Karakul biellese [seconda parte]
Il karakul (forse) nella Bürsch o nel parco-zoo della lana [da "Eco di Biella" del 16 maggio 2022, Danilo Craveia]
Quella di Giovanni Adolfo Bena, nonno del fotografo e collaboratore di questo giornale Ruben Bena, scomparso nel 2011, è una figura da riscoprire. Su “Eco di Biella” del 25 agosto 1977 apparve questo necrologio “Si è spento novantatreenne all’istituto Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore, del quale era ospite, il cav. Giovanni Adolfo Bena. Biellese di stampo antico, conoscitore profondo dei problemi lanieri, diede un contributo non indifferente allo sviluppo del commercio delle lane. Viaggiò moltissimo: fu in Australia, nelle Americhe, in Africa, in Asia e visitò tutta l’Europa partecipando a congressi internazionali e portando, ovunque, il suo contributo di idee e di esperienza. Bena si vantava simpaticamente di aver compiuto più volte il giro del mondo. Fautore della .provincia di Biella, fu autore di appassionati interventi sulle colonne dei giornali locali. La notizia della sua dipartita è stata accolta con cordoglio negli ambienti cittadini, specie in quelli lanieri. Dopo il rito funebre, la salma di Giovanni Adolfo Bena è stata tumulata nel cimitero di Chiavazza”. Nel 1920, a trentaquattro anni, era già presidente della Camera di Commercio Italiana a Shanghai e già Cavaliere della Corona d’Italia. Un cittadino del mondo che non dimenticò mai la sua Biella.
Nel 1935 un gregge di pecore karakul era atteso alle “Bose” di Campiglia Cervo
Giovanni Adolfo Bena visionario promotore del parco-zoo della lana
Karakul virtuali al pascolo nella realtà aumentata biellese?
Quando i Trabaldo Togna iniziarono a produrre le loro “pellicce finte”, ossia i tessuti simil-karakul, la ditta Peter di Biella, già da alcuni anni, proponeva in vendita l’“Astrakan di Persia”, quindi la concorrenza tra falso e vero caracul (quella con le “c” è la versione italianizzata dal Fascismo, cui non garbavano le “k” straniere) era quantomai un fatto concreto. In quel contesto, i successi del velluto valsesserino degli anni Trenta si contrapponevano idealmente alle iniziative per attivare allevamenti di pecore caracul anche nel Biellese.
Sui giornali biellesi del 1915 la ditta Peter reclamizzava già le pellicce di astrakan persiano.
Si è detto, lunedì scorso, di quanto nelle colonie italiane il karakul fosse sufficientemente interessante da far sviluppare una certa letteratura tecnica (disponibile anche nelle biblioteche locali), senza contare che alcuni italiani, anzi biellesi, allevarono quelle pecore ancora negli anni Cinquanta, nella Somalia da ricostruire. Ma anche sul territorio nazionale l’idea di allevare quella specie non era più soltanto tale, perché in Puglia, Sicilia, Emilia Romagna, Veneto, Lombardia e Piemonte il karakul era già ben radicato e incrociato con le razze del luogo. E si segnalava, per precocità sperimentale, l’ovile di Enea Venturi di Bologna, avviato nel 1928, diretto dallo stesso agronomo che aveva dedicato uno studio sulle pecore caracul in Italia già nel 1900. Tale era lo stato delle cose quando, verso la metà degli anni Trenta, qualcuno propose di introdurre le pecore karakul nel Biellese. Si ripresentava, però, il problema del pascolo nel Biellese. Secolare, certo, e selettivo, ma non in termini di eccellenza. Le greggi autoctone o presunte tali biellesi, infatti, offrivano lane per niente qualitative rispetto agli standard dell’epoca. Standard che tuttora si mantengono, al netto delle odierne iniziative, encomiabili, ma non destinate a muovere il mercato, se non in ottica di immagine, o poco più. Il problema del pascolo nostrano, per l’appunto, è che per certe razze, qui da noi, c’è (c’era…) troppa umidità. Il karakul predilige climi e terreni secchi, siccitosi. Vive dappertutto, ma rende molto meno se piove sempre e se l’erba è troppo verde… Tutto ciò malgrado, il 10 maggio 1935 il podestà di Campiglia Cervo, Rodolfo Rosazza, ricevette una lettera dal dottor Paolo Peraldo Gianolino (dirigente delle Ferrovie dello Stato), campigliese emigrato a Torino. Il testo della missiva: “Un mio conoscente di Torino avrebbe intenzione di portare un suo gregge di 40 pecore Karakul sulle nostre montagne nel periodo estivo, facendo capo quale recapito ad uno dei casolari che io posseggo nel territorio di codesto Comune. Chiede se si può ottenere il permesso di pascolo nei terreni comunali per un periodo di 20 giorni circa e quali sarebbero i diritti spettanti al Comune per tale pascolo. Data la crescente espansione di tale gregge che verrebbe poi annualmente a passar l’estate sui nostri monti, con eventuale possibilità di dare un nuovo indirizzo alla nostra decadente industria zootecnica, con l’apporto di una nuova forma di sfruttamento con animali preziosi, da pelliccia, spero che la S. V. vorrà praticare al mio conoscente le migliori condizioni per attrarre tale industria alla nostra Valle”.
Otto giorni dopo, il 18 maggio, il podestà rispose al dottor Peraldo Gianolino che avrebbe messo a disposizione “del conoscente della S. V. l’Alpe Comunale detta delle “Bose” al presso di L. 115”. Il 21 maggio 1935 il dottor Peraldo Gianolino ringraziò il podestà e annunciò che della questione si sarebbe occupato suo cognato, l’ingegner cav. Alfredo Ghiotti (1883-1974), direttore dello Jutificio Vercellese di Foglizzo. Probabilmente il “conoscente” indicato nella prima lettera era lo stesso cavalier Ghiotti. Figlio dell’ingegner Ernesto (1847-1938), progettista di rilievo, Alfredo Ghiotti “fu fondatore e primo presidente della AIRAN Associazione Italiana per il Ritorno alla Alimentazione Naturale, creata sull’esempio della analoga AFRAN francese, che propugna il ritorno alla natura non solo mediante una alimentazione razionale e bilanciata ma anche mediante la ricostruzione e la cura del terreno vivo dopo che i concimi chimici lo hanno depauperato. Direttore dell’Istituto Biologico di Integrazioni Naturali (IBIN), promosse in Italia l’insegnamento del prof. L. Kervran sulle trasmutazioni biologiche (1966) anche organizzando convegni internazionali ed ottenendo specifici brevetti industriali” (verdiana.fandom.it). Qualche giorno più tardi, precisamente il 27 maggio, l’allevatore Muti di Vergiate inviò una cartolina postale al Comune di Campiglia Cervo ringraziando il podestà per l’opportunità offerta alle “Bose” e affermava di voler arrivare con il gregge entro l’inizio di giugno. Al momento i documenti d’archivio non permettono ulteriori approfondimenti, ma è importante questa traccia storica perché definisce una certa familiarità con quegli animali particolari. Non è ancora chiaro se le pecore karakul abbiano brucato o meno in Alta Valle Cervo, mentre è rilevante il tentativo in sé. Di certo la guerra e la lotta per la liberazione fecero dimenticare le pecore caracul e il loro più pregiato prodotto, ma non tutti persero la speranza di poterne allevare qualche capo a Biella, anche solo a titolo dimostrativo o di attrazione turistica. Ed ecco che entra in scena Giovanni Adolfo Bena, il quale, nel 1968, a ottantadue anni suonati, presentò un progetto (più che altro un’idea progettuale) circa un “grandioso parco della lana”, cioè un “super-zoo” dedicato a tutte le bestie lanute del mondo. Ovviamente da allestire a Biella, o nel Biellese. In sintesi, “il signor Bena intende portare su un’alpe (probabilmente della zona di Oropa) gli esemplari, in piccoli greggi degli animali «produttori» di lana e creare così un parco all’aperto che oltre ad incentivare la curiosità su questo «zoo» tutto speciale potrà dare l’avvio anche a numerose esperimentazioni e ricerche di carattere strettamente scientifico di utilità non indifferente in una zona come la nostra”. Questo si può leggere su questo giornale, in prima pagina, il 12 febbraio 1968. Superfluo dire che il karakul avrebbe fatto parte di quella specie di arca di Noè laniera che si sarebbe virtuosamente incagliata non alle falde dell’Ararat, ma a quelle del Mucrone. Bestiole in libertà e curiosità per tutti. L’exploit del geniale Bena suscitò un certo dibattito, tra moderati ottimisti e pessimisti cosmici. Nel frattempo, il vegliardo sognatore era in viaggio (il suo tredicesimo giro del mondo, si diceva). E ci fu chi, da queste colonne, ne difese l’audacia di pensiero. “Non tanto l’idea dello «zoo» in se stessa, che non è nuova in quanto già qualcuno andava da tempo ventilandola, quanto il chiarimento a se stesso dell’idea e il gesto della partenza alla ricerca, come Giasone, del vello d ’oro che potrebbe dare alla sua «piccola patria» un’attrazione turistica di primissimo piano”, cioè ciò che ci mancava. “Solo, senza indugi, G. A. Bena, «puro folle» del nostro tempo, novello Parsifal ottantaduenne, si alza sulla morta gora e va. Riuscirà? È vecchio e dovrebbe essere stanco. Non ha importanza! G. A. Bena è partito. Qualcuno doveva ben dare l’esempio, rompere con la lunga querela che dura da troppo tempo facendoci tutti molto più vecchi di lui”. Tuttavia, il sogno non si realizzò. Al suo ritorno non poche grane attendevano il nostrano Giasone canuto. Grattacapi dovuti alla vendita della sua casa del Piazzo (che è quella appartenuta ad Amedeo Avogadro…) che avrebbe dovuto finanziare il parco. Il fatto è che la cessione del fabbricato prevedeva la sua demolizione e la vendita, con quel vincolo, non ebbe seguito. Così come, di conseguenza, non ebbe esito la costituzione del parco. Nel maggio del 1968 il giramondo Bena era rientrato con le idee chiare, ma senza la liquidità minima necessaria. Nell’estate del 1969 il governo sudafricano annunciava al mondo la disponibilità di pecore karakul dal vello bianco, quindi ottimali per la tintura, ma a quell’epoca l’astro dello zoo laniero nella conca di Oropa era già tramontato. Nel 1977, quando Giovanni Adolfo Bena finì i suoi giorni da viaggiatore, nessuno parlava più del karakul biellese. A rispolverare oggi quella remota suggestione si corre il rischio di confondere ancora di più le già confuse prospettive cultural laniere di questa nostra terra, ma se gli androidi di Philip K. Dick sognavano pecore elettriche, noi potremmo immaginare karakul digitali in un parco virtuale di realtà aumentata a impatto ecologico zero, diffuso ovunque.