Gli statuti di Tollegno del 1428: animali e boschi alla Bruegel
da "Eco di Biella" del 26 giugno 2023 [Danilo Craveia]
Gli statuti tollegnesi del 1428 di cui si tratta nella pagina erano un insieme di regole piuttosto rigide. Per i trasgressori non erano previste pene corporali, ma “solo” multe più o meno pesanti. Oltre al resto, è curioso verificare il sistema monetario di quelle ammende, che vanno dai due soldi pavesi ai dieci ducati ai venticinque fiorini. Ma che cosa significano queste indicazioni? La monetazione di quei tempi, lungi dall’essere unica e uniforme, appare assai complessa. Basti dire che il ducato (d’oro) era la divisa più forte e una multa di dieci ducati era una mazzata capace di portare un contadino sul lastrico (solo chi rifiutava di fare il console senza giusta causa era multato così). Il fiorino valeva un po’ meno del ducato e, nel XV avrebbe perso valore nominale. Venticinque fiorini erano una bella somma (rischiava quell’ammenda chi vendeva immobili tollegnese senza i debiti requisiti). La lira pavese e il suo sottomultiplo, il soldo pavese (venti soldi per fare una lira), erano le monete di corso corrente. Due soldi per i consiglieri comunali che, “ad omnem mandatum consulum interesse credentie et vicinie”, non partecipavano alle riunioni convocate. Resta per specialisti e per numismatici il computo dei cambi tra le varie tipologie.
Ieri il Medioevo è tornato alla Curavecchia di Tollegno. Cogliamo l’occasione per tornare in quell’epoca straordinaria. C’è un antico documento, datato alla Candelora del 1428, che tramanda le norme che i tollegnesi si diedero per vivere in pace. Una raccolta di consuetudini, leggi, tradizioni, usanze. In tutto, ventuno statuti. Forse un po’ pochi, verrebbe da dire, ma in realtà non sappiamo se quella carta sia completa, o solo un appunto, o una trascrizione interrotta. Poco importa, ormai, a sei secoli di distanza non conta più. Si chiamano statuti perché ogni norma inizia (anche se è sottinteso) con “Item statutum est quod…”, allo stesso è stabilito che… Come in molti altri casi analoghi, gli scritti statutari della Comunità di Tollegno erano il risultato di un processo lungo di elaborazione dovuta al susseguirsi di antiche disposizioni e di sempre nuove normative, aggiornate (o quasi) rispetto alla vita che mutava nel tempo. Certi divieti avevano origini immemorabili, altri erano più recenti, ma tutti, ed è questa la cosa più importante, indicavano comportamenti da sanzionare. Il che significa che, con una certa assiduità, certe azioni erano state commesse e, forse, continuavano a esserlo. Lo stesso discorso vale in senso positivo. Le buone pratiche, le sane costumanze che, alla prova empirica avevano offerto la maggior affidabilità, andavano conservate e tramandate. In ogni caso, la lettura degli statuti tollegnesi va fatta in due modalità, ossia quella diretta, per così testuale, e quella indiretta, cioè in chiaroscuro, perché, spesso, l’ipertesto o il “leggere tra le righe” svela elementi che, di primo acchito, possono sfuggire. Possiamo individuare, in quei ventuno statuti, quattro gruppi tematici principali. Le leggi relative al governo della comunità, quelle inerenti alla gestione del territorio, quelle dedicate al bestiame e, in ultimo, quelle riferite alla religiosità. Si tratta, ovviamente, di categorie molto indicative e, per lo più, non così nette nei limiti tematici di cui. Tuttavia, cinque degli statuti si riferiscono all’elezione, ai poteri, alle incompatibilità e ai limiti giurisdizionali dei “consules”, cioè dei due sindaci (chiamiamoli così) che avrebbero retto la cosa pubblica di Tollegno per un anno, a partire dalla festa di San Martino (11 novembre). Alla festa di Ognissanti, all’interno della “Credentia”, cioè del consiglio comunale, sarebbero stati individuati quattro probiviri, ma nell’accezione letterale del termine, cioè uomini onesti, senza pendenze con la giustizia e capaci di svolgere il compito di consoli. Attraverso l’estrazione di un bussolotto contenente fave, sarebbe stato il “capritio”, cioè la sorte, a indicare i due eletti. I primi due che avessero estratto due fave bianche. Non si poteva rifiutare l’incarico e, dopo il giuramento prestato nelle mani del conte Bertodano (nel 1428 Tollegno era stato infeudato da soli sei anni, quindi era in carica il primo conte, Pietro), iniziava l’anno di mandato. Certo, c’erano cause di forza maggiore (come una malattia o un dovere più alto da svolgere) che potevano giustificare non tanto il rifiuto, ma la cessazione dell’esercizio consolare, ma non era il caso di abusare di quelle pur remote opportunità. Comunque, sebbene il paese fosse molto piccolo, c’erano abbastanza uomini per evitare che, chi aveva appena finito la sua annata, rischiasse di essere eletto nuovamente per i seguenti quattro anni. Anzi, questa eventualità era esclusa con apposito statuto. Infine, in caso di morte di un console o di entrambi nel corso delle loro funzioni, non sarebbero stati surrogati dalla “Credentia”, ma dalla famiglia o dalle famiglie. Due altri statuti hanno a che fare con l’amministrazione di Tollegno in quell’ultimo scorcio di Medioevo. Se qualcuno fosse stato chiamato ad “aliquod ofitium vel negotium exercendum” per conto della comunità, non era previsto il sottrarsi al proprio dovere (sempre se non sussistevano situazioni gravi a impedirlo). In particolare, era piuttosto delicato il compito degli “extimatores”. Questi pubblici ufficiali deputati di volta in volta dovevano intervenire con determinazione per verificare eventuali danni subiti da tollegnesi, per mano di compaesani o di forestieri, e agire di conseguenza anche requisendo i beni dei danneggiatori. Beni che, spesso, erano la causa dei danni medesimi, cioè animali sfuggiti al controllo dei pastori.
Ed ecco che la “sezione bestiame” degli statuti si introduce da sola (va detto, però, che le ventuno norme non si presentano in ordine, ma mescolate senza apparente criterio logico). Le bestie allevate erano, è superfluo scriverlo, una delle fondamenta dell’esistenza della comunità tollegnese, come era stato per secoli e come sarà per almeno altri quattro secoli a venire. Però potevano rappresentare anche un possibile problema se non si badava loro correttamente. Nessuna bestia “bovina, cavallina et asenina inventa dantes danpnum in aliquibus seminatis, pratis, inbandatis ac praysiis” (colta in flagranza di reato in campi seminati, prati, fondi soggetti a specifici divieti e le derivazioni d’acqua, come canali, fossi o piccole rogge temporanee) la passava liscia. Capre e maiali non facevano eccezione, e tantomeno le pecore. Pecore = lana? Facile, ma nulla di lontanamente simile a un vero “comparto” tessile locale. Diciamo che poteva esserci un artigianato domestico di autoconsumo, o poco di più. Ma se i danni cagionati dal bestiame risultavano evidenti (e dovevano essere valutati dagli “extimatores”) come si faceva a scoprire i colpevoli, cioè i distratti o gli incauti pastori? Bastava e avanzava la delazione. Il proprietario dei beni danneggiati poteva “acusare contrafacientes et eius acusis credatur iuramento ipsius absque alia probatione”. I contravventori erano accusati dalla parte lesa e alle sue accuse si doveva credere sulla base del giuramento di fronte ai consoli, senza che fosse necessaria nessun’altra prova, purchè si fosse entro i dieci giorni dal fatto. I danni potevano essere arrecati anche a piante, recinti, fieni e fogliame. A questo punto può partire la lettura di secondo livello. Ci immaginiamo varie tipologie di animali da reddito o da lavoro che popolano il paesaggio antropizzato di Tollegno all’inizio del XV (e di chissà quanto prima), ci figuriamo campi e prati, ma anche boschi (non selve selvagge), semplici strutture agricole che rendevano tutte le case delle piccole e povere cascine. Non certo delle grandi stalle moderne, ma luoghi di vita comune tra uomini e bestie. In capanne bruegeliane di legno e frasche, più che di pietra e mattoni. Capre “et fejis” meritavano un ulteriore norma: non potevano avvicinarsi ai castagni e ai castagneti fino alla festa di Ognissanti, quando non potevano più provocare danni gravi agli “arbo” per eccellenza. Tollegno viveva (anche) di castagne, faceva parte di quella “civiltà del castagno” che accomunava tante altre comunità, e quegli alberi andavano difesi da voraci brucatori. Così aggiungiamo un’altra tessera al mosaico vegetale virtuale che ci stiamo costruendo. Le bestie dei forestieri non potevano sostare a Tollegno più di tre notti, a meno che non fossero ben chiuse in un recinto. Un esubero di capi di bestiame incrementava i rischi di danni. Ma questo riferimento suggerisce anche che Tollegno poteva essere sito di transito per le stagionali transumanze. Nel “caricare” gli alpeggi in primavera e nel disalpare per l’inverno, si passava sul territorio tollegnese e, di sicuro, gli antichi tollegnesi traevano profitto dal cedere terreni a quelle mandrie. Ma si doveva stare attenti. Ovviamente anche i transumanti dovevano stare in campana, perché il fatto di essere forestieri non li esimeva dall’incorrere nelle severe sanzioni statutarie applicate per ogni capo. Chi segnalava eventuali comportamenti scorretti intascava un terzo dell’ammenda. Un ulteriore statuto ricordava vigorosamente ai tollegnesi che i recinti per gli animali dovevano essere chiusi, altrimenti tanto valeva lasciar perdere con tutta quella normativa… Possibile che ci fosse tanta incuria? Con tutta evidenza, sì. Perché, sennò, scrivere nero su bianco certe cose? Questi statuti, che hanno anche il taglio dei bandi campestri, potevano anche essere un retaggio del passato, ma se furono scritti o riscritti nel 1428 significa che avevano comunque un valore, quanto meno come deterrente generico. Altrove, senza dubbio, la situazione non poteva essere molto differente. La prossima settimana riprendere da qui.