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Allestimento mostra "Bocia Il lavoro minorile nel Biellese tra Otto e Novecento" presso lo Spazio Cultura della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella (7 novembre - 8 dicembre 2014)
Data: 7 novembre - 8 dicembre 2014
Bocia Il lavoro minorile nel Biellese tra Otto e Novecento di Danilo Craveia
Il Biellese, che pure è stato precocemente e intensamente un “territorio fotografico”, non ha avuto un Lewis Wickes Hine. Nemmeno l’Italia in generale, a dire il vero. Ma più di altre zone, per il loro altrettanto precoce e intenso sviluppo industriale, Biella e le sue vallate sarebbero potuto essere il luogo adatto per un’attività di indagine e di testimonianza come quella realizzata da Hine negli Stati Uniti d’America. Il parallelo storico tra il Biellese e gli USA nel periodo della Progressive Era (che qui comportò la transizione dalla prima fase, avventizia e pionieristica, dell’industrializzazione alla travagliata affermazione del modello della fabbrica come elemento strutturale e strutturante del tessuto socio-economico e culturale biellese) non è perciò fotograficamente proponibile, ma induce comunque ad affrontare o, meglio, ad abbozzare il tema, complesso e non così indagato, del lavoro minorile nel Biellese. I bambini al lavoro negli opifici o altrove, nel Biellese, non rappresentarono un tema allettante per i fotografi locali e nemmeno per i forestieri che pure visitavano questo industre distretto. La “scuola” fotografica di Biella produsse, con risultati straordinari, due correnti principali. Quella, preponderante, dei paesaggisti e quella, minoritaria ma significativa, dei “fabbricisti”, grazie ai quali si è tramandata una orgogliosa iconografia degli stabilimenti (vedute e interni con macchine) nella più aderente interpretazione della poetica carducciana delle ciminiere “a l’opera fumanti” [1]. A ben guardare, però, era il lavoro in sé a non essere considerato interessante da fotografare: la (ri)scoperta, anche fotografica, in chiave celebrativa dell’epopea industriale biellese nella sua manifestazione più concreta e diretta, cioè gli individui intenti al loro lavoro, è un esercizio memorialistico tardivo e non sempre filologicamente corretto, spesso mitopoietico e artato ad uso e consumo della costruzione postuma dell’immagine della “Manchester d’Italia”. Nella “Era del progresso” la fabbrica è architettura, è monumento dinamico, è simbolo di potenza, è fucina, è scienza applicata, è metodo, è esatta e infinita riproducibilità: tutti traguardi e standard conquistati con l’emancipazione dall’artigianato tessile domestico/rurale. In quel contesto, le maestranze non compaiono quasi mai. L’automatismo tecnocratico delle macchine le ha (quasi) sostituite, le ha rese accessorie e “superflue”, le ha relegate iconograficamente ai più o meno grandi schieramenti delle foto di gruppo scattate accanto o fuori dalle filande o dai lanifici. Ed è in questa negazione generale dei “lavoratori al lavoro” (cui non poteva essere assegnato il ruolo di protagonisti anche solo per il clima di contrapposizione forte in atto con gli imprenditori in quel momento storico) che emergono le sporadiche e quasi involontarie testimonianze visive o documentarie dei piccoli operai. Anche loro allineati con la facciata a finestroni della fabbrica sullo sfondo. Li si trova, per ragioni di gerarchia, in basso, per lo più seduti a terra, eppure paradossalmente in primo piano. Alcuni si intravedono appena tra l’erba alta. Sembrano tutti uguali, privati di un’identità propria e specifica, al contrario di quanto fatto da Hine che, invece, ha conferito ai suoi giovanissimi compatrioti una imperitura individualità definita, a partire dal nome. Se non altro, però, fotografati così, anche lontani dalle macchine, i bocia [2] biellesi sono stati in parte salvati dall’oblio derivato dal falso pudore di una società che non aborriva la fatica dei più piccoli, pur rendendosi conto di come le condizioni di vita e di lavoro delle fabbriche fossero qualcosa che andava oltre, che risultava non solo faticoso, bensì sproporzionato, inumano e, spesso, crudele.
La ricostruzione cronologica del lavoro minorile nel Biellese si può elaborare, però, anche con altri tipi di “fotografie”. Se ne trovano alcune in tempi assai remoti, ben prima che Niépce e Daguerre insegnassero all’umanità a raffigurare con la luce. Ci sono “istantanee”, ci sono immagini in controluce celate nei documenti d’archivio che vale la pena di estrarre e di far vedere per raccontare una storia piuttosto lunga, una storia che parla di bambini in fabbrica (questo è il campo d’interesse precipuo in questa occasione) già quando le fabbriche strettamente non esistevano ancora. L’avvio delle attività produttive concentrate, manual-meccaniche, regolari e seriali, in una parola “protoindustriali”, vedono già i bambini presenti. Contrariamente a quanto avvenuto sino agli anni Trenta del Novecento, il lavoro dei bambini biellesi trova un suo spazio di rappresentazione in alcuni scatti particolari che offrono nuove possibilità di analisi e nuove opportunità di documentazione iconografica. Si tratta delle fotografie di Matteo Marciandi3 tra gli anni Trenta e Quaranta dove alcuni bambini sono ritratti “al lavoro”, ossia impegnati in attività agro-pastorali nel Triverese e in Alta Valsessera. La fotografia della già menzionata “scuola biellese” (specialmente la sezione di ispirazione paesaggistica) ha rappresentato, nei decenni dell’affermazione dell’industria e, soprattutto, della acquisizione di consapevolezza di quale fosse il prezzo di quell’affermazione, una sorta di “risarcimento estetico”: il Biellese e vivere nel Biellese potevano essere piacevoli grazie (ma anche “malgrado”) alle fabbriche, soprattutto nei suoi spazi più agresti e bucolici. Era sufficiente salire di quota, inoltrandosi nelle vallate oltre il limite raggiunto dagli opifici, per ritornare all’esistenza sana dei contadini e dei pastori. Tutto ciò poteva valere anche per i bambini. E il lavoro dei bambini si presentava in un altra concezione e in un altra dimensione: più naturale, meno faticoso, più libero ed edificante, meno costrittivo e addirittura divertente. Lavorare all’alpe, con le greggi e all’aperto, non era davvero “lavoro” (quello vero era soltanto quello brutto, sporco e cattivo delle fabbriche e delle officine), bensì la vita degna e salutare, fisicamente e moralmente, di chi non era obbligato fin da piccolo a farsi schiavo delle macchine e dei padroni. Le foto di Marciandi, belle quanto filologicamente “non corrette”, tratteggiano un’infanzia restituita o, meglio ancora, mai perduta o rubata. Quelle stesse foto non hanno e non possono avere un corrispettivo nelle fabbriche biellesi e si pongono in antitesi estetica e ontologica rispetto al messaggio portato dagli scatti di Hine.
[1] “Biella tra 'I monte e il verdeggiar de' piani/ lieta guardante l'ubere convalle,/ ch'armi ed aratri e a l'opera fumanti/ camini ostenta”: sono i versi di Giosué Carducci dedicati a Biella nella poesia “Piemonte” datato a Ceresole Reale il 27 luglio 1890.
[2] Il termine bocia, di origine lombardo-veneta o, comunque, settentrionale, indicherebbe la testa dei bambini di un tempo rasata a zero tanto da renderla simile a una boccia. Ormai quasi scomparsa dal dialetto e dalla parlata gergale biellese, indicava gli aiutanti più piccoli, quelli non ancora ammessi al rango di garzoni o di apprendisti, in tutti i contesti lavorativi, non solo quello di fabbrica.
[3] Matteo Marciandi (Boca, 1898 – Trivero 1982), fu fotografo dilettante di buon livello e pubblicò numerose sue fotografie su periodici e riviste locali. Vedi www.docbi.it nella sezione dedicata ai fotografi biellesi.
Il Biellese, che pure è stato precocemente e intensamente un “territorio fotografico”, non ha avuto un Lewis Wickes Hine. Nemmeno l’Italia in generale, a dire il vero. Ma più di altre zone, per il loro altrettanto precoce e intenso sviluppo industriale, Biella e le sue vallate sarebbero potuto essere il luogo adatto per un’attività di indagine e di testimonianza come quella realizzata da Hine negli Stati Uniti d’America. Il parallelo storico tra il Biellese e gli USA nel periodo della Progressive Era (che qui comportò la transizione dalla prima fase, avventizia e pionieristica, dell’industrializzazione alla travagliata affermazione del modello della fabbrica come elemento strutturale e strutturante del tessuto socio-economico e culturale biellese) non è perciò fotograficamente proponibile, ma induce comunque ad affrontare o, meglio, ad abbozzare il tema, complesso e non così indagato, del lavoro minorile nel Biellese. I bambini al lavoro negli opifici o altrove, nel Biellese, non rappresentarono un tema allettante per i fotografi locali e nemmeno per i forestieri che pure visitavano questo industre distretto. La “scuola” fotografica di Biella produsse, con risultati straordinari, due correnti principali. Quella, preponderante, dei paesaggisti e quella, minoritaria ma significativa, dei “fabbricisti”, grazie ai quali si è tramandata una orgogliosa iconografia degli stabilimenti (vedute e interni con macchine) nella più aderente interpretazione della poetica carducciana delle ciminiere “a l’opera fumanti” [1]. A ben guardare, però, era il lavoro in sé a non essere considerato interessante da fotografare: la (ri)scoperta, anche fotografica, in chiave celebrativa dell’epopea industriale biellese nella sua manifestazione più concreta e diretta, cioè gli individui intenti al loro lavoro, è un esercizio memorialistico tardivo e non sempre filologicamente corretto, spesso mitopoietico e artato ad uso e consumo della costruzione postuma dell’immagine della “Manchester d’Italia”. Nella “Era del progresso” la fabbrica è architettura, è monumento dinamico, è simbolo di potenza, è fucina, è scienza applicata, è metodo, è esatta e infinita riproducibilità: tutti traguardi e standard conquistati con l’emancipazione dall’artigianato tessile domestico/rurale. In quel contesto, le maestranze non compaiono quasi mai. L’automatismo tecnocratico delle macchine le ha (quasi) sostituite, le ha rese accessorie e “superflue”, le ha relegate iconograficamente ai più o meno grandi schieramenti delle foto di gruppo scattate accanto o fuori dalle filande o dai lanifici. Ed è in questa negazione generale dei “lavoratori al lavoro” (cui non poteva essere assegnato il ruolo di protagonisti anche solo per il clima di contrapposizione forte in atto con gli imprenditori in quel momento storico) che emergono le sporadiche e quasi involontarie testimonianze visive o documentarie dei piccoli operai. Anche loro allineati con la facciata a finestroni della fabbrica sullo sfondo. Li si trova, per ragioni di gerarchia, in basso, per lo più seduti a terra, eppure paradossalmente in primo piano. Alcuni si intravedono appena tra l’erba alta. Sembrano tutti uguali, privati di un’identità propria e specifica, al contrario di quanto fatto da Hine che, invece, ha conferito ai suoi giovanissimi compatrioti una imperitura individualità definita, a partire dal nome. Se non altro, però, fotografati così, anche lontani dalle macchine, i bocia [2] biellesi sono stati in parte salvati dall’oblio derivato dal falso pudore di una società che non aborriva la fatica dei più piccoli, pur rendendosi conto di come le condizioni di vita e di lavoro delle fabbriche fossero qualcosa che andava oltre, che risultava non solo faticoso, bensì sproporzionato, inumano e, spesso, crudele.
La ricostruzione cronologica del lavoro minorile nel Biellese si può elaborare, però, anche con altri tipi di “fotografie”. Se ne trovano alcune in tempi assai remoti, ben prima che Niépce e Daguerre insegnassero all’umanità a raffigurare con la luce. Ci sono “istantanee”, ci sono immagini in controluce celate nei documenti d’archivio che vale la pena di estrarre e di far vedere per raccontare una storia piuttosto lunga, una storia che parla di bambini in fabbrica (questo è il campo d’interesse precipuo in questa occasione) già quando le fabbriche strettamente non esistevano ancora. L’avvio delle attività produttive concentrate, manual-meccaniche, regolari e seriali, in una parola “protoindustriali”, vedono già i bambini presenti. Contrariamente a quanto avvenuto sino agli anni Trenta del Novecento, il lavoro dei bambini biellesi trova un suo spazio di rappresentazione in alcuni scatti particolari che offrono nuove possibilità di analisi e nuove opportunità di documentazione iconografica. Si tratta delle fotografie di Matteo Marciandi3 tra gli anni Trenta e Quaranta dove alcuni bambini sono ritratti “al lavoro”, ossia impegnati in attività agro-pastorali nel Triverese e in Alta Valsessera. La fotografia della già menzionata “scuola biellese” (specialmente la sezione di ispirazione paesaggistica) ha rappresentato, nei decenni dell’affermazione dell’industria e, soprattutto, della acquisizione di consapevolezza di quale fosse il prezzo di quell’affermazione, una sorta di “risarcimento estetico”: il Biellese e vivere nel Biellese potevano essere piacevoli grazie (ma anche “malgrado”) alle fabbriche, soprattutto nei suoi spazi più agresti e bucolici. Era sufficiente salire di quota, inoltrandosi nelle vallate oltre il limite raggiunto dagli opifici, per ritornare all’esistenza sana dei contadini e dei pastori. Tutto ciò poteva valere anche per i bambini. E il lavoro dei bambini si presentava in un altra concezione e in un altra dimensione: più naturale, meno faticoso, più libero ed edificante, meno costrittivo e addirittura divertente. Lavorare all’alpe, con le greggi e all’aperto, non era davvero “lavoro” (quello vero era soltanto quello brutto, sporco e cattivo delle fabbriche e delle officine), bensì la vita degna e salutare, fisicamente e moralmente, di chi non era obbligato fin da piccolo a farsi schiavo delle macchine e dei padroni. Le foto di Marciandi, belle quanto filologicamente “non corrette”, tratteggiano un’infanzia restituita o, meglio ancora, mai perduta o rubata. Quelle stesse foto non hanno e non possono avere un corrispettivo nelle fabbriche biellesi e si pongono in antitesi estetica e ontologica rispetto al messaggio portato dagli scatti di Hine.
[1] “Biella tra 'I monte e il verdeggiar de' piani/ lieta guardante l'ubere convalle,/ ch'armi ed aratri e a l'opera fumanti/ camini ostenta”: sono i versi di Giosué Carducci dedicati a Biella nella poesia “Piemonte” datato a Ceresole Reale il 27 luglio 1890.
[2] Il termine bocia, di origine lombardo-veneta o, comunque, settentrionale, indicherebbe la testa dei bambini di un tempo rasata a zero tanto da renderla simile a una boccia. Ormai quasi scomparsa dal dialetto e dalla parlata gergale biellese, indicava gli aiutanti più piccoli, quelli non ancora ammessi al rango di garzoni o di apprendisti, in tutti i contesti lavorativi, non solo quello di fabbrica.
[3] Matteo Marciandi (Boca, 1898 – Trivero 1982), fu fotografo dilettante di buon livello e pubblicò numerose sue fotografie su periodici e riviste locali. Vedi www.docbi.it nella sezione dedicata ai fotografi biellesi.