Inventario
La solidarietà
Titolo del pannello senza titolo
Sezione LA SOLIDARIETÀ
Numerazione mostra 1
Testo: a cura di Simonetta Vella pubblicato nel catalogo “Alluvione trent'anni dopo” a pp. 34-36 (testo integrale pp. 34-37).
Nel pannello ci sono due fotografie in B/N:
- una donna, con foulard, gonna chiara, scarponi e cappotto nero, indica qualcosa con il braccio teso e l'indice proteso ad un uomo (volontario nelle operazioni di soccorso), con cuffia a pon pon, abito sporco di fango e stivali, con pala e cestino di vimini, sul terreno spessa coltre di fango.
- 7 giovani volontari, vestiti con giubbotti e stivali, portano in spalla pane in sacchi di plastica e pale per spalare il fango.
Entrambe le fotografie sono pubblicate ne Alluvione trent'anni dopo”, p. 38.
Testo del pannello, pubblicato nel catalogo Alluvione trent'anni dopo”, pp. 34-36:
La solidarietà
(testo di Simonetta Vella, fotografie di Franco Antonaci)
Il fragore della valanga d'acqua che nella notte del 2 novembre si è abbattuta sulle vallate del Biellese orientale spazzando via case, uomini e fabbriche, distruggendo “in una notte il lavoro di tre generazioni” non si è ancora del tutto spento, che già che da mille rivoli affluiscono nel Biellese centinaia di ragazzi e ragazze, giovani e anziani.
Accorrono sui luoghi del disastro in treno, in macchina, sui camion; si presentano attrezzati o muniti solo di buona volontà, organizzati o alla spicciolata; vengono dalla Lombardia e dalla Toscana, dall'Emilia e dal Veneto, dal Friuli, dal Trentino, dalla Liguria o dalle zone del Piemonte graziate dalle violente piogge di quei giorni , e da tutto il Biellese: sono i volontari, che fin dal giorno successivo al disastro si mettono a disposizione dei centri di coordinamento delle squadre di soccorso per cercare di salvare chi può trovarsi ancora intrappolato dalle macerie, per riaprire strade interrotte, per liberare dal fango ciò che può essere ancora utilizzato.
È pressoché impossibile precisare il numero di coloro che accorsero per dare una mano: in qui giorni di caos, nessuno si prende la briga di contarli, di censirli: c'è altro a cui pensare.
Gli inviati dei giornali dell'epoca descrivono scenari apocalittici: nella fabbriche distrutte della Valle Strona, della Valle Sessera e del Triverese “guazzano nel fango vecchi operai, giovani tessitrici e il padrone (…) per recuperare scorte, manufatti, materie prime e macchinari dove il danno non è stato gravissimo”.
Fin dalle prime ore, accanto ai Vigili del Fuoco, ai Carabinieri, all'Esercito e al Genio, lavorano, dandosi continuamente il cambio, diecine di squadre di volontari che contribuiscono in modo determinante a far si che la fase di emergenza duri poco più di una settimana, tanto da fare dire all'allora Commissario Prefetto Migliore che “l'organizzazione dei soccorsi è senza dubbio... migliore di quella che potrei allestire io” e che avrebbe limitato il proprio intervento istituzionale alla “azione di coordinamento tra l'iniziativa principale e le altre minori sorte successivamente”. Ciò che rimane impresso nella memoria di chi ha vissuto quei giorni concitati e drammatici è la presenza di tanti giovani.
“Questi giovani – si legge in un giornale locale dell'11 novembre – che da 4- giorni lavorano ininterrottamente nel fango, hanno dormito su giacigli di ripiego, lavorato con pesanti attrezzi, trasportato pesi, mangiato saltuariamente”, non di rado, “crollati” sotto il peso della fatica e dei disagi, vengono ricoverati negli ospedali, accanto alle vittime delle prime ore.
Quello che induce gli allievi dell'Istituto tecnico “Modigliani” di Udine con il loro professore a spalar fango a Pistolesa per una settimana è lo stesso movente che solo due anni prima aveva spinto ragazzi di tutta l'Europa, Biella compresa, a Firenze: salvare un patrimonio di tutti. Nel momento dell'emergenza una comunità riacquista di colpo coscienza dei propri legami.
Sono soprattutto studenti medi e universitari.
È il 1968. Un anno che apre una nuova stagione politica e sociale. Il fremito di ribellione che comincia a percorrere le scuole italiane si manifesta anche così: con un generale sentimento di fratellanza e di solidarietà, che aveva fatto la sua “prova generale” nelle strade e nelle biblioteche, negli scantinati dei musei e nelle chiese del capoluogo toscano.
In questi due anni è successo qualche cosa che “colora” la solidarietà giovanile nel Biellese, che fa sì che n questa folla ci siano i “segni” di una appartenenza: è la fascia rossa al braccio il contrassegno dei ragazzi del movimento studentesco che, aderendo al Comitato costituito dalla Camera del Lavoro coi partiti e le associazioni della sinistra, cerano un contatto diretto con gli operai, tentando di dare un senso ”politico” alla propria presenza; non mancano delusioni e tensioni: tacciati di “strumentalizzazione”, spesso non riescono a varcare i cancelli delle fabbriche, ostacolati dagli industriali, come si legge nei volantini di denuncia diffusi davanti alle scuole di Biella.
È la fascia azzurra il segno distintivo dei giovani cattolici, il cui punto di riferimento è l'Opera Diocesana di Biella, che oltre a raccogliere fondi e generi di prima necessità accoglie e coordina gruppi Scout e dell'Azione cattolica provenienti da Mestre, Trento, Vigevano, Torino, Rivoli, Legnano, Pisa, Milano, Varese, Pavia, Como. I gruppi di Gioventù studentesca (ora Comunione e Liberazione) della Lombardia sono guidati da Roberto Forimigoni.
Nei giorni dell'emergenza le assenze nelle scuole superiori di Biella si aggirano tra il 50 al 90%. Spiccano per la loro attività gli allievi dell'ITI e dell'IPI. In quei primi giorni gli studenti sono il “nerbo delle iniziative di solidarietà”. Non solo si recano sui luoghi dell'alluvione, ma per giorni e giorni “girano per la città e per i paesi per procurare mezzi di soccorso e sottoscrizioni”. Solo l'11 novembre le lezioni riprendono regolarmente.
Tra le tante testimonianze proponiamo quella di Donatella Fedozzi: “Frequentavo il liceo scientifico di Biella e, come in tante altre scuole, ci siamo mobilitati per venire a dare una mano alla gente. Siamo arrivati due giorni dopo su camion militari. Il ricordo più drammatico è quello delle bare allineate sotto ad un capannone (…) Poi siamo entrati a Valle Mosso e ricordo il segno dell'acqua e del fango, che raggiungeva l'altezza delle finestre e delle vetrine. Siamo andati a liberare le cantine e le scale di una casa vicino a Venalba. Siamo rimasti tre o quattro giorni, la sera si tornava a casa con un viaggio che durava due o tre ore, tra ponti crollati e code d'auto. Si mangiava con i militari, oppure a tavola con i proprietari delle case dove si lavorare. Il sentimento predominante della gente era la voglia di riprendersi, di ricostruire; c'era anche rabbia; non tante lacrime, invece, né autocommiserazione”.