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Lettera del presidente della “Società Operai Tessitori eretta in Portula” sotto il titolo de "La Previdenza", Giovanni Battista Bori, all'avv. Agostino Bella Fabar di Biella
Data: 5 aprile 1886
Data topica Portula
Dall'articolo di Danilo Craveia apparso su "Eco di Biella" del 20 maggio 2024:
C’è tutta un’epoca, tutto un mondo, nelle due pagine di una lettera che l’amico Bruno Cremona ha scovato chissà dove per farne gradito omaggio al DocBi Centro Studi Biellesi. Il mondo fervido e inquieto delle società operaie dell’ultimo Ottocento, il mondo delle idee giuste e delle intenzioni perfette e degli uomini che erano pur sempre uomini, cioè forse giusti, ma lontani dall’essere perfetti. C’era buona volontà, la volontà di cambiare quel mondo e, più ancora, quello che sarebbe venuto dopo, con meno padroni e più fratelli, ma non bastavano i timbri e i vessilli con le strette di mano a rendere tutto facile. Perché c’era chi non tollerava quella buona volontà, la odiava e la temeva. Reagiva col sospetto a quella rivolta latente che, stando all’ordine costituito (non tutto, ma una buona parte sì), serpeggiava pur sempre in quelle congreghe di comunardi e di luddisti. L’ordine costituito, quando non reprimeva, sorvegliava, che non si poteva mai sapere, che non si poteva di certo star tranquilli con quei Marx e quei Bakunin. Ma i nemici dei lavoratori, che in tutto il mondo avrebbero dovuto essere uniti, erano spesso proprio i lavoratori. All’interno dei sodalizi operai non c’era sempre armonia e unità, anzi. Anime ardenti, infiammate di ideali, “contro” spiriti meno infuocati, più concilianti, e poi, nel mezzo, gli uomini. Brava gente, gente comune, brutta gente. Giovanni Battista Bori era, all’inizio della primavera del 1886, il presidente della “Società Operai Tessitori eretta in Portula”. Eretta nel 1864 sotto il titolo di “Previdenza”. Non la più antica, ma tra le più longeve del Circondario di Biella. Il 5 aprile 1886 scrisse la citata lettera inviandola all’avvocato comm. Agostino Bella Fabar di Biella (1832-1895). E se il Bori era ed è un carneade, diverso è il discorso per il destinatario della missiva. Il giureconsulto era stato, tra il 1872 e il 1873 facente funzioni di sindaco. Tra il 1880 e il 1883, sindaco di Biella. Ancora, per qualche mese fino all’estate del 1885, facente funzioni di primo cittadino e, tra il 1891 e il 1892, sarebbe stato ancora sindaco di Biella. Non proprio un nessuno. Il tenore della lettera è quello di chi chiedeva lumi e qualche parere legale, visto che, dalle parti di Portula, ne stavano capitando d’ogni sorta. “Oggi i Reali Carabinieri del Mandamento di Mosso vennero da me e mi chiesero nome, cognome, paternità ed età del vicepresidente, del cassiere attuale e del segretario”. Con i pennacchi, con i pennacchi e con le armi. Gli uomini della Benemerita vollero pure sapere “se avevamo la bandiera, il numero dei soci effettivi, il nome della società e se esisteva altra società in Trivero”. Le risposte fornite ai gendarmi furono precise e non omissive. Ma perché tante domande? Controllo del territorio? Dossieraggio? Monitoraggio? C’era chi era più previdente dei membri della “Previdenza”… O, forse, si trattava solo di rilevamenti statistici. D’altro canto, il 9 luglio dell’anno seguente, la “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” pubblicò la statistica delle società di mutuo soccorso e le informazioni date dal presidente Bori non erano discrepanti. Circa 165 soci. Ovviamente avevano la bandiera. E, sì, a Trivero c’era un’altra società analoga, anche se non mancavano i triveresi iscritti a Portula. Dalla “Gazzetta Ufficiale” si apprende anche che, al 31 dicembre 1885, il sodalizio aveva un patrimonio di 18.299 lire e che, nell’anno indicato, aveva elargito sussidi per circa 1.200 lire, con entrate per 2.020 lire e uscite per quasi 1.800. Realtà più consistenti per numero di soci o per comunità di riferimento non potevano vantare simili cifre. Quella dei tessitori dell’ultimo paese prima dell’Alta Valsessera era una società di tutto rispetto. Ma… “Non sapendo noi che cosa vogliono dire tali interrogatori abbiamo creduto conveniente partecipare ogni cosa alla S. V. Ill.ma per quei provvedimenti che occorreranno, che crederà necessari”. Che bel rapporto di fiducia doveva esserci con le forze di pubblica sicurezza! Tant’è che, per non sapere né leggere né scrivere, Giovanni Battista Bori, che sapeva leggere e scrivere, prese carta e penna e segnalò quelli che non esitò a definire “interrogatori” all’avvocato della società che presiedeva. Quelle “attenzioni” da parte dei Reali Carabinieri del Mandamento di Mosso potevano essere preludio di grattacapi e quello, lo si scopre proseguendo la lettura della lettera, non era il momento per ulteriori grane portate da fuori, visto che bastavano e avanzavano quelle che c’erano dentro. Quindi, se si prospettavano complicazioni, era il caso di saperlo e di agire di conseguenza, per quanto possibile. Già che c’era, il presidente Bori si premurò di informare l’ex sindaco di Biella circa la convocazione dell’assemblea generale della società. Il consiglio di amministrazione, nella seduta straordinaria del 28 marzo, l’aveva indetta per domenica 18 aprile. L’ordine del giorno sarebbe stato piuttosto fitto, ma c’erano due punti che occorreva trattare prima della riunione con il supporto di un avvocato. C’erano, come si è detto, almeno due grane interne di non poco conto. La prima: come gestire quei “soci scaduti in massa” che costituivano un problema serio. Giovanni Battista Bosi si spiegò in questi termini: “Qui noi intendiamo che detti soci siano quelli di Pratrivero, parte di Trivero e di Flecchia, scaduti in massa unitamente all’ex cassiere Gioia Balet Giacomo”. La seconda grana era l’ex cassiere Gioia Balet Giacomo. La prima questione vedeva protagonisti quei “forestieri” che si trovavano in un limbo normativo poco funzionale al buon governo della società. Questo perché, se l’articolo 33 li escludeva de facto dal sodalizio, l’articolo 34 li reintegrava de iure e ciò non rappresentava, a detta del presidente, il bene del resto dei soci (verosimilmente portulesi). Xenofobia a parte, si doveva essere rotto qualcosa nel legame tra i tessitori di Portula e quelli dei villaggi viciniori e la rottura doveva apparire insanabile dato che si voleva che gli “stranieri” fossero “privati di qualsiasi diritto d’entrata” tanto nell’assemblea generale, quanto, e soprattutto, nella società. Le ragioni di tale frattura non sono note né spiegate nella lettera inviata all’avvocato Bella Fabar, ma il presidente chiarì che “stante che noi non siamo capaci di formare un articolo che legalmente possa esistere preghiamo caldamente la compiacenza della S. V. Ill.ma onde voglia avere la bontà di formare un articolo e spedircelo per sottoporlo alla deliberazione dell’adunanza generale in parola, e qualora non si potessero privare dei suddetti diritti scriverci egualmente”. Era in atto una epurazione. La situazione di scadenza massiva doveva essere la condizione ideale per ottenere una ridefinizione dei rapporti di forza all’interno dell’associazione e il presidente voleva pilotare il processo con l’ausilio dell’avvocato Bella Fabar. Quest’ultimo sarebbe stato utilissimo anche per la seconda gatta da pelare. “Nel contempo, se Ella crede, la preghiamo volerci dire qualche cosa in ordine alla vertenza coll’ex cassiere Gioia Balet Giacomo, il quale tratta i debitori verso la Società in modo affatto doloso e doloroso. La sentenza causa Fontana contro Gioia non è ancora uscita”. Non è chiaro quale fosse l’origine né la natura della causa suindicata, ma è evidente che sussisteva uno stato di tensione con il cessato cassiere che, a detta del presidente, si stava comportando, pur essendo scaduto dal suo mandato, in maniera dannosa e “dolorosa” nei confronti di chi aveva credito contro il sodalizio. Non onorava i debiti? Faceva la cresta? Un altro documento, risalente al 24 gennaio 1885, perciò a più di un anno prima della lettera che si sta analizzando, informa che il consiglio di amministrazione della “Società Operai Tessitori eretta in Portula” aveva discusso circa il “modo d’intentare lite col cassiere Gioia-Balet Giacomo perché il medesimo versi nella cassa il patrimonio sociale”. Caso più che tipico: chi maneggiava i conti e i soldi della società non sempre si rivelava così affidabile e, spesso, gestiva i fondi sociali come denari propri (con conseguenze a volte nefaste), senza contare i non pochi esempi di “fuga con la cassa” e/o affini. Chissà come stavano davvero le cose? Altre fonti, forse, daranno la risposta. Nel frattempo, in calce ai saluti, il presidente Giovanni Battista Bori appose il tradizionale timbro delle società operaie di mutuo soccorso e di assistenza: la stretta di mano che affratella (quasi) sempre.
C’è tutta un’epoca, tutto un mondo, nelle due pagine di una lettera che l’amico Bruno Cremona ha scovato chissà dove per farne gradito omaggio al DocBi Centro Studi Biellesi. Il mondo fervido e inquieto delle società operaie dell’ultimo Ottocento, il mondo delle idee giuste e delle intenzioni perfette e degli uomini che erano pur sempre uomini, cioè forse giusti, ma lontani dall’essere perfetti. C’era buona volontà, la volontà di cambiare quel mondo e, più ancora, quello che sarebbe venuto dopo, con meno padroni e più fratelli, ma non bastavano i timbri e i vessilli con le strette di mano a rendere tutto facile. Perché c’era chi non tollerava quella buona volontà, la odiava e la temeva. Reagiva col sospetto a quella rivolta latente che, stando all’ordine costituito (non tutto, ma una buona parte sì), serpeggiava pur sempre in quelle congreghe di comunardi e di luddisti. L’ordine costituito, quando non reprimeva, sorvegliava, che non si poteva mai sapere, che non si poteva di certo star tranquilli con quei Marx e quei Bakunin. Ma i nemici dei lavoratori, che in tutto il mondo avrebbero dovuto essere uniti, erano spesso proprio i lavoratori. All’interno dei sodalizi operai non c’era sempre armonia e unità, anzi. Anime ardenti, infiammate di ideali, “contro” spiriti meno infuocati, più concilianti, e poi, nel mezzo, gli uomini. Brava gente, gente comune, brutta gente. Giovanni Battista Bori era, all’inizio della primavera del 1886, il presidente della “Società Operai Tessitori eretta in Portula”. Eretta nel 1864 sotto il titolo di “Previdenza”. Non la più antica, ma tra le più longeve del Circondario di Biella. Il 5 aprile 1886 scrisse la citata lettera inviandola all’avvocato comm. Agostino Bella Fabar di Biella (1832-1895). E se il Bori era ed è un carneade, diverso è il discorso per il destinatario della missiva. Il giureconsulto era stato, tra il 1872 e il 1873 facente funzioni di sindaco. Tra il 1880 e il 1883, sindaco di Biella. Ancora, per qualche mese fino all’estate del 1885, facente funzioni di primo cittadino e, tra il 1891 e il 1892, sarebbe stato ancora sindaco di Biella. Non proprio un nessuno. Il tenore della lettera è quello di chi chiedeva lumi e qualche parere legale, visto che, dalle parti di Portula, ne stavano capitando d’ogni sorta. “Oggi i Reali Carabinieri del Mandamento di Mosso vennero da me e mi chiesero nome, cognome, paternità ed età del vicepresidente, del cassiere attuale e del segretario”. Con i pennacchi, con i pennacchi e con le armi. Gli uomini della Benemerita vollero pure sapere “se avevamo la bandiera, il numero dei soci effettivi, il nome della società e se esisteva altra società in Trivero”. Le risposte fornite ai gendarmi furono precise e non omissive. Ma perché tante domande? Controllo del territorio? Dossieraggio? Monitoraggio? C’era chi era più previdente dei membri della “Previdenza”… O, forse, si trattava solo di rilevamenti statistici. D’altro canto, il 9 luglio dell’anno seguente, la “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” pubblicò la statistica delle società di mutuo soccorso e le informazioni date dal presidente Bori non erano discrepanti. Circa 165 soci. Ovviamente avevano la bandiera. E, sì, a Trivero c’era un’altra società analoga, anche se non mancavano i triveresi iscritti a Portula. Dalla “Gazzetta Ufficiale” si apprende anche che, al 31 dicembre 1885, il sodalizio aveva un patrimonio di 18.299 lire e che, nell’anno indicato, aveva elargito sussidi per circa 1.200 lire, con entrate per 2.020 lire e uscite per quasi 1.800. Realtà più consistenti per numero di soci o per comunità di riferimento non potevano vantare simili cifre. Quella dei tessitori dell’ultimo paese prima dell’Alta Valsessera era una società di tutto rispetto. Ma… “Non sapendo noi che cosa vogliono dire tali interrogatori abbiamo creduto conveniente partecipare ogni cosa alla S. V. Ill.ma per quei provvedimenti che occorreranno, che crederà necessari”. Che bel rapporto di fiducia doveva esserci con le forze di pubblica sicurezza! Tant’è che, per non sapere né leggere né scrivere, Giovanni Battista Bori, che sapeva leggere e scrivere, prese carta e penna e segnalò quelli che non esitò a definire “interrogatori” all’avvocato della società che presiedeva. Quelle “attenzioni” da parte dei Reali Carabinieri del Mandamento di Mosso potevano essere preludio di grattacapi e quello, lo si scopre proseguendo la lettura della lettera, non era il momento per ulteriori grane portate da fuori, visto che bastavano e avanzavano quelle che c’erano dentro. Quindi, se si prospettavano complicazioni, era il caso di saperlo e di agire di conseguenza, per quanto possibile. Già che c’era, il presidente Bori si premurò di informare l’ex sindaco di Biella circa la convocazione dell’assemblea generale della società. Il consiglio di amministrazione, nella seduta straordinaria del 28 marzo, l’aveva indetta per domenica 18 aprile. L’ordine del giorno sarebbe stato piuttosto fitto, ma c’erano due punti che occorreva trattare prima della riunione con il supporto di un avvocato. C’erano, come si è detto, almeno due grane interne di non poco conto. La prima: come gestire quei “soci scaduti in massa” che costituivano un problema serio. Giovanni Battista Bosi si spiegò in questi termini: “Qui noi intendiamo che detti soci siano quelli di Pratrivero, parte di Trivero e di Flecchia, scaduti in massa unitamente all’ex cassiere Gioia Balet Giacomo”. La seconda grana era l’ex cassiere Gioia Balet Giacomo. La prima questione vedeva protagonisti quei “forestieri” che si trovavano in un limbo normativo poco funzionale al buon governo della società. Questo perché, se l’articolo 33 li escludeva de facto dal sodalizio, l’articolo 34 li reintegrava de iure e ciò non rappresentava, a detta del presidente, il bene del resto dei soci (verosimilmente portulesi). Xenofobia a parte, si doveva essere rotto qualcosa nel legame tra i tessitori di Portula e quelli dei villaggi viciniori e la rottura doveva apparire insanabile dato che si voleva che gli “stranieri” fossero “privati di qualsiasi diritto d’entrata” tanto nell’assemblea generale, quanto, e soprattutto, nella società. Le ragioni di tale frattura non sono note né spiegate nella lettera inviata all’avvocato Bella Fabar, ma il presidente chiarì che “stante che noi non siamo capaci di formare un articolo che legalmente possa esistere preghiamo caldamente la compiacenza della S. V. Ill.ma onde voglia avere la bontà di formare un articolo e spedircelo per sottoporlo alla deliberazione dell’adunanza generale in parola, e qualora non si potessero privare dei suddetti diritti scriverci egualmente”. Era in atto una epurazione. La situazione di scadenza massiva doveva essere la condizione ideale per ottenere una ridefinizione dei rapporti di forza all’interno dell’associazione e il presidente voleva pilotare il processo con l’ausilio dell’avvocato Bella Fabar. Quest’ultimo sarebbe stato utilissimo anche per la seconda gatta da pelare. “Nel contempo, se Ella crede, la preghiamo volerci dire qualche cosa in ordine alla vertenza coll’ex cassiere Gioia Balet Giacomo, il quale tratta i debitori verso la Società in modo affatto doloso e doloroso. La sentenza causa Fontana contro Gioia non è ancora uscita”. Non è chiaro quale fosse l’origine né la natura della causa suindicata, ma è evidente che sussisteva uno stato di tensione con il cessato cassiere che, a detta del presidente, si stava comportando, pur essendo scaduto dal suo mandato, in maniera dannosa e “dolorosa” nei confronti di chi aveva credito contro il sodalizio. Non onorava i debiti? Faceva la cresta? Un altro documento, risalente al 24 gennaio 1885, perciò a più di un anno prima della lettera che si sta analizzando, informa che il consiglio di amministrazione della “Società Operai Tessitori eretta in Portula” aveva discusso circa il “modo d’intentare lite col cassiere Gioia-Balet Giacomo perché il medesimo versi nella cassa il patrimonio sociale”. Caso più che tipico: chi maneggiava i conti e i soldi della società non sempre si rivelava così affidabile e, spesso, gestiva i fondi sociali come denari propri (con conseguenze a volte nefaste), senza contare i non pochi esempi di “fuga con la cassa” e/o affini. Chissà come stavano davvero le cose? Altre fonti, forse, daranno la risposta. Nel frattempo, in calce ai saluti, il presidente Giovanni Battista Bori appose il tradizionale timbro delle società operaie di mutuo soccorso e di assistenza: la stretta di mano che affratella (quasi) sempre.