Breve discussa storia del Lanificio Faudella di Pavignano
da "Eco di Biella" del 1 luglio 2024
La famiglia di Alfonso Faudella fu tutta attiva in ambito tessile, almeno all’epoca dell’avvio dell’azienda. Oltre al primogenito Virginio (morto sessantacinquenne nel 1959), bersagliere combattente della Grande Guerra, il fondatore Alfonso fu Agostino, trasmise la passione imprenditoriale agli altri figli. Agostino (1893-1984), Giuseppe (1900-1970), Francesco (1907-1987), Eugenio (1910-1986) e Luigi (morto nel 1999). Il marchio commerciale “Lanifau”, che riguardava la produzione di tessuti per donna (laneria), era piuttosto conosciuto nel secondo Dopoguerra e alcune inserzioni pubblicitarie di allora tramandano l’attività della ditta. L’acronimo “FF” (Fratelli Faudella) che sormonta uno spicchio di mondo inscritto in un sigillo. A volte compare un piccolo ragno, emblema dei tessitori. Poi le grafiche tipiche di allora, colorate ma discrete, mai chiassose né pretenziose. La pubblicità non prometteva più di quanto la casa potesse e sapesse fare. A titolo di curiosità va segnalato che una delle più belle e suggestive fotografie della “Peregrinatio Mariae” del 1949 fu scattata proprio nello stabilimento di Pavignano, con due tessitrici accanto al loro telaio addobbato per festeggiare il passaggio della Madonna d’Oropa nella fabbrica Faudella.
Finiva il 1972 e finiva anche la storia dei lanieri Faudella di Pavignano. Una storia che era iniziata appena dopo la Prima Guerra Mondiale, una storia imprenditoriale travagliata che, oggi, è testimoniata solo da una cospicua volumetria industriale, per lo più inutilizzata, e da qualche notizia disponibile sul portale della Rete Archivi Biellesi (retearchivibiellesi.it). Negli ultimi anni di attività, i Faudella avevano chiuso una dietro l’altra le varie aziende che avevano costituito per differenziare la produzione e per distinguerle da quella principale segnata da una complicata quanto nefasta vicenda giudiziaria. Nella primavera del 1972 la Lanerie di Pavignano S.p.A. era in liquidazione (liquidatore Gian Carlo Faudella). Il 31 dicembre 1971 era cessata la Lanifici Faudella S.p.A., quella ragione sociale primaria, fondata nel 1952, che più di tutte aveva subito le conseguenze di un evento occorso durante la Seconda Guerra Mondiale che ne aveva compromesso l’esistenza. La Manifattura Lantex (socio accomandatario Agostino Faudella) era già fallita nel 1962 (anche e soprattutto a causa di un dirigente infedele che aveva sottratto somme significative). Di altre aziende di cui i Faudella erano titolari (Carfil e SITAB) si erano già perse le tracce. Andrea Coda Bertetto, nel suo libro L’industria biellese (1984), scriveva che “Alfonso Faudella era un suonatore di musica per organi che, nel 1919, volle intraprendere la carriera industriale acquistando un lanificio impiantato nel 1911 dai soci Cartotti, Tamagno e Paoletti a Pavignano in un vecchio mulino sulla sponda del Cervo. Si unirono presto alla sua attività i figli maggiori Agostino, Giuseppe e Virginio che cedettero più tardi l’azienda ai fratelli minori Francesco, Luigi ed Eugenio. Nel corso della seconda guerra mondiale il lanificio fu seriamente danneggiato per azioni belliche e presto ricostruito; il fatto diede origine nel dopoguerra ad una lunga vicenda giudiziaria con le Società assicuratrici. La Ditta ne uscì soccombente e, forse a causa di ciò, dovette più tardi cessare l’attività”.
C’è una piccola imprecisione: il Paoletti citato come socio fondatore era, in realtà, il Lanificio Paoletti di Follina (Treviso) che si insediò, sfollato per vicinanza al fronte, in quello che sarebbe diventato il Lanificio Fratelli Faudella. Alfonso Faudella morì alla metà di maggio del 1951. “Era nato a Pavignano nel 1864 ed era entrato giovanissimo fra gli impiegati del Cappellificio Davella di Andorno, dove si distinse subito per attività e intelligenza. Nel 1919, subito dopo la prima guerra mondiale, il cappellificio Davella cessò la sua attività e Alfonso Faudella pensò a rilevare una piccola azienda di filatura e tessitura esistente in Pavignano. Della sua grossa nidiata di figli i tre maggiori erano già nel campo laniero e si strinsero attorno al padre portando nell’azienda le loro conoscenze tecniche e il loro giovanile entusiasmo. L’azienda sotto la guida del padre e la direzione dei figli Virginio, Agostino e Giuseppe, cominciò ad ingrandirsi. Poi anche gli altri figli crebbero ed a potenziare la fabbrica si aggiunsero Francesco, Eugenio, Luigi e Pierina mentre Carmen andava sposa molto giovane. Alfonso Faudella vide così la piccola azienda del 1919, pur tra le difficoltà e le alterne vicende dei tempi non sempre facili, farsi ogni giorno più grande fino ad essere l’odierno imponente complesso laniero. Gli anni parevano non pesare a questo vegliardo che era facile incontrare ora in questo ora in quel reparto della sua fabbrica dritto sulla persona, vigile e cordiale con tutti, con quei suoi occhi ridenti che spiravano serenità e pacatezza d’animo”. Il ritratto dell’imprenditore apparso su questo giornale il 17 maggio 1951 si completa con la nota di Ernesto Martiner Bot pubblicata su “il Biellese” di due giorni prima.
Ne emergevano i tratti di un uomo di successo, ma “rimasto umile” e di profondi sentimenti religiosi nonché di generoso spirito caritativo. La morte gli risparmiò il dolore di vedere la sua impresa distrutta in tribunale. Fin dal 1937, i figli Virginio, Francesco, Eugenio e Luigi avevano fondato la ditta “Lanificio di Pavignano”, senza che il vecchio Alfonso ne facesse più parte, ma il patriarca non era stato messo da parte, anzi. Dalla fondazione e per tutto il Ventennio, la fabbrica ebbe modo di sperimentare furti e incidenti (uno mortale nel 1938), ma i Faudella non fecero mai mancare il loro supporto alle iniziative benefiche cittadine. Venuto meno il padre, nel 1952, i figli si riorganizzarono costituendo la società per azioni di cui sopra, che durò fino al 1972. Domenica 15 novembre 1959, moriva in un incidente stradale il primogenito, Virginio. Fu un duro colpo, anche perché in quel momento l’azienda era nel mezzo della sua esiziale esperienza giudiziaria. Nel 1943 un incendio aveva provocato ingenti danni alla fabbrica e i Faudella erano stati risarciti. Ma grazie alle testimonianze di alcuni partigiani (Gemisto in primis), il fatto aveva assunto contorni nuovi, ossia che si era trattato di un’azione di sabotaggio visto che i Faudella (come tutti i lanifici biellesi, ovviamente) lavoravano per la Repubblica Sociale e per la germanica Wermacht. Quelle dichiarazioni, che ridefinivano l’incendio come atto bellico (quindi non risarcibile), avevano indotto le compagnie di assicurazione a intentare causa contro i Faudella perché restituissero, con tutti gli interessi, i soldi avuti in tempo di guerra. In sede civile passò la linea delle compagnie di assicurazione e la cifra da versare era piuttosto consistente. Ragion per cui, i Faudella avevano tentato di alzare il livello dello scontro per non vedere lesi quelli che ritenevano i loro diritti. La Cassazione aveva rigettato il loro ricorso e allora “i titolari del Lanificio di Pavignano hanno presentato denuncia penale a Milano contro nove compagnie di assicurazione accusandole, nella lunga vertenza civile conclusasi a favore di queste ultime, di aver prodotto prove e testimonianze false. Con questo mezzo, ossia inficiando in sede penale la correttezza del comportamento delle società assicuratrici” (da “Eco di Biella” del 12 marzo 1953). Nel frattempo, si diffusero le inevitabili voci che volevano l’incendio “autodoloso”, ossia appiccato dagli stessi Faudella per riscuotere fraudolentemente denari non dovuti. In fase penale, le società assicuratrici sostennero di aver risarcito i danni del 1943 sotto pressione dell’invasore tedesco e tennero il punto circa la versione bellica, per la quale non era previsto risarcimento alcuno.
La questione non era affatto specifica, ossia si era di fronte a una situazione generale. Fatti come quello di Pavignano si erano verificati ovunque e alcuni giornali si occuparono di quello stato delle cose: la dichiarazione di danno di guerra estesa con disinvoltura avrebbe generato un grande vantaggio economico alle compagnie di assicurazione, ma avrebbe causato la rovina di tanti assicurati. Nel 1962 il procedimento era stato trasferito a Casale Monferrato con caratteristiche diverse rispetto all’assetto iniziale. C’era un imputato per l’incendio doloso e c’erano ancora anche le due tesi giudiziarie contrapposte: i Faudella contro le compagnie di assicurazione, ma il contesto di fondo era cambiato. La sentenza pronunciata diede, in effetti, una lettura differente rispetto alle premesse comunicate a mezzo stampa. Così, da queste colonne, il 19 aprile 1962: “I sei imputati del processo per l’incendio del lanificio di Pavignano sono stati riconosciuti colpevoli di autocalunnia e condannati. Il tribunale ha inflitto due anni di reclusione all’industriale Francesco Faudella e ad Angelo Marchisio; un anno e nove mesi a Mario Antonietti, venti mesi all’avv. Domenico Bodo, quindici mesi ad Angelo Isidoro Zanchi e quattordici a Luigi Moranino. Tutte le pene sono interamente condonate”. Il Marchisio fu scagionato dall’accusa di incendio doloso pluriaggravato (si era incolpato da solo o era stato indotto a farlo per far cadere la tesi del danno di guerra?). Restava da capire chi davvero fosse stato ad appiccare il fuoco e perché (naturalmente circolò anche la voce del “autodolo”, ma finirono presto: i Faudella erano persone serie), ma non era quello l’aspetto più rilevante. L’aspetto più rilevante era quello dei tanti milioni di lire che i Faudella erano dunque tenuti a sborsare e, a seguito dell’esito del contenzioso, il danno d’immagine cagionato dalla sentenza definitiva. Tennero duro per quasi dieci anni, poi dovettero cedere.