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Tecnologie Tessili Innovative in Campo Biomedicale: Protesi Vascolari, Fibre Cave per il Rilascio di Farmaci
Le possibilità offerte dalle più innovative tecnologie tessili nella lavorazione di materiali polimerici per la realizzazione di dispositivi strutturali e/o funzionali per applicazione nel settore biomedicale sono ormai molteplici.
Uno degli esempi più diffusi di applicazione delle tecnologie tessili nel medicale è rappresentato dalle protesi vascolari, dispositivi medici atti a ripristinare l’efficacia di un tratto vascolare che non sia più in grado di trasportare correttamente il sangue. Esistono diversi tipi di impianti vascolari, alcuni di origine biologica, altri costituiti da materiali prodotti industrialmente. Gli impianti vascolari di origine sintetica sono a tutti gli effetti protesi vascolari in quanto sono fabbricati per trasformazione tecnologica di materiali di origine non biologica.
La svariata gamma di caratteristiche e la grande versatilità delle fibre sintetiche ne ha decretato il grande successo, tanto da spostare il loro campo di applicazione da quello puramente tessile ai più svariati settori tra i quali l’aeronautico, l’edile ed il medico. Moderne tecnologie di filatura hanno permesso di realizzare strutture che permettono di ottenere devices con importanti applicazioni in campo clinico. Per esempio nei processi di dialisi sono in uso ormai da tempo le fibre cave, e il loro utilizzo in tale settore sta crescendo, assumendo interesse anche per sistemi a rilascio controllato di principi attivi o per la ricopertura di stent coronarici.
La possibilità di inserire all’interno della cavità micro o nanoparticelle contenenti per esempio un farmaco, fa di questi dispositivi sistemi di grandissimo interesse nel settore del rilascio controllato.
La scoperta di sofisticati sistemi di filatura di polimeri sintetici, tra i quali l'electrospinning, apre infine interessanti prospettive nella realizzazione di superfici nanostrutturate per applicazioni nell'ingegneria tissutale.
Protesi vascolari
Le protesi vascolari sono dispositivi medici che vengono impiantati permanentemente per ripristinare l’efficacia di un tratto vascolare che non sia più in grado di trasportare correttamente il sangue [1]. Gli impianti vascolari sono, nella quasi totalità dei casi, impianti arteriosi. Le problematiche inerenti al mal funzionamento di un vaso sono rappresentate dalla stenosi e dall’aneurisma.
La stenosi è il restringimento del diametro di un’arteria la quale risulta non più in grado di trasportare efficacemente il sangue. L’aneurisma, al contrario, consiste nella dilatazione di un’arteria causata dal cedimento progressivo della parete vascolare con possibile rottura della parete arteriosa e conseguente formazione di un’emorragia interna. L’impiego di una protesi vascolari ha come finalità quella di ripristinare corrette condizioni di flusso ovvero di ridurre il rischio di rottura di un aneurisma. La protesi vascolare può essere applicata per scavalcare la zona patologica, tipicamente una stenosi, che diventa in questo caso un ramo in parallelo (bypass). Nel caso in cui occorra invece trattare un aneurisma di una grande arteria (aorta) la protesi viene impiantata all’interno dell’aneurisma stesso.
Gli impianti vascolari possono essere di origine biologica (trattati o non trattati chimicamente) o di origine sintetica.
Gli impianti di origine sintetica sono a tutti gli effetti protesi vascolari in quanto sono prodotti industrialmente per trasformazione tecnologica di materiali di origine non biologica. Durante gli anni ‘40-50’, per ridurre il rischio di rottura degli aneurismi, venivano utilizzate tecniche quali l’inserimento di corde di pianoforte in acciaio INOX, o l’utilizzazione di resine epossidiche rigide o fogli di cellophane trattato chimicamente per promuovere la reazione fibroblastica. Successivamente fu notato che tessuti di seta impiantati all’interno del ventricolo destro di un cane si rivestivano di uno strato endoteliale e privo di trombi macroscopici.
Anche i tessuti costituiti da fibre sintetiche mostrano un comportamento simile alla seta, con deposizione di fibrina all’interno delle porosità e successiva crescita di fibroblasti. Questa successione di fenomeni consente di ottenere il rivestimento della superficie interna di una protesi vascolare fabbricata con tessuto di fibre sintetiche.
Nel corso degli anni sono stati impiegati diversi materiali per la fabbricazione di fibre per tessuti per protesi vascolari fra i quali Vinyon N [2], Nylon, Orlon, Dacron e Teflon. Per diversi motivi legati alla progressiva perdita delle proprietà meccaniche (processi di creep) o di degradazione in ambiente biologico, fra i materiali sopra citati, il Dacron è quello oggi più in uso per le protesi vascolari in tessuto.
I principali tipi di tessitura utilizzati per la realizzazione di protesi vascolari con fibre di Dacron sono il tipo Woven (tessuto trama/ordito) e il tipo Knitted nelle versioni Weft e Warp (maglieria piana e circolare). La struttura woven mostra una grande stabilità dimensionale nelle direzioni delle fibre perpendicolari tra loro. La struttura knitted, viceversa, è caratterizzata dal fatto che le fibre non sono tese nel tessuto, ma sono disposte secondo un disegno che prevede continue curvature. Tale disposizione rende le protesi meno stabili dal punto di vista dimensionale e maggiormente porose.
Un’altra categoria di protesi vascolari è quella costituita da PTFE espanso (Gore-tex). Il Gore-tex è una struttura espansa ottenuta con uno speciale processo di stiramento a temperatura elevata che genera interconnessioni costituite da fibrille altamente orientate.
Nell’ultimo periodo sono stati sperimentati materiali innovativi per questo settore come i siliconi, che presentano caratteristiche di biostabilità, istocompatibilità ed emocompatibilità, e i poliuretani (PU), che hanno mostrato elevata emocompatibilità ed eccezionali caratteristiche di resistenza all’abrasione e alla fatica in flessione.
L’utilizzo dei materiali sintetici in ambito biomedicale è aumentato drasticamente negli ultimi anni: problema essenziale di studio, ancora in parte irrisolto, è quello della biocompatibilità di questi materiali, intesa come l’abilità di un materiale di esplicare la propria funzione con una appropriata risposta del sistema vivente che lo ospita.
Particolarmente rilevante risulta lo studio e la caratterizzazione delle proprietà in grado di esercitare una qualche influenza sul contatto materiale-sangue, quali ad esempio la struttura della superficie dei materiali (rugosità, imperfezioni come siti preferenziali per la formazione di trombi), le caratteristiche elettrochimiche ed i parametri termodinamici (bagnabilità, tensione superficiale ed interfacciale, proprietà di adesione). Caratteristiche essenziali di un materiale utilizzato in ambito vascolare sono la superficie liscia a basso coefficiente di attrito (non trombogenica) e dimensioni e proprietà meccaniche analoghe a quelle delle arterie che devono essere sostituite [3].
La resistenza frizionale può dar luogo infatti a sforzi locali di taglio causando perturbazioni e turbolenze nel flusso del sangue in prossimità della parete del vaso, con possibilità di aggregazione piastrinica. Tale problema appare più grave nelle protesi di piccolo diametro in quanto lo strato limite vicino alla parete è proporzionalmente più spesso. Per minimizzare eventuali disturbi nel flusso, le dimensioni di protesi e arteria naturale dovrebbero essere uguali e, per ottenere un trasferimento ottimale di energia dovuta alle pulsazioni, anche le proprietà elastiche dovrebbero essere le stesse.
Lo sviluppo e l’impiego di tecnologie innovative per la realizzazione di modifiche superficiali di materiali polimerici in ambito vascolare risultano di notevole importanza proprio alla luce del rapporto superficie del polimero-fluidi organici di cui sopra.
Nuovi prodotti medici, materiali e procedure in sala operatoria sono finalizzati al miglioramento delle metodologie e dei prodotti in uso clinico. Alcune di queste innovazioni sono finalizzate allo sviluppo di prodotti polimerici che rispondano alle esigenze cliniche e di costo di realizzazione. Uno degli aspetti fondamentali, oggetto di ricerca, riguarda la biocompatibilità fra l’ambiente fisiologico e la superficie del biomateriale.
Una delle tecnologie più utilizzate per la modifica superficiale di materiali polimerici è il trattamento al plasma. Il Plasma Surface Modification (PSM) è in effetti una tecnica di trattamento superficiale adatta per diverse tipologie di materiali di interesse nell’ingegneria biomedicale [4]. Lo scopo del trattamento consiste nel miglioramento della biofunzionalita’ delle protesi vascolari e nella diminuzione dell’effetto rigetto e dei processi infiammatori.
Il PSM consente di ottenere un miglioramento della biocompatibilità ed emocompatibilità (protesi vascolari, cateteri, stents, membrane, filtri), grazie agli effetti prodotti sulla superficie quali l’aumento della bagnabilità, la riduzione del coefficiente di frizione e la possibilità di realizzare rivestimenti lubrici e anti-microbici.
L’utilizzo di materiali sintetici per applicazioni biomediche è cresciuto drammaticamente nell’ultimo decennio. Alcuni di questi materiali presentano caratteristiche chimico-fisiche che, una volta a contatto con i tessuti naturali, creano reazioni fisiologiche avverse, come ad esempio infiammazione, trombosi, infezioni. La modificazione superficiale del materiale può migliorare la biocompatibilità di questi senza modificare le proprietà della massa dell’impianto artificiale, garantendone il successo clinico e funzionale.
Molte metodologie sono state prese in esame e sviluppate per modificare le interazioni del biomateriale con l’ambiente fisiologico, e il trattamento al Plasma è una di queste.
Per produrre un plasma [4] è richiesta la ionizzazione o la separazione di elettroni da atomi o molecole allo stato gassoso. Quando un atomo o una molecola viene a contatto con una fonte di energia esterna la ionizzazione ha luogo. Esistono differenti metodologie per produrre un plasma, e anche le apparecchiature utilizzate esistono in molteplici forme e con diverse caratteristiche: le proprietà di queste sorgenti, come ad esempio la temperatura degli elettroni, quella degli ioni, la densità degli elettroni e l’uniformità, ne determinano le proprietà e la tipologia di applicazione. Durante il processo al plasma, dopo l’applicazione del vuoto nella camera di reazione, viene applicato un potenziale elettrico attraverso il gas a bassa pressione che entra nella camera: il gas viene energizzato utilizzando tecniche come l’energia a radiofrequenza, la corrente alternata o la corrente continua. L’energia trasferita al plasma (costituito da ioni, elettroni, o radicali) viene a sua volta trasferita da questo al provino solido inserito nella camera di reazione, e trasformata da questo in modi diversi, attraverso processi chimici e fisici come ad esempio [5]:
- promozione dell’adesione
- attivazione della superficie
- aumento della bagnabilità e della spalmabilità
- miglioramento della biocompatibilità
- funzionalizzazione superficiale
- riduzione coefficiente di attrito e adesività
- immobilizzazione molecolare
- ricoperture non-fouling
- coating con effetto barriera.
Una vasta varietà di parametri può direttamente influenzare le caratteristiche fisiche e chimiche di un plasma e di conseguenza le proprietà chimiche della superficie modificata. Parametri di processo, come il tipo di gas, il potenziale applicato, il tempo di trattamento e la pressione operativa possono essere variati e decisi dall’operatore. La collocazione e la geometria dell’elettrodo, il design del reattore, il sistema di vuoto e di ingresso del gas, sono invece caratteristiche che variano a seconda della macchina utilizzata.
A partire dalla superficie originale del materiale è possibile realizzare un overcoat (rivestimento superficiale) con determinate proprietà, una modificazione superficiale con gradiente di alcune caratteristiche o entrambe contemporaneamente. Tale risultato può essere ottenuto anche “imprigionando” sostanze chimiche in superficie. Il trattamento al plasma permette infatti di ottenere una eccitazione delle molecole superficiali che sono dunque più reattive verso specie esterne e idonee ad acquisire quindi specifiche caratteristiche.
Materiali trattati attraverso PSM sono tra gli altri i polimeri polimetilmetacrilato (PMMA) [5], il politetrafluoroetilene (PTFE), il polietilentereftalato (PET), i poliuretani (PU), il polivinilcloruro (PVC) e il polietilene (PE) [4].
Le applicazioni biomediche di questa tecnologia sono molteplici potendo essere utilizzata ad esempio nei settori cardiovascolare (protesi vascolari, cateteri), lenti a contatto intraoculari, ortopedico, biosensori e bioseparazione, impianti dentali e tissue engineering, tutti quei settori cioè dove le caratteristiche superficiali giocano un ruolo fondamentale nel successo finale del sistema.
Il trattamento al plasma consente di ottenere i seguenti risultati mediante l’applicazione di differenti modificazioni e di differenti metodologie:
- Attivazione o funzionalizzazione della superficie: in questo modo è possibile ottenere una superficie con gruppi funzionali attivati per interazione con particolari specie chimiche.
- Polimerizzazione e reticolazione superficiale: la tecnica del plasma implantation consente l’introduzione di funzionalità ossigeno o azoto in sostituzione dell’idrogeno. Il plasma polimerisation garantisce la trasformazione del monomero in polimero con l’assistenza di elettroni, ioni o radicali liberi (plasma). Il plasma grafting co-polymerisation conduce alla creazione di radicali che funzionano da iniziatori di polimerizzazione superficiale a contatto con monomeri.
- Aumento della bagnabilità collegata alla attivazione della superficie: conduce ad una modificazione consistente dell’angolo di contatto di un liquido in superficie (abbiamo già parlato dell’importanza della bagnabilità per le protesi vascolari).
- Immobilizzazione di molecole: il PSM garantisce l’immobilizzazione in superficie di molecole con particolari proprietà diverse da quelle del materiale della matrice. Risulta in tal modo possibile ad esempio realizzare una superficie contenente specie con determinate caratteristiche anti-trombogeniche, e biomolecole che garantiscono una elevata biofunzionalità del device.
Prototipi per il trattamento di materiali per applicazioni tessili e biomedicali mediante plasma sono in funzione presso il Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Pisa e presso la Tecnotessile s.r.l. di Prato.
Come detto il trattamento al Plasma non è l’unica metodologia utilizzata e soggetta a indagini e sviluppo per modificare le caratteristiche di superficie di materiali e protesi per impiego in ambito clinico. Il trattamento Laser è un’altra delle tecniche utilizzate per la modificazione superficiale dei materiali polimerici per impiego in campo biomedico, e quindi anche per le protesi vascolari e le fibre. È una tecnica molto usata per il vasto range di tipologie di materiali utilizzabili, i molti substrati impiegabili e la versatilità di applicazione. Il Laser Ablation (LA) prevede una serie di passi, il primo dei quali è costituito da una radiazione laser che interagisce con un target solido; l’assorbimento dell’energia e il surriscaldamento superficiale localizzato portano alla susseguente evaporazione del materiale. Le caratteristiche e la composizione del risultante “pennello” evolvono in base alla collisione tra le particelle del pennello stesso e alle interazioni tra pennello e radiazione laser. Finalmente il pennello urta contro la superficie del substrato che deve essere ricoperto o modificato: il materiale incidente può urtare e rimbalzare indietro come fase vapore, oppure accomodarsi sulla superficie e indurre la modificazione superficiale (sputtering, compattazione, sub-implantation). Le caratteristiche finali del coating realizzato dipendono oltre che dalla proprietà del materiale del target (materiale emesso) che forma il pennello, anche dai parametri della radiazione laser come la lunghezza d’onda, intensità, durata della pulsazione.
La qualità del film e le sue caratteristiche dipendono dalla densità e dall’energia cinetica del pennello. Oltre alle caratteristiche già descritte per il trattamento al plasma, e in confronto alle tecniche convenzionali di deposizione di film superficiali, il LA ha alcune caratteristiche uniche. Innanzi tutto permette la deposizione di un materiale con punto di fusione elevato in grado di assorbire la luce laser. In aggiunta non produce contaminazioni del film realizzato in confronto ad altri processi condotti a temperatura elevata, e questo risulta di notevole importanza per superfici finalizzate al contatto con tessuti biologici. Infine questo processo è in grado di produrre film in ambiente ossidante e ad una pressione relativamente elevata a causa dell’assenza di riscaldatori o filamenti nella camera di reazione.
Fibre cave
Moderne tecnologie di filatura hanno permesso di realizzare strutture per l’impiego in campo medico. Una fibra può essere descritta come un corpo flessibile, macroscopicamente omogeneo, con un elevato rapporto lunghezza/spessore e una piccola sezione trasversale.
Le fibre poliestere e acriliche, assieme alla viscosa e al nylon, rappresentano le fibre di più largo consumo nel mondo, mentre, in scala più bassa, viene prodotta tutta una serie di filamenti dalle più varie caratteristiche realizzati per scopi altamente specifici. È infatti la grande versatilità di questi manufatti ad averne decretato il grande successo, tanto da spostare il loro campo di applicazione da quello tessile ai più svariati settori, come quello aeronautico, edile, medico.
Attualmente, infatti, la produzione di fibre sintetiche è una delle attività più importanti dell’industria chimica ed è in continua evoluzione, grazie allo sviluppo di sempre nuove e sofisticate tecnologie necessarie per rispondere alle continue richieste del mercato.
Il primo stadio del processo produttivo di una fibra è costituito dalla filatura o spinning, durante la quale il materiale polimerico è convertito in un filamento continuo; le metodologie principali utilizzate a tal fine sono la filatura da fuso, la filatura a secco e la filatura ad umido, anche se ne esistono altre derivate dalla variazione e dalla combinazione di queste.
Tutti e tre i processi utilizzano una sorta di filiera detta spinneret dotata di uno o più orifizi dalle forme più svariate attraverso i quali il polimero fuso o dissolto in soluzione è estruso sotto pressione. La spinneret viene costruita con caratteristiche altamente variabili in funzione della natura del polimero trattato, della temperatura, delle modalità di processo e, ovviamente, dei requisiti del prodotto finale.
La filatura da fuso consiste nel portare il polimero al di sopra della sua temperatura di fusione di circa 20-40°C, forzandolo attraverso una spinneret e conducendo il filamento fino ad una zona di raffreddamento dove il materiale solidifica completando il processo di formatura della fibra.
Quando non è possibile eseguire una filatura da fuso si può realizzare una delle due filature da soluzione, cioè a secco o ad umido, entrambe decisamente più complesse dal punto di vista realizzativo. Nella filatura a secco il polimero viene dissolto in un solvente opportuno e la soluzione ottenuta viene riscaldata e spinta sotto pressione attraverso gli orifizi della spinneret. I filamenti prodotti vengono quindi condotti ad una zona di riscaldamento dove avviene l’evaporazione del solvente; lo stiro delle fibre dopo la filatura è influenzato dalla quantità di solvente residuo che viene di solito rimosso tramite lavaggio e recuperato con diverse metodologie. La filatura a umido, infine, è la più complessa delle tre tecniche manifatturiere anche se sicuramente è la più usata a livello industriale. Il polimero viene anche in questo caso dissolto in un solvente e la soluzione estrusa attraverso la filiera; quest’ultima però, è immersa in un bagno di coagulo (non solvente) dove il materiale precipita o è rigenerato chimicamente. Il processo che si verifica nel bagno è il processo di inversione di fase e implica la diffusione verso l’esterno del solvente e verso l’interno del non solvente con la formazione di un sistema ternario polimero/solvente/non solvente.
L’impiego delle fibre, ed in particolare delle fibre cave, in campo biomedico ha ormai raggiunto livelli ragguardevoli, e anche per questo motivo il nostro interesse si è concentrato nell’ultimo periodo nello studio, caratterizzazione e sviluppo di fibre con caratteristiche innovative per l’utilizzo nel settore dei biomateriali.
Le fibre cave vengono impiegate in processi quali:
- Dialisi, ultrafiltrazione, osmosi inversa, permeazione di gas;
- Immobilizzazione di catalizzatori ed enzimi all’interno della parete;
- Rilascio controllato di principi attivi;
- Scambio ionico.
Quando il trasporto è principalmente dall’esterno verso l’interno del lume, la fibra agisce da “assorbente” , mentre se il trasporto è in verso contrario, la fibra funziona come contenitore a rilascio controllato.
L’impiego di fibre cave nell’ambito della dialisi si è sviluppata negli ultimi anni ed ha ormai completamente sostituito le altre metodologie che utilizzavano dializzatori a piani paralleli o a spirale.
L’emodializzatore a fibre cave è costituito da un fascio di fibre cave (in numero superiore a 10000) con diametro interno pari a 200 mm, racchiuse in un cilindro di plastica [6]. Il sangue scorre all’interno delle fibre (“lato tubi”), mentre il liquido di dialisi scorre all’esterno (“lato mantello”) in controcorrente.
È il tipo di dializzatore di più recente sviluppo il cui maggior vantaggio è l’elevato rapporto superficie utile/volume, oltre che il basso volume ematico; l’inconveniente è costituito dalla facilità con cui le fibre possono intasarsi.
La ricerca svolta dal gruppo “Biomateriali” del Dipartimento di Ingegneria Chimica si è concentrata negli ultimi anni nella realizzazione di fibre cave sia per la ricopertura di stent coronarici che come sistemi a rilascio controllato di farmaci.
La ricopertura di uno stent coronarico con materiale polimerico può essere effettuata in due modi: in un caso, realizzando la ricopertura con materiale biodegradabile che si dissolva all’interno del vaso senza lasciare tracce nell’organismo; nell’altro, ricoprendo le pareti degli stent con materiale sintetico emocompatibile che non dia origine a processi infiammatori. L’utilizzo delle fibre è naturalmente indicato anche per le buone caratteristiche meccaniche che il materiale deve avere dovendo resistere alla dilatazione dello stent all’interno del vaso. La possibilità di realizzare uno stent ricoperto da uno strato di materiale polimerico biodegradabile che, oltre a svolgere le funzioni di biocompatibilità e non-trombogenicità, possa inglobare farmaci altamente specifici da rilasciare in loco in maniera controllata, è di notevole interesse e oggetto di studio. La realizzazione di una terapia farmacologica così altamente localizzata permette di eliminare quasi totalmente il rischio di effetti collaterali dovuti alla protesi vascolare, mentre l’utilizzo di materiali biodegradabili garantisce l’allontanamento da parte dell’organismo ospite del rivestimento polimerico, una volta che esso ha contribuito attivamente a migliorare le proprietà superficiali dello stent e al rilascio controllato del farmaco.
Il rilascio dei principi attivi dalle fibre cave può essere realizzato incorporando all’interno di esse nanosfere polimeriche contenenti il principio attivo stesso. Questo permette di aumentare i gradi di libertà del sistema e quindi i parametri di controllo della velocità di rilascio: in particolare il drug delivery può essere effettuato in questo modo in due steps. Nel primo step il farmaco viene rilasciato dalle nanoparticelle polimeriche, nel successivo, diffonde attraverso la parete microporosa della fibra cava venendo quindi a contatto con l’organismo.
Per la realizzazione di fibre cave caricate con microparticelle, oltre alla metodologia di filatura a umido è stata messa a punto una tecnica di filatura intermedia tra quella ad umido e quella a secco. Il dry-wet spinning utilizza una filiera a doppio annulus con doppio ingresso: in uno degli aghi ricurvi viene spinta sotto pressione la soluzione contenente il polimero che darà luogo alla fibra, nell’altro una sospensione di nanoparticelle in un non solvente del polimero. Si verifica dunque una inversione di fase in corrispondenza della parete interna dovuta allo scambio solvente-non solvente, mentre esternamente si ha l’evaporazione del solvente causata da una sorgente calda.
Per la realizzazione di fibre cave con caratteristiche di rilascio e biodegradabilità sono stati testati polimeri come il destrano, il poliacido lattico (PLA), il policaprolattone (PCL) e il copolimero polilattico-poliglicolico PLGA [7].
Una delle più innovative applicazioni delle fibre in campo medico è quella nel settore del tissue engineering. Gli scaffold polimerici utilizzati in tale ambito devono possedere le caratteristiche necessarie per l’impianto e la finalità clinica, quali l’elevato rapporto area superficiale interna/volume, l’alta porosità e la distribuzione controllata delle dimensioni dei pori.
Un grande numero di tecnologie tessili possono potenzialmente essere applicate per la realizzazione di scaffolds altamente porosi. Le fibre forniscono un’ampia area superficiale in rapporto al volume occupato, e per questo risultano adatte per l’ingegneria dei tessuti. Risultati molto promettenti sono state raggiunti per la rigenerazione di ossa, cartilagine e valvole cardiache usando compositi non tessuti di fibre polimeriche di poliacido glicolico (PGA), PGA/D,L-polilattico (PDLA) e PGA/L-polilattico (PLLA).
Le fibre polimeriche sono state impiegate per preparare strutture tridimensionali della forma desiderata con la funzione di sostenere le colture cellulari [8] possedendo la porosità e il rapporto superficie/volume necessari per l’attacco e la proliferazione delle cellule trapiantate.
La tecnologia di processo richiede una prima fase in cui si ha la formazione di un materiale composito costituito da un filler di fibre, intrappolate in una matrice polimerica di diverso materiale. Il composito viene quindi riscaldato appena sopra la temperatura di fusione del polimero costituente la fibra in modo da garantire una saldatura delle fibre in corrispondenza delle sovrapposizioni. L’ultimo step prevede la dissoluzione selettiva del polimero costituente la matrice e l’ottenimento quindi di un supporto di fibre legate tra di loro. La tecnica descritta è stata usata impiegando fibre in PGA su matrice di PLLA ottenendo uno scaffold dalle buone qualità.
Anche per le fibre come per le protesi vascolari il miglioramento delle proprietà e delle potenzialità di impiego viene garantito dallo sviluppo e realizzazione di tecnologie innovative. In particolare, fra le nuove tecnologie tessili per il medicale ha riscontrato notevole interesse l’electrospinning.
Questa tecnica sfrutta la forza elettrostatica generata da una sorgente di potenziale ad alto voltaggio. Si forma una goccia emisferica sulla superficie di una soluzione polimerica dalla quale si crea un getto di polimero carico elettricamente che viene eiettato da un tubo a capillare ed indirizzato verso un collettore dando origine alla fibra. In tal modo è possibile realizzare strutture tridimensionali con le fibre garantendo a questa metodologia una grande varietà di applicazioni tra le quali:
- membrane semipermeabili, filtri;
- fibre di rinforzo in materiali compositi;
- tissue engineering;
- microsuture interne.
Il grande vantaggio dell’electrospinning è quello che, a differenza dei metodi classici quali melt, dry o wet spinning (5-500mm), esso garantisce l’ottenimento di nanofibre con dimensioni dell’ordine dei 50-500nm.
Tra i materiali testati con questa tecnologia hanno garantito buoni risultati fibre naturali come la seta Bombyx mori e Samia cynthia ricini [9], e materiali sintetici come il copolimero polimetilmetacrilato tetraidroperfluoroctilacrilato (PMMA‑r‑TAN) [10] e il polimero polietilenossido (PEO), e sistemi biodegradabili a base di PCL, PLA, PGA [11]. Ad esempio, è già in uso clinico il Monocryl, un monofilamento per suture interne in copolimero a blocchi PCL-PGA.
Bibliografia
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