Fotofabbrica biellese
Campagna di rilevamento fotografico del paesaggio e del patrimonio industriale biellese al 2021<br /> da "Eco di Biella" del 1° febbraio 2021 [Danilo Craveia]
Comincia oggi [1° febbraio 2021] ufficialmente “Fotofabbrica”, la campagna di rilevamento fotografico del patrimonio e del paesaggio industriale biellese al 2021. L’idea è del DocBi Centro Studi Biellesi che, in seno al Centro Rete Biellese Archivi Tessili e Moda, intende “fotografare”, per l’appunto, il Biellese industriale seguendo le buone pratiche del censimento topografico, sul terreno, e della schedatura sistematica dei manufatti. L’invito lanciato sui social e attraverso i contatti con i fotografi attivi localmente ha dato frutti insperati (soprattutto considerando la situazione in essere) e c’è molto entusiasmo, e voglia di cominciare. Appena sarà possibile, ovviamente. Il DocBi, in qualità di referente territoriale di Camera Centro Italiano per la Fotografia di Torino per il Censimento delle raccolte fotografiche in Italia (un progetto del Ministero dei beni e delle attività culturali e dell’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), ha voluto coinvolgere l’importante realtà torinese per poter contare su un supporto tecnico di indiscutibile competenza e per qualificare al meglio una iniziativa ambiziosa e a tutti gli effetti “storica”.
Gli amatori della fotografia che si sono offerti per questo compito, tutt’altro che rapido e semplice, avranno a disposizione tutto il 2021 per documentare gli edifici industriali biellesi e le loro “pertinenze” (per esempio i villaggi operai, ma anche le strutture ausiliarie, come le rogge, le centraline elettriche, i resti delle linee ferroviarie ecc.). In questo anno si prenderà atto di un cambiamento inevitabile e irreversibile del quale si è tutti consapevoli. E tale acquisita conoscenza sarà trasmessa, in forma di schede digitali, alle nuove generazioni, in modo che la consapevolezza di oggi diventi opportunità e possibilità di scelta domani. I partecipanti al progetto “Fotofabbrica biellese” hanno sottoscritto un’adesione a un metodo di lavoro che il DocBi ha sperimentato molte volte nelle sue campagne di censimento e che, nello specifico, deriva dal rilevamento degli antichi opifici effettuato tra il 2000 e il 2002. Quella rilevazione, già di per sé notevole, adesso può essere aggiornata, integrata e migliorata grazie a nuove tecnologie (dalla geolocalizzazione alla condivisione in tempo reale sul web e tramite app) e avrà il valore aggiunto della bravura dei fotografi resisi disponibili. Che avranno ampio margine di creatività, al netto di un certo numero di scatti destinati alla più oggettiva documentazione dello stato di fatto degli stabili.
Ovviamente la campagna avrà finalità esclusivamente culturali e non commerciali. Al limite turistiche, non appena i biellesi si accorgeranno davvero della ricchezza che non sfruttano in termini di attrattiva turistica. Perdurando (da circa un secolo…) la fase dialettico-progettuale, in attesa di vedere quella fattiva, si è reso necessario affrontare il problema della verifica in situ con un’operazione di ampia portata che consentirà di sviluppare una mappatura il più possibile completa e omogenea della situazione. Soprattutto per valutare l’affermarsi di quella “nuova estetica” della fabbrica che, a dire il vero, così nuova non è più (se non si considerano gli ampliamenti dell’esistente, le fabbriche davvero “nuove” hanno quasi tutte almeno qualche decennio). E di testimoniare gli effetti provocati dalla sparizione delle fabbriche che hanno lasciato “orfani estetici” (oltre ad aver provocato danni economici e occupazionali più che rilevanti) interi centri abitati o aree rurali che, ormai da tempo, si devono misurare con la difficoltà della gestione di quelle volumetrie: dalla loro messa in sicurezza allo smaltimento delle macerie. In questo senso i “vuoti a perdere” di Riccardo Poma sono senza dubbio vuoti (o quasi), ma più che altro fanno perdere, perchè il costo sociale di tutti quei “fossili cristallizzati nel tempo”, per dirla con Maurizio Pellegrini e Beppe Anderi, è ancora tutto da pagare.
Al momento si tampona, con pezze spesso peggiori dei buchi, con progettualità sempre più iperboliche e impraticabili, con l’unico risultato atteso di rimandare e di passare la mano. Le fabbriche esplorate da Gabriele Basilico sono le stesse dal 1989 e molte altre, da esplorare, si sono aggiunte in questi trentadue anni. Alcune non esistono più e anche questo i nuovi esploratori dovranno mappare, ovvero riconoscere la sottrazione e la sostituzione (spesso, e non c’è nulla di male ma è cosa su cui riflettere, con un supermercato o un centro commerciale: dove prima i soldi si guadagnavano, adesso si spendono o si spenderanno…). Il tema del confronto con la rimozione e con la trasformazione è tra i più significativi, perché potrà essere trattato grazie al confronto con il cospicuo patrimonio fotografico esistente. Svelando così, oltre alle differenze, anche l’abitudine (persa) di fotografare le fabbriche come elemento vitale del contesto. La dominante, invece, è una scelta, anche in questo caso, di rimozione o di trasformazione. Si fotografano, in realtà, solo i ruderi, i sensi di colpa, i “j’accuse” di tutti contro tutti per un Biellese morto e scheletrito, svuotato di azione e di senso. Su questa base si trova tutta una letteratura, anche piuttosto fotografica, di genere. Un genere tutto nostro, dapprima celebrativo, fatto di album e di libri che, all’inizio del Novecento, già guardavano indietro e cercavano quelle “fabbriche formato cartolina” che rassicuravano il Biellese dell’avvenire. E da allora quante volte si è replicato il modello? Tante, ma ad un certo punto (dagli anni Ottanta), con una variazione sul tema. Prima la fabbrica era viva e si fotografava in quanto tale, poi, preso atto di come l’industria abbia accelerato il processo che porta alla dimensione archeologica, la fabbrica si è fotografata e si fotografa morta, anzi nemmeno più come fabbrica, ma solo in quanto fabbricato. È sempre difettato, tuttavia, lo sguardo d’insieme, il respiro ampio che solo il rilievo sistematico e il database possono produrre. In questo caso si tratta di unire due spiriti: quello scientifico e quello artistico. Sarà una bella esperienza. Anche perché c’è un’altra fabbrica, c’è sempre un’altra fabbrica (lo ha anticipato la mostra su Giuseppe Venanzio Sella, basta aprire la visuale rispetto alla “macchina”), ed è, come qualunque altra cosa, una questione di epoche e di gusti. Ci sono stabilimenti molto recenti che sono interessanti tanto quanto quelli più antichi. E non solo dal punto di vista fotografico. L’archeologia industriale è un concetto scivoloso, tant’è che si è evoluto e assestato rapidamente su un’altra accezione, a dire il vero non meno liquida, che riguarda il patrimonio industriale. E che dire del paesaggio industriale, cioè un altro modo di vedere la stessa cosa. Tre modalità di intendere e di interpretare un territorio (come il nostro) che ha avuto, ha e avrà a che fare con l’industrializzazione e con i suoi effetti, le sue assenze e le sue persistenze.
Ecco perchè il patrimonio, il paesaggio, il territorio industriale non sono soltanto ciò che è stato. Ma manca una effettiva conoscenza di ciò che è. Di ciò che il Novecento, specialmente nella sua seconda metà, ha portato nel Biellese che ancora viveva di fabbriche antiche: lo sradicamento dalle vallate, il travaso in pianura, il tramonto degli shed e l’alba del prefabbricato, il diverso rapporto con le fonti di energia e con l’inquinamento, la orizzontalizzazione dei moduli, appiattiti e castrati delle ciminiere, l’allontanamento dagli antichi pascoli e l’avvicinamento alla confezione e alla moda (Novara e Milano), la illusoria modernità e la squallida postmodernità dei capannoni nati vecchi e la riqualificazione degli spazi, che restano troppi da reinventare. Dalla Fabbrica della Ruota a Cittadellarte, dal Boussu-Pria a Casa Zegna, dall’Ovattificio Bracco alle concerie del Vernato, dalla ex Bozzalla e Lesna a quanto rimane del complesso Barberis di Candelo, “Fotofabbrica biellese” non è non sarà soltanto un safari nel Jurassic Park nostrano. È e sarà anche l’acquisizione di uno strumento di lavoro per la “pianificazione” culturale (lato sensu) del Biellese che, se vorrà, potrà inventare un’attrattiva turistica senza uguali. Con quello sguardo al futuro che gli aveva già rivolto Franco Antonaci e con quella attenzione per la costante metamorfosi che gli ha riservato Lyle Roblin. Il cantiere, che prende avvio oggi, vede coinvolti il Fotogruppo “Noveis” di Guardabosone, il Fotogruppo “Riflessi” di Occhieppo Superiore (www.fotogrupporiflessi.it), Andrea Perino, Francesco Taurisano, Federica Collini, Ezio Poltroneri e Laura Mosca.
Si tratta, oltre che di fotografi in gamba (dilettanti o professionisti, alcuni di loro molto attivi sui social), di volontari appassionati che il DocBi non può che ringraziare, anche e soprattutto coloro che non sono neppure biellesi. Non appena si sarà riacquistata la libertà di movimento, i fotografi affronteranno la porzione di territorio biellese a loro affidato. Singoli e gruppi hanno ricevuto in carico una zona e una “mappa” specifica ricavata da alcuni lavori di cartografia tematica risalente agli anni Trenta (le cartine della Associazione Laniera pubblicate sull’Annuario del 1934) e ai primi anni Sessanta (la mappa del Biellese industriale elaborata dall’arch. Alessandro Trompetto). Di più recente non c’è nulla di usabile, quindi la dotazione di base renderà già di per sé “avvincente” l’impegno dei rilevatori. Quella cartografia sarà poi confrontata con quella satellitare che tutti hanno a disposizione tramite la rete e non mancheranno le sorprese. Sarà quindi un intervento di verifica e si dovranno risolvere differenti problematiche, più o meno prevedibili, per esempio la questione della denominazione (mutevole nel tempo, giuridica, convenzionale ecc.), se non quella più radicale del riconoscimento. Che cosa si sta fotografando? Coda & Maffiotti o Bertrand? Ma qui, appena oltre l’ITI lungo via Ivrea, non c’era la Filatura Borsetti? Ovviamente, si tratterà di applicare delle regole a un articolato sistema di eccezioni. L’altra fabbrica di cui sopra è anche quella che sarà capace di produrre un insieme inedito e unico di immagini, sicuramente diverse migliaia, considerando che i soggetti da riprendere (con un minimo di dieci scatti) sono almeno trecento (sulla carta, per così dire…). La prerogativa di metodo è quella di consegnare almeno cinque immagini “oggettive”, generali, di documentazione. Il resto, altre cinque o più, a disposizione dei fotografi e della loro sensibilità, per esaltare insiemi e dettagli, panoramiche ed elementi minimi, grandangoli e macro.
Ma sempre e solo esterni. L’interno della fabbrica è un’altra fabbrica e, per le finalità di questa azione, ci si concentrerà su tutto quanto è visibile da fuori. Tutte queste immagini, anche nel caso di sovrapposizioni dei soggetti, saranno inserite nel portale del Centro Rete e su quello della Fabbrica della Ruota, a disposizione del mondo (anche attraverso il citato sito del Censimento delle raccolte fotografiche in Italia) e a servizio del Biellese. Gli autori saranno sempre esplicitati e anche lo svolgimento del progetto sarà documentato in modo che resti traccia anche del “come” e non solo del “cosa”. Le schede descrittive degli immobili sono in parte già fatte, in parte da fare, e in questo il processo sarà allineato e concordato. La mappatura è già attiva e sarà integrata via via. I risultati si vedranno, per quanto possibile, crescere durante la campagna stessa. Alla fine, nel 2022, il prodotto della fabbrica fotografica avrà la sua vetrina. In questo il DocBi e il Centro Rete si affideranno a Camera per la raffinazione del materiale e per la realizzazione di una premiante occasione espositiva. I fotografi si muoveranno sulla “Strada della lana”, anzi su quel fascio di strade, quella matassa di percorsi che innerva tutto il Biellese e che è, per sua natura, in permanente assetto variabile. Se la “Strada della lana”, quella “storica”, è stata tracciata dal DocBi già molti anni addietro, si deve immaginare di tracciarne altre, parallele e concordi, ma anche intersecanti, che seguono altre direzioni di sviluppo, e non più soltanto come la trama che legava Biella a Borgosesia, ma anche come tanti fili d’ordito che si intrecciano a quella trama, passando dalle vallate alla piana.
Dove i torrenti hanno trascinato con loro le fabbriche, lasciandole poi sulle sponde, in mezzo ai prati, a sedimentare in attesa delle prossime piene. Si evidenzierà così una industrializzazione dell’ultima generazione, si documenterà l’espansione e la contrazione delle attività produttive che hanno segnato il paesaggio/territorio, spesso manifestando il fenomeno a partire dall’interno delle singole fabbriche. Il primitivo nucleo ottocentesco manchesteriano così bene intonato all’ambiente circostante, le aggiunte dissonanti, “brutte”, ma funzionali a maggiori sforzi quantitativi, a diversificazioni produttive, a tentativi non sempre efficaci. E poi gli abbandoni, le aree adiacenti dismesse, cedute in locazione, riqualificate o semplicemente ignorate a un passo da quelle ancora in esercizio. La fabbrica che asseconda il proprio organismo in cerca di superficie senza architettura, di volumi senza anima. Poi la regressione. Le macchine, meno per numero e più performanti, abbisognano di minori strutture e restano i gusci. A dimostrare quanto sia rapido il degrado del non uso. La fabbrica è il paradosso dell’usura che non consuma, ma che, al contrario, mantiene i corpi. L’obsolescenza è inesorabile e rapida in ragione direttamente proporzionale alla modernità del fabbricato. Gli stabilimenti più antichi invecchiano meglio, più lentamente. Quelli più giovani, nel repentino salto dalla prefabbricazione alla defabbricazione, soffrono di senescenza precoce. Si dovrebbe avere il coraggio, specialmente per gli esemplari più fragili, quelli a pannelli assemblati coi bulloni, senza conci di pietra e senza intonaci, senz’arte né parte, senza storia, di applicare una pietosa eutanasia estetica. In città, ma soprattutto lungo le arterie principali (per quanto non manchino esempi anche nelle valli), c’è molto “patrimonio” di cui si potrebbe fare a meno. Di cui basterebbero alcune foto ben fatte per garantire il minimo sindacale della memoria. Forse “Fotofabbrica biellese” servirà anche a prendere qualche saggia decisione in questo senso. Il paesaggio biellese, per presentarsi al meglio, necessita di un po’ di Photoshop. Per farlo nella realtà occorrono le ruspe, ma il principio è lo stesso. Fotoritocco edilizio, urbanistico, paesaggistico. Come si migliorano le fotografie, così può migliorare il posto in cui si vive: documentando tutto per salvare e per valorizzare quel che merita. Dunque, buon clic a tutti.