori (anche grazie all’autarchia e alla congiuntura economica pre-bellica internazionale). Fatta l’Italia e fatti (quasi) gli italiani era ora di fare il Made in Italy. Quella dei marchi Zegna è una storia particolare, molto biellese e altrettanto globale, che Casa Zegna racconta in una mostra curata dal designer milanese Marco Strina e dall’Archivio Zegna. L’evoluzione dei loghi e dei caratteri, le suggestioni grafiche dei tempi in cui i pubblicitari erano veri pittori (come Enrico Mercatali, Gino Boccasile e Pino Barale) e gli esordi della comunicazione integrata nel boom del secondo Dopoguerra (grazie al genio di Armando Testa o di Franco Grignani): un insieme ricco che compone un percorso emozionante di immagini e di oggetti che restituiscono contesti distanti (eppure attualissimi) da riscoprire e su cui soffermarsi a riflettere.