“A subia!”, per chi suona la campana… o la sirena
[da "Eco di Biella" del 5 settembre 2022, Danilo Craveia]
Ieri, oggi e domani
Il suono della fabbrica nel Biellese va collocato nella sua giusta dimensione storica. Il DocBi Centro Studi Biellesi, ai tempi della mostra La fabbrica e la foresta (2000), aveva misurato e mappato il paesaggio sonoro dell’industria biellese. Quella misura e quella mappatura, oggi, appaiono ampiamente superate dai fatti. Fatti che, non serve dirlo, riguardano la scomparsa di buona parte di quei suoni. Le sirene non suonano più, così come le ciminiere non fanno più fumo. Tuttavia, non si tratta soltanto di constatare la necrosi tissutale di una ampia porzione dell’organismo industriale biellese, ma anche di cogliere i segni della sua ancora più ampia e vitale trasformazione. Giovanni Vachino, in occasione della mostra, scriveva: “anche se i suoni prodotti dalle macchine nei luoghi di lavoro […] vengono oggi giustamente limitati da tutta una serie di regolamenti estremamente severi […], qualche sirena è stata mantenuta in funzione, soprattutto, ritengo, per tenere viva una radicata tradizione”. Vero. Ma oggi è cambiato anche altro. Sono cambiati il lavoro, il modo vivere e di intendere il lavoro, sono cambiati i lavoratori e i datori di lavoro. Per lo smartworking non servono sirene e per i turni basta WhatsApp…
Da piccolo pensavo che il suono della sirena della Filatura di Tollegno uscisse dalla sua ciminiera. Tra le palazzine del villaggio operaio arrivavano nitidi i richiami al lavoro quotidiano per gran parte dei suoi abitanti. Poi ho imparato che la sirena era posizionata da tutt’altra parte e che la ciminiera era solo il camino della caldaia della fabbrica, ma quella impressione mi è rimasta. È di un errore di prospettiva non solo visiva e non soltanto acustica, ma anche formale, cioè architettonica. Solo dal punto dominante dello stabilimento poteva venire quel rumore crescente poi stabile poi decrescente, come uno sforzo strenuo che non poteva essere mantenuto più a lungo. Cercarne lassù l’origine è come condurre lo sguardo guidato dai timpani mentre rintoccano le campane: si cerca la sommità del campanile. In effetti, questa è anche una storia di campane, tanto vale anticiparlo.
Ma per raccontarla tutta per bene è necessario tornare alle sirene. Sono loro, con il loro “subié”, ad aver modellato il paesaggio sonoro del Biellese. Questo è un fatto, ma anche in questo ambito sussiste un evidente errore di prospettiva. In questo caso di carattere storico. Ed è l’errore che si commette quando a un dato periodo, non così ampio, si conferisce valore cronologico assai più esteso, come se la realtà di un certo momento fosse già quella molto prima. Così capita che le sirene risultano attive praticamente da sempre solo perché le si è sempre sentite suonare. Ma ciò che è verissimo per il 1950 e per il 1960 è, invece, meno vero per il 1910 e, addirittura, piuttosto falso per il 1880. Delineare un sistema acustico strutturato e basato sulle sirene “moderne” riguarda un modello valido per l’ultimo secolo (quasi), con deroghe locali (aree precoci e altre meno). In ogni caso le sirene “moderne”, ovvero quelle che sono state udite da persone in vita o da chi oggi avrebbe cento anni, sono state e sono tutte elettro-meccaniche. Già in epoche remote esistevano sirene esclusivamente meccaniche, come quelle di Cagniard de la Tour, di Savart, di Seebeck ecc., ma non adeguate per produrre suoni tanto potenti da farsi intendere a lunga distanza e al di sopra del brusio di una città, per quanto piccola, come Biella. Questo significa che in assenza di elettricità quel tipo di strumenti non poteva essere impiegato. Se si considera che l’elettricità nel Biellese è arrivata alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, ma solo come “luce”, mentre la “forza” ha raggiunto l’area urbana e le valli solo negli anni successivi e, anche in questo contesto, con sensibili differenze, la diffusione di quei segnalatori acustici va collocata non prima del 1900. Ma è una stima molto generosa, perché i documenti testimoniano una affermazione assai più tarda. Ciò è dovuto al fatto che le sirene delle fabbriche biellesi erano prima e restarono per l’inizio del Novecento dei semplici acutissimi e altissimi sibili di vapore. Sì, come quelli delle locomotive ferroviarie. È da allora che “a subia”, ovvero “fischia”. La sirena elettro-meccanica tutto fa tranne fischiare, mentre quello del vapore è proprio un fischio. Problema risolto? Niente affatto.
Se pensassimo che l’Ottocento industriale sia stato l’era dei fischi di vapore che ritmavano l’inizio e la fine dei turni di lavoro ripeteremmo l’errore di cui sopra alterando con l’immaginazione uditiva il reale svolgersi degli eventi. A cominciare dal fatto che non tutti gli opifici avevano, nel XIX secolo, impianti per la produzione di vapore. In altre parole, non avevano caldaie e/o affini. I nostri avi sentirono il primo fischio di vapore quando il primo treno arrivò a Biella nel 1856. Il che non significa che fino a quel momento in città e nelle valli non ci fossero caldaie (fondamentali per scaldare l’acqua indispensabile per la tintura della lana e del cotone), ma quelle che erano in esercizio non erano dedicate alla generazione di suoni. I pochi stabilimenti industriali dotati di tali impianti lo sono a partire dagli anni Ottanta. Carducci, che nel 1898 esaltava i nostrani “camini a l’opera fumanti” aveva osservato delle presenze non così longeve. La veduta di Biella da San Girolamo del 1849 mostra una città del tutto priva di ciminiere, così come le prime immagini fotografiche disponibili (Giuseppe Venanzio Sella, Vittorio Besso). Le ciminiere, cioè le grandi caldaie, si contano numerose, ma solo dal 1895-1900 in poi. Nelle cartoline postali, per esempio, che sono di quell’epoca e non precedenti. Il discorso è valido anche per le vallate, specialmente per quelle del Cervo (Tollegno e Miagliano) e dello Strona (Valle Mosso). Va da sé, perciò, che il tempo del vapore usabile o effettivamente usato per “subié”, è stato a tutti gli effetti breve. E prima? Prima c’erano le campane. Quali campane? Senz’altro quelle delle fabbriche (alcune sono ancora al loro posto, come le due sovrapposte sul bellissimo ingresso della Manifattura di Lane di Borgosesia, citate nel “Regolamento interno” del 1874), ma prima ancora quelle delle chiese. In origine non c’era bisogno di avere “tempi” differenti. I campanili erano sufficientemente affidabili per fornire indicazioni cronologiche utili ai primi opifici. Solo la necessità di far rispettare i rigidi regolamenti di fabbrica, da una parte, e la volontà di distinguere un tempo “operoso” da quello “religioso” (il tempo “laico” della campana civica di certi comuni, come Biella, nell’Ottocento incideva ormai solo relativamente), dall’altra, diedero impulso all’installazione delle campane nelle o sulle fabbriche. Quella del lanificio mossese “P.A.S.” del 1834, con il motto “Ondeggia senza sommergermi” (rivolto non alla campana, ma alla sorte…) è un esemplare precoce e significativo.
Ne seguirono molte altre, che risuonarono a Biella e nelle “ubere convalli” anche quando il vapore avrebbe potuto sostituirle. Nel 1867 quella del Lanificio Garbaccio (era dove poi sorse il Lanificio Giuseppe Rivetti, capannone rossastro, zona ex Biverbanca in via Carso) suonò per avvisare di un audace furto di panni. Nel 1894 quella del Lanificio Maron Pot di Trivero diede l’allarme per un incendio. Fino a quell’epoca nessuna notizia di sirene. Certo, nel 1890, “quel fuochista della macchina a vapore della fabbrica Rivetti a Mirabella farebbe opera meritoria a diminuire di molto il prolungato fischio della sua macchina, il quale dà noia ed assorda tutto il vicinato e molti altri di non poco distanti” (“Eco dell’Industria” del 31 luglio 1890), ma non si trattava di un richiamo, bensì di uno sfiato. E si arriva al Novecento. Sciopero nel Cotonificio Poma di Miagliano. Da “La Tribuna Biellese” del 2 dicembre 1900: “Martedì il fischio della fabbrica chiamava gli scioperanti al lavoro e voi ricordate che, essendo corsa la parola d’ordine, nessuno lavorava […]. Un secondo fischio ordinava lo sgombro delle camerate, e lo sciopero ricominciò, fra la disapprovazione di tutti”. Nel 1903 la ditta Poma-Coda del Piazzo (Bottalino) aveva ancora la campana in perfetta efficienza per allertare del pericolo del fuoco. Solo nel 1916 il primo riferimento diretto, a mezzo stampa, a una sirena nell’esercizio delle sue funzioni: Lanificio Successori Sella e C.ia di Valle Mosso (ricorrenza del XX Settembre con la Grande Guerra in corso). Così come era accaduto per le campane, a quel punto le sirene elettro-meccaniche spuntarono come funghi (e ne hanno un po’ l’aspetto). “Noi soneremo le nostre campane” rispose Pier Capponi a quel trombone di Carlo VIII. Così la pensarono i pionieri dell’industria locale imitandosi tra loro, cercando di prevalere sugli altri anche a colpi di battacchio, provando a distinguersi dallo scampanare dei preti e da quello della concorrenza. Ma quel sovrapporsi di suoni, nel quale ogni operaio riconosceva il “suo”, era anche un segno giornaliero di solidarietà di casta. E tale rimase anche dopo, nel secondo Dopoguerra, quando le sirene, molto simili a quelle dell’antiaerea, scandivano tempi e metodi del vivere feriale. Quello festivo, a Dio piacendo, era ancora pulsato a strattoni di corda dai campanari delle parrocchie. Il suono delle campane, prima, e quello delle sirene, poi, era ed è come il fumo delle ciminiere. Era ed è un segno di vita. Urlo e sbuffo indicano che la fabbrica vive e che la comunità vive. Un tempo, nemmeno così remoto, era chiaro per chi suonava la campana. O la sirena. Ma oggi? E domani? Non torneranno i giorni dell’infanzia col pensiero che la ciminiera della Filatura di Tollegno fosse una lunga e profonda sirena.