Inventario
Campi elettromagnetici: studi epidemiologici e valutazione del rischio
Introduzione
Gli studi epidemiologici costituiscono uno dei principali strumenti d’indagine per evidenziare eventuali effetti a lungo termine di un agente, in particolare dei campi elettromagnetici. A differenza degli studi di laboratorio, su cellule o su animali, questo tipo di ricerche consente infatti di osservare direttamente le risposte degli individui, in condizioni reali, senza i problemi e le incertezze che sorgono quando si trasferiscono i dati da una specie all’altra, o da un sistema semplificato (come una coltura cellulare) all’organismo intero.
La qualità di uno studio epidemiologico, e conseguentemente la sua capacità di identificare rischi laddove questi esistano, dipende però da numerosi elementi, fra cui la dimensione del campione statistico, la corretta selezione delle popolazioni in studio, l’identificazione di possibili fattori confondenti e le relative correzioni, la valutazione delle dosi o delle esposizioni.
In situazioni in cui differenti studi epidemiologici forniscono risultati contraddittori, per esempio quando le dimensioni dei singoli studi sono troppo piccole per permettere di fornire risultati stabili, al fine di valutare deboli fattori di rischio si presenta la necessità d’effettuare rassegne dell'evidenza disponibile che possono consistere in rassegne qualitative degli articoli pubblicati, o in rassegne quantitative dei dati pubblicati (dette anche meta-analisi), in cui si calcolano stime combinate dei rischi relativi determinati nei singoli studi, o infine in analisi pooled su dati aggregati, in cui le stime di rischio relativo vengono calcolate utilizzando direttamente i dati originali dei singoli studi (Blettner et al. 1999).
Campi a frequenze estremamente basse (ELF)
Il primo studio epidemiologico che abbia messo in relazione l'esposizione residenziale ai campi magnetici alla frequenza di rete (50/60 Hz) con un eccesso di rischio cancerogeno, in particolare la leucemia infantile, è quello di tipo caso-controllo condotto da Wertheimer e Leeper (1979). In questo studio era evidenziato un eccesso di rischio per i bambini che abitavano vicino a linee elettriche definite "ad alta configurazione di corrente" sulla base di parametri (wire coding) come la distanza, il voltaggio e le dimensioni dei cavi, connesse all’intensità del campo magnetico nelle abitazioni. Da allora sono state effettuate 31 indagini epidemiologiche sui tumori infantili, delle quali 26 relative alla leucemia infantile (per una rassegna aggiornata di questi studi si rimanda a Lagorio e Salvan - 2001).
Una commissione scientifica riunita dal National Research Council degli Stati Uniti (NRC 1997) ha realizzato una meta-analisi di 11 studi sulla leucemia infantile, in relazione all'esposizione residenziale a campi magnetici a 50/60 Hz, pubblicati entro il 1993. Veniva osservato un piccolo ma consistente eccesso di rischio (di circa il 50%) negli studi nei quali l'esposizione era stimata in modo indiretto mediante la procedura del wire coding, ma non negli studi in cui l'esposizione era valutata mediante misure estemporanee. Questo risultato, noto come wire code paradox, sembrava indicare una minore affidabilità delle misure in una valutazione dell'esposizione pregressa dei bambini, oppure al contrario poteva dipendere da distorsioni negli studi che utilizzavano il wirecoding.
In relazione ai possibili effetti a lungo termine associati all’esposizione a campi ELF, il documento più ampio, commissionato dal Congresso USA nel 1992, è quello del National Institute for Environmental Health Sciences (NIEHS) degli Stati Uniti (Portier e Wolfe 1998), che ha effettuato un’accurata valutazione delle evidenze disponibili (www.niehs.nih.gov/emfrapid/home.htm) utilizzando i criteri da tempo adottati dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) di Lione.
Secondo la IARC la classificazione di un agente (o di una miscela di agenti o di una situazione espositiva) è determinata dalla qualità dell’evidenza di cancerogenicità risultante principalmente da studi sull’uomo e su animali da laboratorio. Da questo punto di vista la IARC (www.iarc.fr) suddivide gli agenti nei seguenti cinque gruppi:
- Gruppo 1: L’agente è cancerogeno per l’uomo.
- Gruppo 2A: L’agente è probabilmente cancerogeno per l’uomo.
- Gruppo 2B: L’agente è possibilmente cancerogeno per l’uomo.
- Gruppo 3: L’agente non è classificabile per quanto riguarda la
cancerogenesi nell’uomo.
- Gruppo 4: L’agente è probabilmente non cancerogeno per l’uomo.
Nel Gruppo 1 sono inclusi tutti gli agenti per cui è stata ritenuta sufficiente l’evidenza di cancerogenicità nell’uomo; per gli agenti in Gruppo 2A, l’evidenza nell’uomo è limitata, ma è sufficiente negli animali; per gli agenti nel Gruppo 2B vi è sia un’evidenza limitata nell’uomo che un’evidenza non sufficiente negli animali, oppure un’evidenza inadeguata nell’uomo ma sufficiente negli animali; per gli agenti classificati nel Gruppo 3, l’evidenza nell’uomo è inadeguata e quella negli animali è limitata o inadeguata.
A titolo d’esempio, è utile ricordare che il fumo di tabacco è nel Gruppo 1, le lampade e i lettini solari a radiazione ultravioletta sono nel Gruppo 2A, la caffeina e i gas di scarico delle auto a benzina sono nel Gruppo 2B, il tè è nel Gruppo 3, mentre il caprolattame (precursore del nylon) è l’unico agente attualmente classificato come probabilmente non cancerogeno per l’uomo.
Secondo il NIEHS, vi è un’evidenza limitata di cancerogenecità per la leucemia infantile in relazione all’esposizione residenziale a campi ELF e per la leucemia linfatica cronica in relazione alle esposizioni professionali. Per la maggior parte delle altre associazioni menzionate dalla letteratura, l’evidenza è stata invece giudicata inadeguata. Sulla base di queste valutazioni il NIEHS ha giudicato i campi magnetici a frequenze industriali possibilmente cancerogeni (Gruppo 2B).
Un precedente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Comba et al. 1995) aveva ugualmente formulato una valutazione di "evidenza limitata di cancerogenicità" per gli studi epidemiologici, suggerendo tuttavia che questo portasse ad una valutazione complessiva di probabile cancerogeno (Gruppo 2A).
Anche nell’ambito del Progetto Internazionale Campi Elettromagnetici (www.who.int/peh-emf), avviato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è stata effettuata una valutazione, sulla base delle conoscenze scientifiche, degli effetti dei campi elettrici e magnetici statici ed a frequenze estremamente basse. Più esattamente, l’analisi degli effetti cancerogeni è stata effettuata congiuntamente dall’OMS e dalla IARC che, recentemente, ha pubblicato la sua monografia (IARC 2002) sulla valutazione dei rischi cancerogeni per l’uomo in relazione ai campi sopra menzionati. In particolare la IARC ha incluso nel Gruppo 3 della sua classificazione i campi elettrici e magnetici statici ed il campo elettrico ELF, mentre ha incluso nel Gruppo 2B i campi magnetici ELF.
Ahlbom et al. (2000) hanno utilizzato i dati di 9 studi pubblicati tra il 1993 ed il 1999 in cui la valutazione dell'esposizione era effettuata mediante misure su 24 o 48 ore, oppure mediante calcoli teorici. Le esposizioni sono state categorizzate nel modo seguente: induzione magnetica B < 0.1 T (categoria di riferimento); 0.1 T < B < 0.2 T; 0.2 T < B < 0.4 T; B > 0.4 T controll simboli. Per i 3203 casi di leucemia infantile ed i 10.338 controlli esposti ad induzioni magnetiche stimate inferiori a 0.4 T gli autori hanno determinato stime di rischio relativo vicine al valore di nessun effetto, mentre per i 44 casi di leucemia e i 62 controlli esposti a più di 0.4 T il rischio relativo stimato era pari a 2.00 con un intervallo di confidenza al 95% 1.27-3.13. Secondo gli autori questo aumento di rischio è improbabile che sia dovuto a fluttuazioni statistiche, ma la causa di ciò è ignota, anche se una parte dell'aumento può essere dovuta ad una distorsione nella selezione dei soggetti inclusi negli studi: per una discussione più approfondita di questo argomento si rimanda a Lagorio e Salvan (2001).
Un’analisi pooled pubblicata recentemente è quella di Greenland et al. (2000), effettuata aggregando i dati originali di 16 studi caso-controllo, 12 dei quali fornivano stime dell'esposizione al campo magnetico, mentre 8 di essi fornivano dati sulle esposizioni in termini di wire code. Questi autori concludono che le loro analisi indicano una qualche associazione tra campi magnetici alla frequenza di rete e leucemia infantile quando si confrontano le esposizioni superiori a 0.3 T con le esposizioni inferiori, ma i dati sono ancora insufficienti per capire le possibili sorgenti di questa associazione, se cioè essa rifletta un reale effetto dei campi magnetici o sia dovuta ad altre cause, quali possibili fattori di confondimento relativamente ai quali non siano stati raccolti sufficienti dati nei singoli studi (quali lo stato socioeconomico, la mobilità residenziale, i contatti con virus e i livelli di inquinamento atmosferico dovuti al traffico), oppure distorsioni dovute ad errori di misura dell'esposizione, o distorsioni nella selezione dei soggetti inclusi o infine distorsioni dovute alla tendenza a pubblicare preferibilmente studi "positivi" piuttosto che quelli "negativi" (bias di pubblicazione).
Secondo molti autori, per fare chiarezza su questa problematica sarà necessario attendere molti più dati sulle alte esposizioni a campi elettrici e magnetici (in quanto eventuali effetti apprezzabili dei campi magnetici potrebbero essere riscontrabili solo per esposizioni relativamente alte e poco comuni) e sulle possibili sorgenti di distorsione.
Nel marzo 2000 è stato pubblicato un documento del National Radiological Protection Board inglese in cui vengono esposte le conclusioni di un gruppo di lavoro presieduto da Sir Richard Doll. Questi autori concludono che "Gli esperimenti di laboratorio non hanno fornito nessuna valida evidenza che i campi elettromagnetici a frequenza estremamenta bassa siano in grado di produrre il cancro, né gli studi epidemiologici sull’uomo suggeriscono che questi provochino il cancro in generale. C’è tuttavia qualche evidenza epidemiologica che l’esposizione prolungata ad alti livelli di campo magnetico a frequenza industriale sia associata ad un piccolo rischio di leucemia infantile. In pratica, questi livelli di esposizione si riscontrano raramente tra il pubblico generico nel Regno Unito. In assenza di una chiara evidenza di un effetto cancerogeno negli adulti, o di una plausibile spiegazione da parte di esperimenti su animali o cellule isolate, l’attuale evidenza epidemiologica non è abbastanza forte da giustificare una netta conclusione che tali campi provochino la leucemia nei bambini. Comunque, a meno che ulteriori ricerche non dimostrino che i risultati sono dovuti al caso o a qualche artefatto al momento non identificato, resta la probabilità che esposizioni intense e prolungate a campi magnetici possano aumentare il rischio di leucemia infantile. A commento del rapporto Doll, l'NRPB ha comunque concluso come questo rapporto non fornisca alcuna evidenza scientifica aggiuntiva tale da richiedere una variazione dei limiti di esposizione suggeriti dall'International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection (ICNIRP).
Lo studio italiano che potrà fornire un contributo significativo al dibattito internazionale è il progetto SETIL, uno studio caso-controllo multicentrico con base di popolazione, relativo ai fattori di rischio di leucemie, linfomi non Hodgkin e neuroblastomi (Magnani et al. 1999).
Alla luce di questo quadro di conoscenze è opportuno considerare quale sia la distribuzione dei livelli di esposizione a campi ELF della popolazione. Questo dato si può ottenere attraverso modelli di previsione o indagini campionarie. Un modello è stato presentato recentemente da Polichetti (2000), che ha utilizzato dati relativi alle linee di trasmissione e distribuzione dell’alta tensione di pertinenza dell’ENEL e delle FS già elaborati da Anversa et al. (1995). Emerge da tale modello che, in Italia, circa 25.000 bambini vivono in abitazioni con livelli di esposizione superiore a 0.5 T e, di questi, 3.000 e 3.500 sono esposti, rispettivamente, a livelli superiori a 1 e 2 T.
In Italia non è stata ancora portata a termine un’indagine campionaria di popolazione, ma sono disponibili i risultati di uno studio pilota per la valutazione dei campi magnetici a 50 Hz in ambiente residenziale (Salvan et al. 1999). Lo studio è stato condotto su un campione di 116 residenze ubicate in Piemonte, Veneto, Toscana, Emilia-Romagna e Sicilia, con l’obiettivo di mettere a punto un protocollo di misura da impiegare nello studio SETIL precedentemente menzionato. Considerando la serie di dati relativi a misure prolungate in corrispondenza del letto del bambino, risulta che solo in un caso la media è superiore a 1 T e in nessun caso è superiore a 5 T; il valore massimo registrato in 14 casi è superiore a 1 T, in un solo caso superiore a 5 T e non è mai superiore a 10 T.
In relazione ai risultati della meta-analisi del National Radiological Protection Board (NRPB 1992), che indicava un eccesso di rischio di circa il 35% in relazione alla vicinanza delle abitazioni a linee ad alta tensione, Petrini et al. (1995) hanno valutato un eccesso di leucemia infantile attribuibile (ipotizzando un reale effetto dei campi magnetici) a tutte le linee ad alta tensione in esercizio in Italia di circa due casi per anno.
I risultati della meta-analisi di Ahlbom et al. (1993) sono stati utilizzati da Comba et al. (1995) che hanno stimato che, su circa 400 casi annuali di leucemia infantile che si verificano in Italia, 2.55 casi, con un intervallo di confidenza al 95% 0.23-7.11, sono attribuibili ai livelli di induzione magnetica superiori a 0.2 T generati esclusivamente dalle linee ad alta tensione.
Lagorio et al. (1998), sulla base della meta-analisi da essi stessi condotta, hanno effettuato le stime più aggiornate relative alla situazione italiana. Sulla base di un rischio relativo pari a 1.57, i 2.55 casi annuali precedentemente stimati si ridurrebbero a 1.3 con un intervallo di confidenza al 95% 0.0-4.1.
Valutazioni di questo tipo hanno lo scopo di stimare l'impatto sulla salute pubblica di un ipotetico rischio cancerogeno dei campi magnetici alla frequenza di rete, ma nulla dicono relativamente al rischio individuale cui potrebbero essere soggetti i bambini esposti ai vari livelli di induzione magnetica. Un tentativo in tal senso è stato effettuato da Polichetti (2000) utilizzando i risultati della meta-analisi di Lagorio et al. (1998) e sulla base di alcune assunzioni sulla relazione dose-risposta, inevitabilmente arbitrarie perché i dati disponibili non sono ancora sufficienti per effettuare ipotesi circa l'andamento di questa relazione. Queste assunzioni, scelte perché considerate le più semplici, consistono in una linearità del rischio al variare del livello di induzione magnetica e nell'assenza di una soglia (sulla cui esistenza e valore numerico non esiste alcun riscontro scientifico). E' stato determinato un rischio annuale aggiuntivo di morte per leucemia infantile pari a 1.5x10-5 per ogni microtesla di esposizione (variabile da -2.9x10-6 T-1a 4.7x10-5 T-1 considerando gli estremi dell'intervallo di confidenza al 95% del rischio relativo utilizzato per i calcoli). Sulla base di questo valore e dei dati ISTAT sulla mortalità per tale causa in Italia è stato stimato che l'eccesso di rischio dovuto all'esposizione ai campi magnetici alla frequenza di rete supera il rischio di fondo di mortalità per leucemia infantile quando l'induzione magnetica è maggiore di 1.3 T, mentre il rischio di mortalità per cause accidentali (particolarmente rilevante in età pediatrica) è superato quando l'esposizione è maggiore di 3.8 T. Ovviamente queste stime hanno senso unicamente se sono valide le assunzioni del modello lineare, la principale delle quali è l'ancora ipotetica relazione causale tra esposizione ai campi magnetici a 50 Hz e leucemia infantile (Polichetti 2000).
Campi a radiofrequenza
La possibilità di un aumento di neoplasie tra le persone esposte a campi elettromagnetici a radiofrequenza (RF) è stata indicata da alcuni studi sugli esposti per motivi lavorativi. Altre indagini simili hanno fornito risultati che non indicano un’associazione. Sono disponibili due revisioni della letteratura condotte recentemente da Elwood (1999) e da un gruppo di lavoro della Royal Society of Canada (1999). Mancano ancora, anche a causa della grande disomogeneità tra i diversi studi, meta-analisi su questo argomento.
Robinette et al. (1980) hanno studiato la mortalità tra il personale della marina militare americana, senza evidenziare aumenti di neoplasie tra gli addetti ad attività con presumibile esposizione a radiofrequenze. Analoghi risultati sono stati osservati relativamente alle leucemie ed in uno studio caso controllo sui tumori del testicolo (Hayes et al. 1990). Ha invece osservato un’associazione lo studio di Grayson et al. (1996) sui tumori cerebrali tra il personale dell’aviazione USA (RR=1.39; int. conf. 95% 1.01-1.90).
Armstrong et al. (1994) hanno osservato un aumento del rischio di tumore polmonare tra gli esposti a campi RF pulsati (RR=3.11; int. conf. 95% 1.60-6.04). Questo studio non è stato replicato da altri autori e non si può quindi valutare la riproducibilità dei risultati.
Alcuni studi sono stati condotti sulla mortalità dei radioamatori e degli operatori radio con l’osservazione di aumenti del rischio di leucemia e linfoma (Milham 1988), tumori mammari maschili (Demers et al. 1991) e femminili (Tynes et al. 1996). Peraltro non è stata osservata un’associazione tra tumori mammari ed esposizione a RF in un grande studio condotto da Cantor et al. (1995).
Uno studio ha indicato un aumento del rischio di tumore dei testicoli tra poliziotti addetti al controllo della velocità con radar portatili (Davis e Mostofi 1993). Un precedente studio caso controllo sui tumori del testicolo condotto da Hayes et al (1990) aveva invece fornito risultati inconsistenti.
Infine un’associazione con il melanoma dell’uvea è stata osservata in uno studio caso-controllo condotto da Holly et al. (1996).
Un rilevante problema nella valutazione complessiva dei dati di letteratura viene dal fatto che nessunodi questi studi fornisce indicazioni quantitative adeguate sulla intensità di esposizione.
Sono stati condotti quattro studi geografici sulla frequenza di neoplasie tra i residenti in prossimità di antenne radiotelevisive. Anche in questo caso è da osservare che in nessuno di questi l’esposizione è stata misurata in modo adeguato e che, pertanto, mancano utili indicazioni quantitative sull’intensità d’esposizione.
Maskarinec et al. (1994) hanno riferito un aumento di leucemie infantili (non significativo statisticamente) tra i residenti entro 2.6 miglia da un’antenna TV alle Hawaii. Simili risultati sono stati riferiti da Hocking et al. (1996) in Australia (RR per le leucemie infantili 1.58; int. conf. 95% =1.07-2.34), ma il loro studio non è stato confermato da un’analisi successiva (McKenzie et al. 1998).
Dolk et al. (1997a, 1997b) hanno studiato dapprima un cluster di leucemie e linfomi intorno ad un’antenna TV in Inghilterra, confermandolo dal punto di vista statistico. Successivamente hanno valutato la mortalità per leucemia e linfoma tra i residenti intorno alle 20 maggiori antenne TV della stessa nazione, senza trovare alcun aumento di rischio.
Uno studio è stato recentemente svolto dall'Agenzia di Sanità Pubblica del Lazio in relazione all'incidenza della leucemia infantile nell'area in esame (Michelozzi et al. 2002). I risultati dello studio mostrano una correlazione fra incidenza della leucemia infantile e distanza delle abitazioni dal centro trasmittente della Radio Vaticana: il test per il trend evidenzia una significativa diminuzione del rischio all'aumentare della distanza dalla stazione radio (p=0.006). Il rischio passa da 6.06 entro di 2 km (un caso osservato), a 2.32 nell'area a 2-4 km (2 casi osservati), a 1.88 nell'area a 4-6 km (5 casi osservati), mentre non si osservano casi fra 6 e 10 km. L'eccesso osservato risulta pari a circa tre volte l'incidenza dei casi attesi entro 0-4 km dalla stazione radio (SIR: 2.92, int. conf. 95% 0.60-8.55, 3 casi osservati) e più alto dell'atteso fino a 6 km di distanza (SIR 2.17, int. conf. 95% 0.94-4.28, 8 casi osservati). Il rischio può essere stato forse sottostimato a causa del fatto che la popolazione di riferimento comprendeva Roma, con i suoi noti problemi di inquinamento. Come chiarito dagli stessi autori nel loro rapporto, in questo studio non sono stati analizzati eventuali fattori confondenti e l'indagine non fornisce certo evidenze conclusive circa una possibile associazione causale fra esposizione a radiofrequenze e aumento del rischio di leucemie, anche a causa del carattere ecologico delle indagini effettuate fino ad oggi. Risulta quindi indispensabile un approfondimento dello studio, attraverso l'acquisizione di informazioni su altri potenziali fattori di rischio e la disponibilità di stime dirette dei livelli di esposizione della popolazione residente.
Per quanto riguarda gli studi epidemiologici relativi agli utilizzatori di telefoni cellulari, nel 1996 è stata pubblicata un’analisi della mortalità di una coorte di circa 256.000 titolari di contratto di utenza con un operatore di rete di telefonia mobile negli USA, per i quali il gestore aveva fornito dati di traffico relativi agli ultimi due mesi del 1993 (Rothman et al. 1996). Lo studio era stato precocemente interrotto a causa di inconciliabilità con le norme in materia di tutela della privacy in vigore in alcuni stati federali (Rothman 2000). Nell’analisi della mortalità per tutte le cause nel 1994, i tassi di mortalità specifici per età risultavano inferiori a quelli della popolazione generale (probabilmente a causa dell’elevato stato sociale degli utenti) e non emergevano differenze tra i tassi osservati nel gruppo di utilizzatori di telefoni cellulari portatili e quelli relativi agli utenti di telefoni cellulari da auto (Rothman et al. 1996). In una pubblicazione successiva, gli stessi autori hanno presentato un’analisi relativa ad un’estensione della coorte (venivano inclusi gli utenti di un secondo operatore di rete) e finalizzata a valutare il profilo di mortalità per grandi gruppi di cause in relazione all’intensità d’uso del cellulare negli ultimi due mesi dell’anno precedente al follow-up. Venivano accertati 1.420 decessi su 285.561 anni-persona di osservazione nel 1994. La mortalità per tutti i tumori non risultava correlata all’intensità d’uso del cellulare, il piccolo numero di decessi per tumori cerebrali e leucemie (6 e 15) non consentiva analisi robuste dal punto di vista statistico e l’unica causa di morte per la quale si osservava un incremento di rischio associato all’intensità d’uso del cellulare erano gli incidenti automobilistici (Dreyer et al. 1999). Quest’ultima osservazione corrobora il risultato di altri due studi epidemiologici nordamericani, che avevano segnalato la pericolosità dell’uso del cellulare durante la guida (Redelmeier e Tibshirani 1997; Violanti 1997): si tratta di evidenze che meritano la dovuta attenzione da un punto di vista di sanità pubblica.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati i risultati di tre studi caso-controllo sul rischio di tumori cerebrali in relazione all’uso del cellulare (Hardell et al. 1999; Muscat et al. 2000; Inskip et al. 2001). Nessuno di questi studi evidenza un’associazione tra incidenza di tumori cerebrali e uso del telefono cellulare dichiarato all’intervista, né una tendenza all’aumento del rischio in funzione dell’intensità riferita d’uso. Lo studio svedese aveva segnalato un aumento del rischio di tumori nell’emisfero cerebrale omolaterale rispetto all’orecchio prevalentemente usato nelle telefonate (Hardell et al. 1999), mentre negli studi americani il fenomeno non è stato osservato (Muscat et al. 2000; Inskip et al. 2001). Le dimensioni di questi tre studi non erano adeguate a valutare i rischi per specifici tipi istologici o per specifiche sedi anatomiche.
Infine, è del 2001 la pubblicazione dell’analisi dell’incidenza di tumori nella coorte dei 420.095 danesi utenti di servizi di telefonia mobile tra il 1982 ed il 1995 (Johansen et al. 2001). Su più di un milione di anni-persona di osservazione venivano individuati, mediante record-linkage con il registro tumori danese, 3.391 casi di tumore, meno di quanto atteso sulla base dell’incidenza età specifica nella popolazione generale (con un significativo deficit per il tumore del polmone ed altri tumori associati al fumo). Non si osservavano eccessi di rischio per le neoplasie d’interesse (tumori cerebrali e del sistema nervoso, delle ghiandole salivari e leucemie), né variazioni del rischio per questi tumori in relazione alla durata dell’uso del telefono, al tempo trascorso dal primo contratto d’utenza, all’età al momento della sottoscrizione del primo contratto e al tipo di cellulare (analogico o digitale).
Commentando i risultati dello studio, gli autori fanno notare che "il periodo di latenza potrebbe essere troppo breve per evidenziare un effetto su stadi precoci o un effetto sui tumori cerebrali a più lenta crescita" (Johansen et al. 2001). Analoghe considerazioni valgono anche per gli studi caso-controllo svedese e nordamericani (Hardell et al. 1999; Muscat et al. 1999; Inskip et al. 2001). D’altra parte, come è stato sottolineato in un commento agli studi epidemiologici più recenti, "nonostante questi limiti, appare ragionevole concludere che l’esposizione alle radiofrequenze da telefoni cellulari non sembra promuovere la crescita di preesistenti lesioni cerebrali, in quanto il recente e intenso uso del cellulare da parte di un gran numero di soggetti inclusi nella coorte danese avrebbe evidenziato eventuali effetti negativi" (Nelson 2001).
Nel complesso, gli studi epidemiologici e di laboratorio condotti fino ad oggi sembrano escludere con ragionevole grado d’affidabilità che i telefoni cellulari possano provocare il cancro, almeno per durate d’uso fino a 5 anni.
Nel 1997 un gruppo di esperti dell’UE ha raccomandato lo sviluppo di ricerche epidemiologiche nei riguardi di possibili effetti sanitari avversi associati all’uso di radiotelefoni. Sulla base di questa raccomandazione, la IARC ha avviato uno studio epidemiologico internazionale finalizzato a valutare l’ipotesi che all’uso del cellulare si associ un incremento dell’incidenza di tumori nel distretto cervico-encefalico, nel nervo acustico, nella parotide e nell’encefalo. A questo studio l’Italia partecipa attraverso il coinvolgimento dell’Istituto Superiore di Sanità (Lagorio et al. 2001).
I risultati della letteratura pertinente agli effetti a lungo termine dei campi a radiofrequenza sono stati raccolti e analizzati in ampi articoli di rassegna (Moulder et al. 1999, Royal Society of Canada 1999, IEGMP 2000, MES 2001). Le valutazioni complessive coincidono con quelle espresse dall’OMS, secondo la quale "una revisione dei dati scientifici svolta dall'OMS nell'ambito del Progetto Internazionale CEM ha concluso che, sulla base della letteratura attuale, non c'è nessuna evidenza convincente che l'esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza abbrevi la durata della vita umana, né che induca o favorisca il cancro".
In definitiva, l’interpretazione complessiva delle evidenze epidemiologiche e sperimentali relative allo studio dell’associazione fra esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenze e microonde ed insorgenza di effetti a lungo termine è resa problematica da diverse questioni.
In primo luogo vanno sottolineati, in questo settore, il grande intervallo di frequenze considerate e l’eterogeneità delle modalità di emissione e di esposizione a differenza di quanto avviene per i campi a frequenze estremamente basse. Rientrano, ad esempio, in questo ambito le esposizioni connesse con la presenza di impianti per emittenza radiotelevisiva, apparecchiature industriali quali saldatrici e incollatrici, impianti fissi per la telefonia mobile e telefoni cellulari, radar.
Un secondo problema è rappresentato dall’eterogeneità degli effetti sanitari che sono stati posti in relazione con le esposizioni in esame, trattandosi spesso di dati forniti da isolati studi esplorativi: da un lato incrementi del rischio di leucemia tra gli esposti a radiofrequenze per ragioni professionali e/o ambientali, dall’altro segnalazioni di possibili alterazioni ematologiche, effetti cromosomici ed esiti riproduttivi sfavorevoli in particolari gruppi ad alta esposizione, oppure di altri effetti, principalmente a carico del sistema nervoso centrale e del sistema cardiovascolare, o di quadri sintomatologici aspecifici in gruppi di lavoratori o singoli soggetti della popolazione generale.
Un’analoga eterogeneità si riflette anche sui disegni di studio e sui protocolli adottati, contribuendo a rendere difficoltosa la comparazione dei risultati; inoltre si può osservare che i protocolli impiegati sono caratterizzati da metodologie di valutazione dell’esposizione relativamente grossolane (ad esempio, solo il titolo professionale o la sola residenza), da assenza di procedure per la valutazione di fattori di confondimento e da dimensioni numeriche inadeguate.
Va, infine osservato che vi è scarsa riproducibilità dei risultati anche nei pochi casi in cui si confrontano studi che hanno affrontato con protocolli comparabili situazioni sostanzialmente analoghe.
Alla luce dei problemi suddetti, gli studi epidemiologici disponibili sono da considerarsi di numero, qualità, consistenza o potenza statistica insufficienti per permettere conclusioni relativamente alla presenza o assenza di una correlazione tra l’esposizione ai tipici livelli delle radiofrequenze e microonde presenti negli ambienti di vita e di lavoro e l’insorgenza di effetti sanitari a lungo termine che, comunque, ad oggi non trovano una loro plausibilità biologica negli esperimenti di laboratorio.
Conclusioni
In conclusione, è possibile indicare una coerente associazione tra esposizioni a campi magnetici alla frequenza di rete e rischio di leucemie infantili, ma l’esistenza di una relazione causa-effetto non è stata provata. Molto probabilmente con i numerosi studi ad oggi effettuati è stato raggiunto un livello d’incertezza che potremmo definire intrinseco. Come rimarcato da diversi autori, ulteriori informazioni potranno essere ottenute solo attraverso studi in grado di coinvolgere livelli d’esposizione molto elevati. Da questo punto di vista si è in attesa di conoscere i risultati di un vasto studio attualmente in corso di svolgimento in Giappone.
Per quanto riguarda i campi a radiofrequenza e microonde, non sembra sussistere alcuna indicazione coerente di associazioni a forme tumorali e, per questioni intrinseche alle modalità d’esposizione, è scarsa l’attesa in relazione ai risultati di possibile future indagini epidemiologiche residenziali. Date le modalità ed i livelli d’esposizione e la diffusione sempre più grande del loro utilizzo, approfondimenti devono sicuramente essere svolti in futuro nei riguardi dei telefoni cellulari.
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