Futurista, per un folgorante istante, il cappello biellese
di Danilo Craveia, da "Eco di Biella" del 26 novembre 2018
Biella si (ri)scopre futurista. Venerdì prossimo (30 novembre 2018) allo Spazio Cultura della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella sarà inaugurata una mostra dedicata al pittore Franco Costa. A seguire il simposio gastro-culturale a tema a Palazzo Gromo Losa. Ancora ispirata dall’ispirato Marinetti, la città dei telai dal ritmo instancabile tributa tuttora omaggi all’arte nata nel 1909 e che per definizione brama il domani come macchina divoratrice indomita la cui estetica tachicardica e “la modernolatria di Boccioni e Sant’Elia” non smettono di provare a seppellire accanitamente i “letterati amici delle biblioteche e dei sentimentalismi stagnanti“. Così avrebbe scritto un futurista: concetti limpidi e refrattari, soprattutto contro la punteggiatura, sopravvalutata e superata. Niente può fermare il domani tecnico e veloce, figurarsi una virgola, un due punti o un punto fermo. Mai! Quando il vate del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, scrisse la sua celeberrima pagina sui telai di Biella (“Biella – concludeva il poeta – sarà la biella della nuova letteratura dei tecnicismi“) correva come una locomotiva verso il baratro l’anno XV dell’Era Fascista, come a dire il 1937. E i futuristi non erano già più “quelli di una volta” (il manifesto del 1909 era ormai lontano e gli stessi membri del movimento parlavano di Neofuturismo o di Secondo Futurismo) e avevano già seppellito accanitamente anche alcune delle loro stesse trovate più geniali. Nel 1933 era nato, vissuto e, di fatto, morto il cappello futurista.
Una parabola di quel tipo, una fiammata, l’auge e l’oblio, erano un percorso in perfetto stile futurista, più a suo agio con le provocazioni suggestive che con le “cose” concrete e durature, ma tant’è. Con la fulmicotonante esperienza del cappello futurista ebbero a che fare anche alcuni biellesi. Da qualche mese la questione ha destato curiosità, ma sulla adesione dei cappellai biellesi all’iniziativa futurista sussiste non poca confusione e incertezza. È quindi venuto il momento di provare a mettere un po’ d’ordine seguendo le tracce lasciate da quella bella storia nelle biblioteche. Anche a costo di far infuriare la buonanima di Marinetti, che per sua stessa ammissione non amava i depositi librari dai quali, però, non si può prescindere per avere ragguagli su come i futuristi volevano mettere il “futuro” non solo nella, ma anche sulla testa dell’umanità. In effetti la ricerca non è stata nè breve nè semplice, ed è stato solo grazie a una biblioteca, anzi due (la Biblioteca Civica di Biella e la Biblioteca Nazionale di Firenze), che si è reso possibile il recupero delle informazioni necessarie. Là dove gli archivi hanno fallito (dalle analisi di alcuni inventari non sono emerse tracce in merito, il che significa che non si sono conservate in zona carte relative al cappello futurista), le biblioteche hanno dimostrato, anche a Marinetti, che il futuro, prima o poi, diventa passato e che servono luoghi idonei per custodirne le testimonianze. Ecco allora la linea del tempo con i fatti più rimarchevoli entro cui inserire il contributo biellese alla causa del copricapo che avrebbe dovuto cambiare la sezione e il prospetto dell’uomo moderno. Il 5 marzo 1933 il settimanale “Futurismo” pubblicò in prima pagina il “Manifesto futurista del cappello italiano” (già uscito sulla “Gazzetta del Popolo” il 26 febbraio) sottoscritto da Filippo Tommaso Marinetti, Francesco Monarchi, Enrico Prampolini e Mino Somenzi. Il manifesto è un inno alla supremazia italiana, non solo come creatrice di eleganza, ma anche in quanto razza creativa tout court. Il cappello, come il resto dell’abbigliamento e degli accessori, doveva rimarcare in tutto il mondo quella italica superiorità di linee, di cromie e di materie. Nazionalismo e moda, ideologia e stile, politica ed eleganza.
Insieme al manifesto i promotori dell’idea lanciarono anche il concorso per la produzione di modelli di cappelli futuristi: “Il Movimento Futurista Italiano esorta tutti i fabbricanti italiani a rinnovare progettisti, tecnici, maestranze e macchinario per realizzare gli immancabili risultati del seguente concorso che ha per scopo la rinascita della nostra grande industria del cappello“. Senza frapporre indugi venne nominata una giuria (presieduta dal solito onnipresente Marinetti) che avrebbe scelto “i bozzetti eccellenti per originalità, estetica, praticità, igiene, realizzabilità, e ne offrirà al pubblico l’esposizione alla Mostra della Moda Italiana di Torino“. L’appuntamento di Torino era fissato per aprile, cioè solo un mese dopo. Troppo poco tempo anche per quei frenetici demiurghi dei futuristi (che comunque avevano suscitato un certo interesse, tanto che il 12 marzo potevano annunciare il propizio endorsement di Giacomo Balla che aveva promesso di realizzare il bozzetto del cappello antigas). Il 12 aprile 1933 fu aperta la mostra torinese alla quale presero parte anche le nostre ditte Barbisio e Cervo, ma con le loro produzioni “normali”, non connotate esplicitamente come elementi futuristi (Barbisio colse l’occasione per presentare il suo nuovo modello estivo “Verelyte”). Ma su questo punto specifico si tornerà tra qualche riga. In ogni caso, in attesa di dare il giusto rilievo al concorso, i redattori di “Futurismo” misero in atto una vera e propria campagna “pro cappello”, con titoli quanto mai espliciti, del tipo “La signorile eleganza dell’uomo col cappello e l’aspetto miserabile di quelli a testa nuda”. D’altro canto “il primato mondiale del cappello italiano è stato per molto tempo assoluto. Recentemente, per esterofilia e per mal intesa igiene, molti giovani italiani adottarono l’uso americano e teutonico della testa nuda“. Nel frattempo, la premiata ditta Marinetti & Co., niente affatto scoraggiata dal mancato accesso ai saloni torinesi, decise di organizzare una sua mostra monotematica, tutta in onore del cappello futurista. Intanto l’entusiasmo degli antipassatisti era stato, ravvivato dall’adesione al progetto da parte di Borsalino, il più importante fabbricante di cappelli a livello nazionale, e, in tutta Italia, spinti anche dal desiderio di emulare o superare il “colosso” di Alessandria, si erano mossi altri produttori, modellisti e stilisti ante litteram per fornire i bozzetti richiesti dal concorso. “Tra i venti tipi di cappello proposti, sono degni di nota il cappello notturno, per la sera, il cappello veloce per l’uso quotidiano, il cappello solare, il luminoso segnalatore, i difensivo, il cappello fonico, il radiotelefonico e il terapeutico“. In previsione della kermesse “cappellistica” in programma a giugno a Milano, la prima pagina del “Futurismo” si scatenò con grafiche e titoli impossibili da ignorare. Il 26 marzo: “Fare a meno del cappello non è eleganza ma sciatteria“, oppure “Motivi di igiene: il non uso del cappello è causa di malattia” e “Motivi di dignità per noi stessi e per coloro che ci sono vicini“, senza contare “L’adesione delle madri italiane al nostro progetto per il cappello dei giovani“. Il 2 aprile: “Tradizionalismo nelle forme e monotonia nei colori: ecco le cause vere della crisi che affligge l’industria del cappello” e da questo assunto la “Necessità di rinnovarsi“, avendo presente che “Il cappello è l’uomo“. Quest’ultimo pezzo è un vero monumento (anche) lessicale e val la pena di trarne una citazione: “il futurismo deve attraversare una crisi di buon gusto e di buon umore, se or vuole al bando e condannare a morte il cappello com’è oggi […]. Il cappello è l’uomo. Gli dà il profilo, l’espressione, il carattere. Il modo di ficcarsi su la testa un cappello o di rialzare le falde, attesta uno stato d’animo“. D’altronde “effetto di esterofilia son queste zazzere a cresta dura o a chioma luccicante, più o meno virili, più o meno aggressive, più o meno dotte. E poi vi sono i calvi – luminosi ma tristi – gli stempiati, e quelli che non vanno a testa nuda perchè è rimasta abbruciacchiata dall’ardore del pensiero e dei baci della consorte“… Tutti ottimi motivi per portare un cappello! Finalmente, il 23 aprile, “La grande industria biellese del comm. Basilio Barbisio aderisce alla nostra campagna per il cappello italiano e in gara con la ditta Borsalino preannuncia le prime realizzazioni futuriste“. Ma è solo l’inizio.
Il 30 aprile: “La battaglia da noi ingaggiata per la rinascita dell’industria italiana del cappello è stata coronata dalla più completa vittoria“. Sotto il titolone una riga annunciava che a Roma si sarebbe iniziata di lì a breve una serie di mostre, ma i redattori del “Futurismo” non avevano informazioni sicure (come detto la sede prescelta fu poi meneghina). Ma su quella stessa prima pagina (accanto a un articolo di “Avvisi ai senzacappello” nel quale si segnalava il lavoro di ricerca di un certo professor Oliver della Howard University che stabiliva una correlazione diretta tra teste scoperte e gravi malattie neurologiche) si può leggere una colonna e mezza sulla “Industria Barbisio”. In quel pezzo veniva presentata la figura dell’imprenditore saglianese, neo Cavaliere del Lavoro, definito “il vero tipo del self-made man“. Basilio Barbisio aveva dichiarato di essere disposto a realizzare “alcuni suoi modelli di copricapo futuristi“. Stando al settimanale “il cav. Basilio Barbisio è uno di quegli uomini che, se fossero più abbondanti, costituirebbero da soli la fortuna di una Nazione nel campo della produttività industriale. La sua ditta, il suo materiale risentono indubbiamente delle qualità dell’uomo che li anima: perciò la sua fabbrica è un modello di serietà e di onestà, i suoi prodotti, modelli di perfezione“. Il guanto… anzi il cappello di sfida al senatore Teresio Borsalino era stato lanciato. Il numero del 4 giugno è da non perdere. Non tanto per quel “Per Monza allarme” relativo all’industria del feltro brianzola in continua espansione, quanto piuttosto per la spassosa “Micrologia dei senzacappello“, una summa di fenomenologia psicosomatica, iconoclastica e stigmatizzante di tutti quei reietti della società e subumani da barzelletta che osavano non coprirsi degnamente il capo. E dopo tanto attendere, il 17 giugno, “alle ore 15 di questo pomeriggio S. E. Marinetti alla presenza di un folto pubblico e di numerose autorità milanesi ha inaugurato nelle Sale della Galleria Pesaro la Mostra del nuovo cappello italiano alla quale partecipano cinque espositori con ben 50 modelli realizzati e una trentina di bozzetti. Gli industriali che hanno partecipato alla riuscita della mostra sono i seguenti: Cervo, Barbisio, Magnani, Fabrizi e Saratti“.
A dispetto dei proclami, brillava per assenza Borsalino. Dieci giorni dopo lo stesso organo futurista decretò il trionfo del nuovo cappello italiano. Gloria ricelebrata anche il 9 luglio, con tanto di fotografie in prima pagina. Peccato che le immagini che testimoniano i corner di Barbisio e Cervo non siano molto chiare, ma vale il principio statistico: le due ditte biellesi rappresentarono il 40% del successo dell’iniziativa e per quel folgorante istante il cappello biellese fu futurista. Tra le forme quasi indistinte della stampa tipografica nelle fotografie si indovinano i tratti di un cartello vetrina celeberrimo, quello di Gino Boccasile, quello del “Bantam” con l’uomo sorridente, il capo reclinato a destra e il cappello verde fluo, di sicuro non “monotono” a dar colore di speranza a un mondo grigio. Se si deve assegnare un certificato di stile futurista, quel “Bantam” se lo merita tutto, anche perchè il figurino alle sue spalle segnala che quel cappello non è solo estetico, ma è anche elastico: lo si piega e lo si mette in tasca (per quelle rare volte che si deve stare a capo scoperto!). Bello, si fa notare ed è anche funzionale: futurista doc! Così come il “Verelyte” di Barbisio, il cui cartellone pubblicitario fa da sfondo alla fotografia dello stand. Un po’ meno stiloso di quello del competitor locale, ma comunque non fuori tema. Purtroppo non è possibile stabilire quali modelli furono approntati ad hoc e quali, invece, furono “ribattezzati” alla bisogna come futuristi. Anche le biblioteche hanno esaurito la loro spinta energetico-mnemonica, mentre gli archivi, come detto, giacevano già prostrati dall’incuria e da scarti frettolosi e improvvidi. Tuttavia, almeno per il “Bantam” si potrebbe osare un riconoscimento ufficiale, o quasi, come un vero e proprio prodotto futurista, cioè nato espressamente per il concorso di Marinetti e soci. O quasi. In effetti il “Bantam” vide la luce esattamente in quei giorni. Il nome deriva dal suo peso esiguo mutuato dalle categorie della boxe: bantam sta per “gallo” (Bantam è una città giavanese famosa anche per i suoi tipici galletti ruspanti che si chiamano appunto bantam), cioè un boxeur dal fisico leggero. Il cappello della ditta Cervo lo era. Come detto, la réclame illustrava che lo si poteva riporre piegato in saccoccia senza danni. Il deposito del marchio “Bantam” risale al 1° marzo 1933, cioè in concomitanza dell’uscita del “Manifesto” di cui sopra. Coincidenza? Molto probabile. Difficile credere che a Sagliano si siano inventati un prodotto e un marchio in poche ore. Però è possibile che l’iniziativa dei futuristi abbia accelerato le operazioni e, soprattutto, che i gerenti della Cervo non si siano fatti sfuggire l’occasione di “agganciare” la loro novità al clamore che si stava facendo a livello nazionale. Inoltre è positivamente “sospetto” quel “creazione speciale” che campeggia nella stessa definizione di brevetto di marchio. Sa di treno in corsa preso al volo… Il che farebbe onore all’azienda che poi, del “Bantam”, ha saputo fare uno dei suoi cavalli di battaglia. Al di là di queste supposizioni (non così campate in aria, ma pur sempre supposizioni) restano due fatti indiscutibili. Il primo: i “Bantam” e i “Verelyte” furono esposti a Palazzo Poldi Pezzoli (la Galleria di Lino Pesaro aveva sede lì, a due passi dalla Scala) in un contesto futurista e furono apprezzati e considerati come futuristi. In questo caso vale più una fotografia sgranata di mille documenti nitidi. Il secondo: le campagne pubblicitarie delle due ditte saglianesi sono molto futuriste. Neofuturiste o secondofuturiste, d’accordo, ma pur sempre inquadrabili in una cornice concettuale e grafica riferibile ai dettami del movimento. A questo punto numerosi indizi fanno più di una prova. Detto ciò, non è difficile capire che la mostra milanese del 1933, di per sè, fu un flop. Pochi espositori, pochi modelli. Troppa fretta organizzativa, troppi facili entusiasmi tipicamente futuristi. Il cappello futurista… non ebbe futuro. Il “Bantam” è rimasto, ma non appesantito da fregi futuristi che lo avrebbero messo fuori moda in un lampo. Però il cappello futurista ha avuto una storia ed è stata scritta anche da due realtà biellesi che oggi, fuse insieme, continuano e rilanciano una prospettiva di lavoro creativo e di eccellenza made in Biella. La fabbrica di Sagliano si è rimessa in moto con le sue macchine performanti e le sue mani sapienti, e di questo anche quel genio di Filippo Tommaso Marinetti non può che essere contento.