La Laniera e la Cgil: la memoria è un Sms in bottiglia
da "Eco di Biella" del 25 ottobre 2021 [Danilo Craveia]
Due oggetti due che valgono il biglietto per la mostra della Fondazione Sella e per quella della CGIL. La libreria della Laniera e le pubblicazioni dell’associazione. Non solo un mobile con un po’ di libri, ma un oggetto ibrido a metà strada tra l’enciclopedia e un portale web. Le informazioni trasformano il mondo: gli impongono direzione e velocità. Per i lanieri biellesi quella raccolta di dati e di nozioni determinava scelte importanti, e non c’era altro mezzo. Non c’era Internet, quello era Internet, quella era la porta della rete globale della lana. Dietro, dentro quella libreria ci sono pecore e telai, il Chubut e la Valsessera, micron e milioni di metri… La foto della “Cassia da mort”: una meraviglia estetica. Dove la Camera del Lavoro ebbe la sua prima sede. Nulla più esiste di quello stabile arcuato, strano, lugubre nel nomignolo, eppure così pieno di vita. Le linee curve e rette di quell’immagine catturano lo sguardo: i binari delle FEB, la ringhiera scheletrica lungo lo sterrato di via Cernaia, i fili della luce. Qualche figura umana dietro il muretto di cinta, o sui balconi. Una casa operaia dignitosa, con le finestre alte e i decori di un palazzo cittadino. La fotografia resuscita la “cassa da morto”, la sua gente e il suo tempo. Il Cervo divide e unisce due occasioni di conoscenza della storia del nostro territorio. Alla Fondazione Sella si può vedere “Lana. Le trasformazioni di un’industria e l’Associazione Laniera Italiana”. Negli spazi di NovaCivitas (Cittadellarte) è visibile “1901-2021 – La Camera del lavoro di Biella da 120 anni con i lavoratori”.
Non si tratta, per entrambe, di annunciare inaugurazioni. Le due mostre sono aperte già da qualche tempo e vale davvero la pena di viverle, magari una dietro l’altra. In effetti, la loro concomitanza, la loro vicinanza, innesca un percorso tematico multiforme, ma coerente, anzi complementare, che può dare conferme e nuove suggestioni non tanto su ciò che è noto del nostro passato (ma le sorprese non mancano, anche per gli addetti ai lavori), bensì su come ci disponiamo a raccontarlo oggi e, più ancora, a tramandarlo al domani. Su una sponda del torrente potremmo riconoscere il “capitale” e sull’altra il “lavoro” (ma le vetuste categorie risultano una volta di più superate dai due allestimenti che appaiono, pur senza progettazione condivisa, significativamente dialoganti e reciprocamente integranti) per osservare lo sviluppo di una terra, la nostra, che parla a un’unica voce da tanto tempo. L’industria tessile è il Biellese da due secoli (con radici artigianali e proto-industriali ancora più profonde) e il sistema binario, strutturato in forma associativa-rappresentativa sindacale dell’imprenditoria e di quella che si chiamava “classe operaia” ha retto e regge le sorti dei biellesi. Le due mostre si assomigliano molto anche dal punto di vista dell’impostazione generale, con sezioni dedicate a tematiche specifiche e focus su aspetti o avvenimenti ancora più specifici, ma senza eccedere nell’enfasi del dettaglio. Già così il portato informativo è ampio e “sfidante” per il bagaglio culturale medio dei visitatori. Si esce arricchiti da entrambe, ma è richiesto un “investimento” di attenzione e di interesse per fruirle al meglio. Il che è di per sé un atto di coraggio perché queste due mostre non si possono solo “vedere”, ma meritano di essere, come detto, vissute predisponendosi ad imparare. La quota didattica è, infatti, alta, anche se, grazie all’ottimo lavoro dei curatori, senza pesantezza né rigidità didascaliche. In entrambe è notevole la connotazione iconografica, il corredo di immagini è rilevante e, quando non ci si trova di fronte a novità assolute, sono gli accostamenti a suggerire inedite facoltà di interpretazione.
La Fondazione Sella propone un itinerario che svela sia il processo produttivo dalla materia prima al tessuto, sia l’evoluzione dell’Associazione dell’Industria Laniera Italiana, fondata a Biella nel 1877, senza tralasciare di riassumere i momenti che hanno segnato le vicende del lanificio di famiglia. Il Centro di Documentazione della Camera del Lavoro, invece, ha celebrato i dodici decenni dalla sua fondazione, aprendo il compasso cronologico fino alle prime forme di solidarietà proletaria (la prima società operaia a nascere, quella di Biella, risale al 1851). Il lasso temporale è più ampio e arriva all’attualità, mentre quello proposto oltre Cervo è più ridotto, ossia non va oltre gli anni Trenta del Novecento, ma offre un’esperienza differente, con tre filmati spettacolari e preziosi tessuti da toccare e anche alcuni piccoli macchinari. Nel salone di NovaCivitas emozionano la forza della “idea” e della “massa”, che accoglie fin dall’inizio del giro, e la scelta delle icone che ritmano la successione dei settori tematici.
Per tutte e due le mostre è stata indispensabile la collaborazione con altri attori culturali del territorio e anche questo aspetto allude chiaramente alla sempre più strutturata reticolarità della produzione culturale biellese. Buona pratica, da intensificare, soprattutto in ragione della omogeneità tematica di fondo. Fin qui, la cronaca, per così dire. Ma che cosa c’è al di là di quel che si osserva? Qual è il mezzo e quale il messaggio di questi due esempi interessanti di ricerca e, soprattutto, di sforzo divulgativo? Come connettere gli allestimenti con l’oggi e con il domani di un Biellese ancora alla ricerca di una sua identità e, a seguire, di una sua identità culturale? Mostre come queste non sono solo mostre. Sono anche opportunità di valutazione. Senza mettere in dubbio qualità e quantità dei progetti, dei cantieri e degli “edifici” ideali e materiali realizzati sulle due sponde del Cervo, sia chiaro. Anzi, è proprio per la bontà dei “manufatti” che si è messi nella condizione di provare a ragionare. O, se non altro, a porre delle domande. La prima: che cosa ha a che fare il Biellese illustrato dai due allestimenti con il nostro? Il mondo operaio e dell’arte della trattativa sindacale è cambiato così in profondità da essere difficilmente confrontabile non solo con quello di Rinaldo Rigola, ma anche con quello di Adriano Massazza Gal. Dire che il cambiamento esiste non è come documentarlo “in tempo reale” e “da dentro”, e si ha l’impressione che non ci siano le capacità o gli strumenti per farlo. Tutto assume un tono romantico, potente e suggestivo, ma romantico, che schiaccia il passato sullo sfondo di un indistinto “altrove” distinto dal qui e ora. Un qui e ora che pare non avere un prima e neppure un dopo. I cortei delle grandi manifestazioni di piazza, gli striscioni, le sigle ormai mute, i volti dei protagonisti… Non c’è differenza evidente, se non per il cromatismo delle fotografie o per la foggia degli stendardi, tra epoche che non sono più questa. Questa mostra attesta il distacco, la discontinuità, la diversità che non è frutto di evoluzione o di ibridazione guidata, ma di un’improvvisa mutazione che è anche una frattura che ci priva sempre più di legami stabili con quella gente, con quelle lotte, con quelle vite. A maggior ragione la cesura si esplicita al cospetto del denso allestimento della Fondazione Sella.
Si continua a rievocare un mito fondativo che ormai orbita a distanza siderale da questo tempo e non si capisce se la rievocazione è una scelta (sempre affascinante e più che degna, ben inteso) o l’assenza di un’alternativa. Il fatto è che, al netto di poche eccezioni che confermano la regola, sussiste una faglia sempre più larga e profonda che ci separa da quell’era mitica. Perché non occuparsi della Laniera tra il 1965 e il 1990? Perché non analizzare la trasformazione dell’industria biellese nell’ultimo mezzo secolo? Di certo non difettano gli argomenti… Ma difettano i documenti, i testimoni e i valori. Dal secondo Dopoguerra la sacrosanta frenesia della produzione e del profitto, che pure ha dato ricchezza e stabilità al Biellese, ha quasi annichilito il processo di formazione della consapevolezza e della memoria. Sappiamo più cose sulla mostra laniera del 1936 che “Sul filo della lana” del 2005. La rarefazione delle testimonianze ci permetterà di celebrare ancora Pietro Sella, Gregorio Reda, Daniele Schneider… E poi? Qualcuno, forse, si chiederà che cosa sia successo del tessile biellese alla fine del Secondo millennio. Ma prima che quel qualcuno nasca, il problema è che abbiamo perso il filo del discorso e riusciamo solo a balbettare alle orecchie di chi sa e vuole ascoltare comunque sempre meno. La prima cosa che i visitatori vedono della mostra della Fondazione Sella è una “girante”, cioè l’elemento rotore di una turbina. È un oggetto splendido, posizionato splendidamente. Ma è anche la metafora dello stato delle cose: non c’è più acqua che spinge sulle pale Pelton a doppio cucchiaio per imprimere il moto al breve albero e alla puleggia solidale. E non c’è niente a ricevere quella potenza, nessuna correggia collegata a nessuna macchina. Noi siamo quella “girante”. Si è esaurito, o quasi, il flusso e, senza continuità di alimentazione, non potremo trasmettere alcunché. È tempo, come si fa con le pezze, di rammendare. Di recuperare memoria e di prepararci a comunicarla, anche a costo di mettere il classico biglietto nella bottiglia, anche a costo di ripensare il mezzo per far sì che passi il messaggio. Senza comodi alibi, senza soggezione, senza sudditanze psicologiche nei confronti della dea “comunicazione”, giudice unico e supremo non solo delle forme ma anche delle sostanze. Si deve ribaltare la prospettiva. E non basta far uscire gli archivi dagli archivi, serve soprattutto far uscire la conoscenza, senza temere che sia “noiosa”. Non è più sufficiente lasciare ai posteri gli strumenti, serve garantire la trasmissione dei libretti delle istruzioni e la possibilità che siano compresi.