Il Cappellificio Cervo. Da Sagliano export in tutto il mondo
da "Eco di Biella" del 10 maggio 2021 [Danilo Craveia]
Per il Regno d’Italia, che da quasi tre lustri viveva di dictat littori e che mirava a espandere le esportazioni e a comprimere le importazioni, il “Registro obbligatorio delle esportazioni” costituiva, per le aziende attive negli anni Trenta, un documento fondamentale. Rappresentava la testimonianza in tempo reale dell’adesione (di per sé involontaria) al modello economico e produttivo fascista che voleva imporre il prodotto italiano all’estero, prima, durante e dopo aver saturato il mercato interno, in modo da dover dipendere sempre meno dall’import. L’export misurava il successo di una politica della quale, però, i fascisti si erano (e non era la prima, né l’ultima volta) fregiati, come se le imprese italiane non fossero già state in grado di conquistare i mercati europei e mondiali. Il Cappellificio Cervo, tanto per entrare in argomento, non aveva avuto bisogno di Benito Mussolini per farsi conoscere al di fuori dei confini nazionali. La ditta saglianese, nata nel 1897 in forma di cooperativa, aveva di suo un “giro d’affari” di ampiezza globale, la stessa che potevano vantare gli altri cappellifici in esercizio n Valle Cervo a quei tempi. Ma i “registri obbligatori delle esportazioni” conservati nel prezioso archivio aziendale, che allora avevano valore statistico e, più ancora, politico nell’ottica del regime, adesso ci consentono, più di altri documenti, di riscoprire rotte commerciali, di rievocare nomi e luoghi “dimenticati” e imprevedibili. Di raffrontare un mondo scomparso a quello di oggi, in cui la gente porta ancora il cappello, ma non più come un elemento indispensabile dell’abbigliamento (specialmente maschile), bensì come un accessorio che evidenzia una scelta di gusto e di stile. Le prime registrazioni disponibili risalgono al dicembre del 1934 e si protraggono negli anni successivi. Il periodo risulta ancora più interessante perché è quello delle sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni (in verità, più che altro, dall’Inghilterra) che intendeva punire il Duce per le sue pulsioni colonialistico-imperiali nel Corno d’Africa. Le celeberrime “inique sanzioni” non durarono che pochi mesi (dal 18 novembre 1935 al 14 luglio 1936) e, al di là della loro effettiva efficacia (il re d’Italia divenne comunque imperatore d’Etiopia), si rivelarono una sorprendente leva di consenso e, in ambito commerciale, generarono situazioni complicate e paradossali, ma non sempre negative.
Da un lato c’erano gli inglesi e i filoinglesi che volevano togliere ossigeno all’industria italiana, dall’altro c’erano nazioni tutt’altro che ostili, anche all’epoca delle citate sanzioni. Tant’è che nei registri del Cappellificio Cervo non si trova alcun cliente inglese, ovviamente, mentre ce ne sono altri, molti altri, di tutti i continenti. In un dattiloscritto a corredo dei medesimi registri si legge che nel 1919, l’anno della pace dopo la Grande Guerra, i cappelli prodotti a Sagliano Micca erano stati circa 116.500. Dieci anni dopo, nel 1929, poco meno di 150.000. Nel 1936 quasi 165.000. E 225.000 nel 1940. Certo, non tutti uscirono dall’Italia e sarebbe utile stabilire quanto le commesse militari incisero su quelle cifre, ma nel complesso è un fatto che le esportazioni non subirono flessioni né in senso quantitativo, né in chiave geografica. Anzi. Per il periodo dicembre 1934 – gennaio 1937 i clienti esteri furono 170. Alcuni furono registrati una volta sola, altri erano affezionati e la loro era una presenza costante. È giunto il momento di conoscerli un po’ meglio e di disegnare una mappa reticolare con al centro la storica fabbrica di cappelli saglianese. Il primo della lista e anche il più fidelizzato tra i clienti del Cappellificio Cervo era la bernese S. A. Adolphe Stauffer. Il 12 dicembre 1934 acquistò 186 cappelli, spediti in nove pacchi postali a indirizzi diversi per conto dell’ordinante. La commessa valeva 5.255 lire (banca d’appoggio, la Banca d’Italia, filiale di Biella). Purtroppo, la ditta svizzera non esiste più. Ma comunque segna la prima tappa di una “via del nord” che i cappelli saglianesi prendevano in abbondanza e continuità, soprattutto lungo il corso del Reno, che portava verso il Belgio e l’Olanda.
Nella capitale belga almeno una dozzina di negozi e di magazzini passavano ordini costanti e, in alcuni casi, piuttosto cospicui. Paul Van den Mergel Fils, Van Pee, Tony Van den Bosch, F. Boekelmans, la Chapellerie Rodina, per fare qualche nome, e più di loro Charles e Thérèse De Taeye, genitori della pittrice Camille, che gestivano un negozio nel grande magazzino Charley. Ai belgi rispondeva una nutrita compagine olandese. Da Rotterdam, dove i “Cervo” si vendevano al “The Prince of Wales” o da Willy Hollenkamp, a Haarlem, in vetrina da Kostermans e Vermeulen, da Groningen a Oldenzaal, da Den Haag, dove si potevano acquistare da Brackel & Broermann, a Zwolle e a Apeldoorn, dove il negozio di Witteveen c’è ancora al 121 di Hoofdstraat. Ad Amsterdam e a Utrecht un estimatore dei Bantam non doveva far altro che entrate da Peek & Cloppenburg. In verità la P & C era un’azienda tedesca, costituita a Düsseldorf nel 1900, ma i fondatori erano neerlandesi e avevano aperto filiali anche nella terra natale. La catena di negozi di abbigliamento è tuttora in attività. Seguendo la bussola, e passando per Copenaghen (la F. Hjort e C. entra in scena il 1° maggio 1935 con un acquisto di cappelli che si fa notare tra le altre registrazioni: pochi pezzi, ma di tanti modelli differenti), si arriva in Scandinavia, dove i cappelli di Sagliano Micca avevano tanti ammiratori. Più in Norvegia, che in Svezia, ma comunque numerosi. Lo attesta la presenza di rivenditori che si rifornivano presso il Cappellificio Cervo a cadenza regolare. A Oslo è documentata la maggior concentrazione di negozi dove si poteva comprare “Cervo”, ma anche lungo la costa atlantica non mancavano le “tentazioni” per chi voleva stare al passo coi tempi. Certo, fa un po’ effetto pensare che le piccole cittadine di pescatori norvegesi fossero dotate di empori capaci di diffondere anche lassù la classe del feltro biellese, ma questo pensiero è quanto meno “provinciale”.
Già in passato i prodotti buoni e belli non avevano limiti di diffusione, anche quando le distanze erano più difficili da colmare. Ai Severin Jacobsen, Ramberg & Bøe, Fredrik Darbo e Hattemagasinet Trio A. S. della capitale, si affiancavano i clienti di Stavanger, Bergen, Lillehammer, Moos, Drammen, Kristiansund, quelli di Trondheim (Dreshuset Nobel e Harald Haltvik), il grazioso THV Rafoss di Flekkefjord (tuttora aperto) e anche il signor B. Hambre che vendeva cappelli a Kirkenes, città mineraria oltre il Circolo Polare Artico, sul mare di Barents, quasi al confine con la russa penisola di Kola. Al confronto, la Stoccolma della KB Trangotts Hattindustry era Parigi. Già, Parigi. Il Cappellificio Cervo aveva una discreta piazza anche sotto la torre Eiffel. Piccole cappellerie nel Marais con i nomi propri dei titolari (Simon, Robert, Leger, Maurice, Lucien ecc.), o i “Magasins Sigrand & C.ie”, con le filiali a Lione e Cannes. Ma a Parigi, se si voleva far colpo, non c’era che un luogo per definire il livello dell’acquirente con l’acquisto: la mitica Samaritaine, dove il quai du Louvre incrocia rue de la Monnaie, proprio sul pont Neuf. Non serve aggiungere altro. I “Cervo” in Francia erano anche a Boulogne-Billancourt e Nizza, Marsiglia e Beauvais, Alfortville e Antibes. Ora si può scegliere come proseguire verso sud. Dritto per dritto fin all’Africa o piegando verso oriente? La seconda. Via Berlino (il mercato tedesco era ancora poco strutturato, ma lo sarebbe diventato presto per ragioni geopolitiche), facendo un salto dal vivace Philipp Neubauer. E da lì per Zagabria, per mettere il naso nel negozio di Slavko Klaic e per poi avviarci verso Istanbul (Theodorides e Orellis prima di tutti gli altri) e da lì passare il Bosforo e arrivare fino ad Aleppo da Albert Nahon e da Levon H. KoundaKjian Fils, e a Beirut da Haick Cousins.
Chissà come i cappelli di Sagliano Micca erano riusciti a sbarcare anche a Cipro, per la precisione a Nicosia. Lì, un intenditore, un esigente, aveva due possibilità: Euthimidides o Michaelides. Ad Alessandria d’Egitto, dopo aver visionato gli scaffali di Nicolas J. Cassimatis, si avrebbe avuto la forte tentazione di raggiungere Teheran. Non è una deviazione di poco conto, certo, ma che cosa si sarebbe dato per vedere, in una trafficata strada della capitale persiana, la vetrina di Cadiraghi? Quali tipi di cappelli poteva mettere in vendita una cappelleria a Teheran nel 1935? Fogge europee per i moltissimi europei colà residenti, in una città cosmopolita, inquieta e suggestiva, il “Cervo” sfilava accanto alle kefiah e agli imama del clero sciita. La sponda africana del Mediterraneo ha a sua volta una certa attrattiva. Ma per procurarsi un copricapo degno di questo nome occorreva portarsi fino ad Algeri, da Ernest Cohen, da Maurice Cazeneuve e da Henry Hadad. Nel cuore della vecchia Algeri non si poteva che riflettere su un aspetto non secondario rispetto alle capacità produttive e commerciali del Cappellificio Cervo. Dalla gelida Kirkenes alla calda Costantina (sempre in Algeria, nell’antica Numidia, dove la casa Charles Sebrah & Fils garantiva alla sua clientela un’ampia scelta di modelli), la fabbrica saglianese dimostrava di avere una diversificazione produttiva notevole che, tuttavia, per quanto articolata, risultava qualitativamente sempre allo stesso livello. Pesi e modellazioni differenti riuscivano a soddisfare richieste di mercati tanto distanti tra di loro. Non è praticabile un confronto nei prezzi, per capire se era solo la qualità o anche il prezzo al dettaglio di ogni tipo di cappello a dare al Cappellificio Cervo un così netto slancio commerciale. Ma è difficile pensare che la ditta di Sagliano Micca fosse in una fascia di mercato bassa o medio bassa. Anzi. Sicuramente è vero il contrario e la storia successiva dell’azienda lo conferma. In ogni caso, i cappelli saglianesi incontravano contesti e gusti diversissimi, ma quella varietà non era un problema. Al contrario, quella duttilità produttiva dava già allora riscontro dell’attitudine alla creatività, ma anche della forza dei prodotti, adatti al ghiaccio come alla sabbia, al vento siberiano come al ghibli. Giunti alle propaggini del Continente Nero, l’Atlantico invita al viaggio, sempre sulle orme dei nostrani copricapi.
Si può approdare in Costa Rica e a San José cercare la Pandolfi Hermanos che, l’11 marzo 1936, si faceva spedire 124 cappelli. Dal cuore del Centro America si gode di una vista panoramica. L’orizzonte del nord, verso il Messico e gli Stati Uniti, però, non si rivelava intrigante, non in quel particolare momento storico. Sicuramente il Cappellificio Cervo aveva una rete commerciale florida, specialmente sulla East Coast dove gli emigrati in continuo arrivo e gli italo-americani già integrati non rinunciavano alla italianità comunicata anche con un bel cappello. Ma quello era il periodo delle sanzioni, come detto, e con gli USA c’era un po’ di maretta, anche se non erano così intransigenti come la perfida Albione. Comunque sia, lo sguardo va a sud, verso Panama ed è sufficiente questo nome per confermare che quella è la strada giusta da prendere. Ecco Bogotà. Lassù, ben più in alto della cima del Mucrone e del Bo, i “Cervo” dovevano essere apprezzati da molti, visto che ben quattro rivenditori li esponevano in vetrina. Khajatt y C.o, Hijos de G. Richard, Don Santiago Vargas e José Vicente Villaveces (poco meno di mille cappelli in tutto, solo nel 1935). Dalla Cordillera Colombiana si valicano le Ande e l’affaccio sul Pacifico conduce a Lima dove lavorano José Antonio Mujica e Federico Simongi. Ma la comunità italiana (e biellese) è più densa al Callao (dove non mancavano agguerrite “sombrererie” locali gestite da italiani e da biellesi), il grande porto sull’oceano di fatto incluso nella metropoli che è la capitale peruviana. Due fratelli, Nicola e Juan, due negozi. Due cappelli. Sì, il 27 ottobre 1936 ordinarono un cappello ciascuno, rispettivamente da 28,10 e 28,70 lire. A ben guardare, non un ordine vero e proprio, piuttosto un campione, ma era un inizio. Si vedrà nei registri successivi se quella del Callao fu un’esperienza duratura o solo un contatto minimo. Scusa buona per una prossima ricerca. E prima di rientrare rimane il Paraguay. Ad Asuncion il signor J. J. Doura e la ditta Urrutia, Ugarte Y C.ia si contendevano le preferenze dei gentili, mentre la comunità israelitica aveva in Abram & Salomon il suo punto di riferimento. Proprio ad Asuncion esisteva anche un emporio che aveva alla guida una donna. L’altra metà del cielo giocava un ruolo importante nella storia della cappelleria dell’epoca. La señora A. Lusana vedova Schaumbourg era un competitor temibile per tutti i rivenditori “Cervo” della capitale e dell’intero Paraguay. E il suo ricordo innesca quello di altre donne cappelliere. Mademoiselle Buggeman a Bruxelles e le Soeurs Bourlain di Namur, sempre in Belgio, giusto per cominciare, anche se lo spazio editoriale sta per finire. Un ultimo appunto. Il Cappellificio Cervo agiva sulla scena internazionale poggiando le sue transazioni commerciali, non sempre, ma molto spesso, sul clearing. La definizione più accessibile è quella che indica il clearing come “accordo di compensazione di debiti con crediti fra banche oppure di importazioni con esportazioni fra stati”. Dei 300.000 cappelli prodotti dalla fabbrica di Sagliano Micca nel 1935-1936 almeno il 7-8% fu destinato all’esportazione in un contesto mercantile già regolato da sistemi economico-finanziari moderni. Chapeau, dunque, a una realtà tornata in auge, in Italia e nel mondo come allora, portando la sua storia come un cappello su misura, con disinvolta eleganza.