I cappelli perduti di Tegucigalpa e San Salvador
da "Eco di Biella" del 19 agosto 2024
A parziale integrazione della seconda storia contenuta qui di seguito, quella dei cappelli mai (?) pagati da Abdalah Daboud di San Salvador, si fa notare il coinvolgimento di un’altra azienda biellese che, con tutta evidenza, aveva interessi in El Salvador. Si tratta del Lanificio Fratelli Fila di Coggiola. Fu il Banco Occidental, che forse poteva vantare un credito contro l’impresa coggiolese, a segnalare la concreta possibilità che una porzione di quel credito servisse per pagare quello favorevole al Cappellificio Cervo per conto di Abdalah Daboud. Non andò nel verso giusto. Il Lanificio Fratelli Coggiola non volle accollarsi l’onore e, a sua volta, chiamò in causa la filiale di Biella della Riunione Adriatica di Sicurtà. Si era, però, in un momento complicato. Tra il 1940 e il 1941 i pagamenti in dollari non erano praticabili e, in ogni caso, non era quello il periodo giusto per esporsi in alcun modo perché il pericolo di “rimanere col cerino in mano” era molto reale. Infatti, né i Fila né la RAS riuscirono o vollero intervenire a favore del Cappellificio Cervo. Dieci anni più tardi, come si vede in questa pagina, i denari del Cappellificio Cervo erano ancora al di là dell’Atlantico, anzi sulla sponda del Pacifico.
L’archivio del Cappellificio Cervo si rivela sempre un giacimento fecondo di storie interessanti. Questa volta, i documenti portano in Centro America negli Anni Trenta tramandando due vicende complicate nelle quali, come accade spesso, le situazioni particolari dei singoli si mescolano con le mutevoli condizioni globali. Le due storie che seguono, inoltre, raccontano l’eterno stato di rischio di chi, con audacia e fiducia, commerciava non solo a corto raggio, ma anche su scale geografiche maggiori. Il commercio a grandi distanze, e ancora di più se internazionale, recava insite difficoltà che, oggi, almeno in parte, la diplomazia e la tecnologia ha attenuato, ma che, in altre epoche, erano normali, anzi strutturali. Il Cappellificio Cervo aveva, per il Centro America, un agente rappresentante, il signor Egidio Vigo. Costui, nel febbraio del 1933, passò un ordine da parte della casa Giuliani & Vallone, attiva a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. Il 6 marzo 1933, il signor Vigo aveva trasmesso la commessa a Sagliano Micca per 192 cappelli. Il 17 maggio quanto ordinato fu regolarmente spedito. Istituto di credito d’appoggio per le operazioni commerciali, la filiale cittadina del Banco Atlantida. Gli accordi per la consegna e per il pagamento della merce erano stati sottoscritti da Antonio Vallone, socio unico della suddetta ditta. Quest’ultimo, in data 1° agosto 1933 scrisse al Cappellificio Cervo, dimostrando o simulando una certa sorpresa per le indicazioni stabilite nelle carte di spedizione e di fattura. Sosteneva, infatti, che il citato Egidio Vigo aveva promesso che il prezzo sarebbe stato determinato con un cambio fisso di 19 lire per dollaro e che non sussisteva la clausola del pagamento a vista. Tutte queste notizie sono contenute in una lettera che il Cappellificio Cervo spedì al Regio Consolato Italiano di Tegucigalpa il 5 ottobre 1934, ben più di un anno dopo le prime avvisaglie di quella che, fin da subito, aveva promesso di essere una brutta gatta da pelare. E la promessa, in effetti, si stava mantenendo. Per cogliere i contorni degli eventi occorre compiere un rapido giro d’orizzonte, anche solo per provare a capire che cosa fosse Tegucigalpa nel 1933-1934. La capitale povera di un paese poverissimo, sospesa in una lunga e dolorosa transizione tra l’antico colonialismo spagnolo e il più recente imperialismo USA. Povertà e violenza, corruzione e instabilità sociale. Una repubblica fragile per una terra strategica posta tra Caraibi e Pacifico, a ridosso di Panama. In tutto ciò, gli uomini portavano il cappello e quelli saglianesi si vendevano bene, ma gli imprevisti erano sempre in agguato, come gli oppositori del presidente (sostenuto da Washington), Tiburcio Carías Andino, che aveva preso il potere con l’appoggio dell’esercito, proprio nel 1933. La miseria era endemica e profonda, aggravata dal calo delle esportazioni di banane causato dalla Grande Depressione statunitense. Inoltre, e questo fatto ebbe ripercussioni dirette nelle relazioni commerciali tra la Giuliani e Vallone e il Cappellificio Cervo, gli USA avevano abbandonato il “Gold Standard”. Il valore del dollaro era sceso e il cambio era diventato svantaggioso per il cliente onduregno dei cappellai saglianesi. Con queste premesse, Antonio Vallone, che doveva trovarsi davvero in guai grossi, ma che comunque non si era comportato affatto da gentiluomo nei confronti del fornitore vallecervino, giocò la carta del ribasso. A Sagliano Micca non furono sorpresi più di tanto. Sapevano come girava il mondo e proposero un significativo sconto: da 11.780 a 10.080 lire, cioè il 15%. Non poco. Il Vallone tergiversò, poi comunicò di non voler accettare la proposta riduzione e si impuntò per una dilazione sul pagamento. Stando al Cappellificio Cervo, c’era sotto una certa malafede. Ciurlava nel manico e tentava di pescare nel torbido. Trascorsero alcuni mesi e l’8 giugno del 1934, con tutta calma, Antonio Vallone firmò la tratta ridotta del 15%: per il pagamento al Banco Atlantida e ritirò i cappelli ancora in giacenza alla dogana.
Malgrado tale sottoscrizione inequivocabile, dei soldi nessuna traccia. Anzi, il 3 luglio 1934, il Cappellificio Cervo fu raggiunto da una lettera nella quale era esplicitata tutta la gravità dello stato finanziario del commerciante di Tegucigalpa che, tra l’altro, aveva subito un (sospetto) incendio nel maggio del 1932. In buona sostanza, mancava la sostanza… Vallone non aveva il becco di un quattrino per colpa della crisi che aveva colpito l’Honduras e il suo piano di rientro era un aut aut molto lesivo degli interessi del fornitore saglianese. Da qui l’appello al console Alberto Bellucci. Il 23 ottobre 1934, il rappresentante del Regno d’Italia a Tegucigalpa rispose che il negozio del Vallone era fallito e in liquidazione e invitava il Cappellificio Cervo a non farsi sfuggire l’offerta del cliente di chiudere la partita con 500 lire (in due tranche). Venti volte meno di quanto richiesto in ultima istanza dall’industria cappelliera di Sagliano Micca. Il Banco Atlantida, obbligato in solido a coprire la tratta del Vallone e probabilmente in pessime acque a sua volta, si appoggiò a una banca di New York, la Chemical Bank & Trust Co. invitando il Cappellificio Cervo ad accettare l’ormai chiaro dato di fatto: Vallone era e sarebbe rimasto insolvente. Ma quelli di Sagliano Micca non avevano alcuna intenzione di rassegnarsi. Il 7 novembre 1936, scrissero un’ultima lettera al suddetto console Bellucci invitandolo a sollecitare il Vallone a pagare le 10.080 lire che aveva accettato di pagare, altrimenti non restavano che le vie legali. Altro a riguardo non è conservato agli atti. Come andò a finire? L’evolversi della politica mondiale di quegli anni spazzò via quel credito?
Mentre la questione di Tegucigalpa non accennava a concludersi, a San Salvador, capitale di El Salvador, un’altra grossa grana stava prendendo forma. Le due città distano meno di quattrocento chilometri e, dal punto di vista commerciale, allora si assomigliavano molto. Dal 1931, a capo della piccola repubblica c’era Maximiliano Hernández Martínez, tenuto al comando dello stato dagli yankee. Scenario identico. Economia debole, indigenza diffusa, controllo repressivo dell’esercito. Ai primi di giugno del 1937, cinque colli di cappelli furono spediti da Genova via New York-Panama-La Libertad (porto più prossimo alla destinazione) a tale Abdalah Daboud, negoziante di San Salvador. La spedizione fu curata dalla casa “Oceano” di Genova. Il 12 agosto del 1938, il cliente scrisse una strana missiva al suo fornitore spiegando che il materiale pubblicitario allegato ai cappelli (articoli di reclame che Daboud stesso aveva richiesto) non era conforme al mercato salvadoregno. Stante che, senza adeguata pubblicità quei cappelli non sarebbero mai stati venduti, il negoziante aveva dovuto, a proprie spese, allestire una più adatta campagna di vendita.
Ragion per cui chiedeva uno sconto del 25% sul prezzo complessivo della merce. C’erano in ballo 720,50 dollari americani di debito da onorare a carico del Daboud e a Sagliano Micca non pensarono nemmeno un secondo di incamminarsi sul sentiero segnato dal mercante di San Salvador. Gli avrebbero abbuonato gli interessi decorsi, se avesse pagato al volo (entro la fine di novembre del 1938), ma niente di più. Ma già intuendo che la matassa non si sarebbe dipanata facilmente, il Cappellificio Cervo si affidò a un legale (americano) del posto, Charles F. Rich. Mister Rich, il 15 febbraio del 1939, rassicurò i suoi assistiti affermando che i cappelli saglianesi, i migliori per qualità sulla piazza di tutto El Salvador, erano molto ben conosciuti e non c’era alcuna necessità di pubblicizzarli meglio o più del solito. Abdalah Daboud faceva il furbo e tirava sul prezzo. Seguirono altre lettere, ma non denaro. Fu interessato l’Istituto Nazionale Fascista per il Commercio Estero. Bell’aiuto! Anziché tutelare la ditta italiana, i fascisti non si sognarono nemmeno di fare la voce grossa. Consigliarono al Cappellificio Cervo di scontare del 25% e di ritenersi fortunati in caso di pagamento della somma restante. La diminuzione fu accordata. Poi ci fu la guerra. Ma a Sagliano Micca non si dimenticarono di certo dell’amico Abdalah Daboud. Tuttavia, ancora nel 1950 tanto l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero, quanto il Consolato Italiano di San Salvador scrivevano che c’erano poche speranze… Ecco le storie di quei cappelli perduti.