Carte intestate, archeologia industriale della pubblicità
Piccole opere d’arte, 500 i fregi tipografici censiti dal DocBi. Dalla metà dell’Ottocento le fabbriche biellesi, ma non solo... Non solo immagini: iscrizioni, decori, “siti web” ante litteram [da "Eco di Biella" del 25 aprile 2022, Danilo Craveia]
L’epoca d’oro delle carte intestate lo fu anche per le tipografie (biellesi) che le stampavano. Almeno quindici ditte, più o meno grandi, erano attive in quel settore specifico, a Biella (dove cambiavano sede continuamente o subentravano l’una all’altra) e in Vallestrona. Dall’immancabile Amosso a Giuseppe Testa, da Antonio Chiorino ad Angelo Porrino, e poi Magliola, Ferrara (che stampava il socialista “Corriere Biellese” in piazza Lamarmora, ma che fu gradita anche ai fascisti), Marone, gli israeliti Ovazza e Michele Waimberg (o Weinberg, il cui figlio Giuseppe finì i suoi giorni da deportato ad Auschwitz). Ovazza e Waimberg erano soci, tra Otto e Novecento. Dai loro torchi (in via Umberto 82, casa Gualino) nasceva la liberale “Tribuna Biellese”. La Tipografia Operaia nel 1885 stampò le “Antichità biellesi” di Giuseppe Maffei. Felice Marone, invece, morì a soli 51 anni nel 1936. Dapprima in società con Ramella, la sua tipografia in via dell’Ospedale era una delle più rinomate. Antonio Chiorino aveva le sue macchine in via San Filippo, al numero 10. Da cui usciva “Biella Cattolica”, tra il 1893 e il 1896. E molto altro. Prima di lui i cattolici si servivano da Angelo Porrino (piazza Cavour, casa Levis). Fu quest’ultimo a cedere la sua attività al Chiorino.
Il crescente interesse per la storia d’impresa e l’altrettanto crescente interesse delle imprese per la loro storia non possono tralasciare un tipo di documenti particolari, anzi una parte peculiare di documenti che non debbono più essere considerati “solo” per il loro contenuto, bensì in quanto contenitori. L’idea di una catalogazione delle carte intestate biellesi è piuttosto datata. Da anni, ormai, nell’ambito del Centro Rete Biellese Archivi Tessili e Moda, si lavora su questo tema. Tema che riguarda i fogli destinati alla corrispondenza, alle fatture e ad altra documentazione aziendale, commerciale, istituzionale, privata, in qualche modo ufficiale, “decorati” con fregi tipografici (semplici cornici, ghirlande più o meno elaborate, veri e propri disegni e rappresentazioni grafiche inerenti il soggetto o la sua attività). Le carte intestate, in uso tuttora, hanno avuto il loro “momento d’oro” tra la metà dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale.
In quel periodo sulle lettere e sui documenti di ditte più o meno individuali, e di enti e istituti vari sono state stampate piccole opere d’arte, che risentivano del gusto e degli stili in voga nelle varie epoche (dal Liberty, all’Eclettismo, al Futurismo ecc.). I fregi tipografici potevano riguardare gli alfabeti, ovvero i caratteri di testo, segni diversi, caratteri per avvisi, filetteria, indicazioni relative al materiale bianco (spaziatura, quadratura, marginatura), ma anche caratteri fantasia, scritture modificate, inglesi, gotici, iniziali ecc. I fregi propriamente detti si riferivano ai contorni, ai fondi, agli angoli ecc. I disegni, invece, erano più correttamente indicati come vignette (in nero e a colori) e potevano contenere medaglie di esposizioni e stemmi araldici, illustrazioni di vario tipo, raffigurazioni dei prodotti delle ditte, ma anche panoramiche degli stabilimenti, vetrine di negozi, ritratti di persone ecc. Specialmente nel DocBi Centro Studi Biellesi, grazie all’input iniziale di Giovanni Vachino (che ha raccolto non pochi “pezzi” di pregio) e di altri collezionisti del “giro”, si è potuto avviare una prima campagna di acquisizione digitale e di schedatura di circa mille fogli, tutti relativi al Biellese, reperendoli nei fondi archivistici del Centro di Documentazione dell’Industria Tessile (Fabbrica della Ruota) e del Centro di Documentazione della Camera del Lavoro. Allora fu l’applicativo della Regione Piemonte Guarini Archivi 2.0 ad accogliere i risultati di quel pionieristico cantiere. Più recentemente, nell’ambito del progetto Tessuto Storico Biellese (prima e seconda parte), sotto l’egida della Provincia di Biella e con il fondamentale contributo della Regione Piemonte, il discorso è stato ripreso e raffinato. Quattro anni fa, con l’intervento di Marinella Bianco, Genni Giatti, Chiara Savio e di chi scrive, si è arrivati a una selezione di 500 carte intestate (per la precisione 490 cui sommare alcune variazioni sul tema) di carattere squisitamente tessile, meccano-tessile o diversamente tessile. Tutte di contesto biellese, per il periodo 1844-1966. Adesso è giunto il momento di rendere pubblici gli esiti di quella operazione che, ovviamente, resta “in corso”, perché sempre nuovi elementi si aggiungono al novero. Per dare un’occhiata è sufficiente andare sul portale archivitessili.biella.it e cercare “carte intestate”. Le occorrenze trovate possono essere filtrate, oppure cliccando su una delle schede è possibile accedere all’inventario generale.
La raccolta propone 309 “pezzi” del DocBi e 181 della Camera del Lavoro. Di quest’ultima, 87 carte intestate provengono dal Fondo Delsignore. A titolo metodologico si segnala che sono state rilevate anche le tipografie che hanno prodotto le carte intestate censite, ma solo quando tali tipografie erano riconducibili all’area biellese. Per concludere questa breve presentazione è importante rilevare che le carte intestate non sono soltanto dei fogli decorati, più o meno belli da vedere. Si tratta, in realtà del segno di una conquista, quella della borghesia (alta, media e bassa) nei confronti di sovrani e papi, di nobili ed ecclesiastici, di paesi e di comunità, che da sempre potevano fregiare i loro documenti. La rivoluzione industriale (anche in termini tecnici ed economici riferibili alle tipografie) ha permesso ai lavoratori di tutti i livelli e a quelle realtà tanto utili alla società quanto anonime, di darsi un… tono, ovvero un marchio, un’iscrizione, una riconoscibilità. Nelle carte intestate c’è tanto orgoglio e non solo l’anima del commercio. Che fosse di un grande lanificio o di una piccola macelleria, che fosse di un avvocato o di un decoratore, di un medico o di una società di mutuo soccorso, il fregio tipografico era emblema identitario e, in qualche caso, di parità di genere, perché anche le donne imprenditrici avevano le loro carte intestate. E nel solco dell’eterna dialettica tra mezzo e messaggio, le carte intestate non portavano solo il nome dell’intestatario, ma spesso anche la raffigurazione grafica della sua attività. Il che non è poca cosa se, con un po’ di astrazione, sottraiamo al mondo Internet e i social. Anzi, le carte intestate si presentano come dei veri e propri siti web: la “pagina” di questi ultimi, specialmente quelli commerciali, deve molto all’impostazione delle prime. Il lavoro ha offerto diversi spunti di riflessione e ha permesso, tanto per fare un esempio, di scoprire ragioni sociali del tutto obliate. Tali scoperte hanno poi innescato altri percorsi di ricerca. A cominciare dai prevedibili nessi con la schedatura delle fabbriche, più o meno antiche, che il DocBi sta portando avanti da tempo (negli ultimi due anni anche con il progetto Fotofabbrica Biellese che sta dando notevoli quanto sorprendenti frutti). Proprio in ottica architettonica si può esemplificare il valore di questo censimento. Molte carte intestate raffigurano stabilimenti produttivi a una certa data. Non di rado quelle fabbriche non esistono più. Basta citare il Lanificio F. Lora Totino di Pray o il grandioso Maglieficio A. Boglietti di Biella o la tintoria Enrico Hübner di Gaglianico con le sue sei ciminiere. In altri casi il discorso riguarda l’evoluzione degli stessi complessi industriali, ingranditi, ridotti, modificati. Ecco allora le citate ciminiere, sempre fumanti alla Carducci, e le ramme accanto agli shed o alle più antiche strutture manchesteriane. E in qualche caso si riconoscono la roggia, il salto d’acqua e i sistemi teledinamici (come quello del Lanificio Fratelli Zignone della Vallefredda, come a dire l’odierna Fabbrica della Ruota), ma anche le prime cabine elettriche che esordivano nel paesaggio industriale nei primi del Novecento. C’è poi la questione, non secondaria, della “veridicità” di quelle rappresentazioni. Diversamente dalla fotografia (che nelle carte intestate appare con molta meno frequenza proprio perché veritiera per definizione), la restituzione grafica consentiva una certa libertà, addirittura portata fino alla interpretazione della realtà. Ma era un codice non messo in discussione dagli abbellimenti o dalle palesi esagerazioni. Piccoli opifici erano trasformati in fabbriconi e dove non c’era altro se non un sedime di incerto utilizzo, ecco il giardino all’italiana con l’immancabile fontana (vedasi Fratelli Garlanda a Campore di Valle Mosso o alla Filatura Biellese tra Biella e Gaglianico).
Le fabbriche delle carte intestate sono sempre “animate”: oltre al fumo che ne attesta la febbrile attività, uomini, carri e animali da tiro erano “ritratti” nell’esercizio delle loro funzioni. E se da quelle parti correva la ferrovia, una locomotiva passava guarda caso in quel momento, trainando un bel numero di vagoni (Filatura Fratelli Strona di Vigliano Biellese o Lanificio Luigi Reda di Lessona). Altro elemento molto presente nelle carte intestate è quello dei loghi e degli stemmi. A volte si tratta di veri e propri monogrammi di gusto ricercato (Filatura Fratelli Zegna e C., Lanificio Bertolino, Rivetti e Ribatto entrambi di Valle Mosso, per esempio). In altri fregi tipografici compaiono, invece, delle figure umane (le tipiche pastorelle filatrici) o animali: pecore, leoni, aquile, pupazzi (bello il gomitolo antropomorfo delle Manifatture Lesna di Biella). La carta intestata racchiude quindi particolari indicazioni per la nostra storia d’impresa. Preziose informazioni su persone, luoghi, e date altrimenti di faticoso recupero attraverso fonti tradizionali, mentre lo studio della parte figurata, dalle allegorie più complesse ai più semplici grafismi decorativi, può fornire le basi per ricostruire l’origine della moderna comunicazione d’impresa, in un ideale percorso verso una “archeologia industriale della pubblicità”.