La “Strada della lana… sì, ma quale?”
[da "Eco di Biella" del 12 settembre 2022, Danilo Craveia]
La “Strada della lana” non è più soltanto un’ambiziosa e articolata “visione” cultural-territoriale, ma ormai anche un’esperienza conoscitiva e immersiva. Il DocBi Centro Studi Biellesi la propone alla Fabbrica della Ruota di Pray da domenica 18 settembre. Il percorso, fatto di informazioni, di stimoli e di “oggetti” di particolare interesse, è stato realizzato grazie alla sinergia tra DocBi Cittadellarte Fondazione Pistoletto e Fatti ad Arte nel progetto “Woolscape.
Il Paesaggio della Lana nel Biellese”. L’unione tra le tre realtà operanti sul territorio ha convinto la Compagnia di San Paolo (bando di valorizzazione In Luce) a finanziare un cantiere preliminare che si prefigge traguardi definitivi ancora più rilevanti. Ma già ora la “Strada della lana” rappresenta se stessa in una evocativa e riuscita concettualizzazione densa di documenti, iconografia, filmati e “pezzi” unici. La restituzione, in forza di un allestimento eseguito “in house”, ma di grande efficacia, vale la gita fino alla Vallefredda. Tanto più che la “Ruota” sarà comunque accessibile come tutte le domeniche. I visitatori della “Strada della lana” avranno guide d’eccezione (formate e fornite da ARS Teatrando) secondo le modalità indicate su woolscape.it.
Il titolo è rispettosamente ironico e concettualmente stimolante (magari per gli addetti ai lavori…), ma contiene un interrogativo niente affatto retorico o superfluo. In termini storiografici (sì, perché la “Strada della lana” è già un fenomeno storicizzato e come tale va, o andrebbe, trattato) la domanda è tutt’altro che oziosa. Cioè, quante sono o, meglio ancora, quante sono state le “strade della lana” che avrebbero dovuto unire e/o uniscono Biella e Borgosesia? E la questione si esaurisce “solo” in ambito locale o si è al cospetto di una realtà di più ampia portata? Esiste, con tutta una sua storia ormai quasi quarantennale, la “Strada della lana” come progetto culturale (lato sensu) del DocBi Centro Studi Biellesi. Si ha notizia, ben da prima, di un tracciato viabilistico (non realizzato) che ha assunto questa sua identità “laniera” negli anni Sessanta. Si ricorda, ancora più indietro, un collegamento autostradale (non realizzato) che era così denominato già negli anni Cinquanta. Si ha memoria di una proposta di connessione tra Biella e Borgosesia via Valle Mosso in maniera “diretta” negli anni Venti (non realizzata). Si ha riscontro, questo in concreto, di una via di comunicazione che si è strutturata nei secoli, ma che ha, se si vuole trovarne una a tutti i costi, per data di nascita precisa il 1817 (ma questa volta il buon Pietro Sella e le sue prime macchine non c’entrano). E si può osservare, in ultimo, un intreccio di verità e di miti che tuttora connotano non una strada, ma un fascio di strade in un “sistema di idee” che, giusto o sbagliato che sia, racconta una sua storia, con effetti teorici e materiali per nulla indifferenti. Questo spazio è poco, ma si può provare ugualmente a fare un po’ d’ordine.
La “Strada della lana” del DocBi Centro Studi Biellesi è un layer concettuale (che sta per avere una sua prima “messa a terra” con l’inaugurazione di domenica prossima alla Fabbrica della Ruota) che, dalla metà degli anni Ottanta (con una definizione effettiva che però risale al 1995 circa), consente di (ri)leggere il territorio in ottica di archeologia e di paesaggio industriale. Ad affiancare il DocBi (associazione costituitasi nel 1985 che ha avuto nell’intento di dar forma alla sua “Strada della lana” uno dei pilastri della sua mission multitematica) c’era e a lungo c’è stato il Politecnico di Torino in un percorso progettuale di studio e di valorizzazione che se non ha prodotto molto di tangibile, ha generato una mole enorme di conoscenza e, più ancora, un metodo di lavoro tuttora unico per qualità e quantità. C’è ancora tanto da fare per aggiornare il progetto, ma è una questione di forma, non di sostanza. Mentre già ora, il risultato di maggior rilievo si riconosce nella diffusione della consapevolezza circa l’essenza stessa della “Strada della lana” come asse portante e asset strategico della politica culturale biellese del presente e del futuro.
Ma questo layer è solo uno e solo l’ultimo di una sequenza che è andata a sovrapporsi storicamente sulla stessa mappa del Biellese. Il “livello” precedente è quello della fine degli anni Sessanta. Si tratta di un’accezione non già culturale, ma viabilistica e la paternità del nome, che definiva più che altro la strada “direttissima” Biella-Valle Mosso, va ascritta all’ingegner Francesco Agrusti (1908-1992). Il tecnico di origini calabresi, che ha avuto un ruolo importante nel settore urbanistico biellese della metà del Novecento, pubblicò un suo studio sulla “Strada della lana” all’interno della rivista “Biella”, bollettino mensile del Comune di Biella, nel maggio del 1969. L’ing. Agrusti lavorava al piano fin dal 1967 e la sua proposta riguardava una vera e propria asta rettilinea Biella-Ronco-Ternengo-Piatto-Valle S. Nicolao-Campore. A questo primo tronco andava aggiunto il secondo fino a Pray lungo la Valle del Ponzone. All’epoca la distanza stradale tra Biella e Pray era di 27 km, mentre la soluzione Agrusti la riduceva a 17. Con tre gallerie (poco più di 500 metri in totale), undici ponti e viadotti (2 km in tutto) e 24 tra sopra o sottopassi. Cinque miliardi e 200 milioni di lire. A occhio un’ipotesi interessante, con ricadute notevoli anche per la necessità di rimettere in sesto il Biellese orientale alluvionato il 2 novembre 1968. Un’indagine condotta da un gruppo di allievi del professor Corrado Grassi (Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere) rivelò, tuttavia, che la percezione degli abitanti rispetto alla nuova strada in progetto era di entusiasmo molto relativo. “Ad esempio, è una novità per noi sapere che non tutti, e proprio là dove l’interesse dovrebbe essere maggiore, hanno espresso un’opinione positiva sulla «strada della lana». Il timore nasce dalla constatazione di una viabilità minore già carente che la nuova arteria potrebbe aggravare maggiormente riducendo gli sforzi per la sua sistemazione”. Questo un passo della relazione finale dell’indagine condotta nella primavera del 1969 dall’equipe del professor Grassi. Inoltre, la “Strada della lana” avrebbe facilitato lo svuotamento delle vallate dello Strona, del Ponzone e del Sessera, anziché contribuire a mantenerle popolate. Una Biella più “vicina” avrebbe danneggiato Valle Mosso, Cossato, Trivero, Coggiola ecc. in chiave residenziale. Certo, in teoria le industrie attive (allora ancora numerose) avrebbero tratto vantaggio dal maggior flusso da/per, ma non era solo quella la finalità di un’opera infrastrutturale considerata più che motivata e urgente. L’elaborazione di Francesco Agrusti non era solo una “strada”, ma il rilancio di un’area che già prima dell’evento alluvionale dava segni di debolezza strutturale. Le fabbriche cercavano di “scendere a valle” e servivano buone ragioni per convincere gli imprenditori a non lasciare le vallate. Non tutti dimostravano di avere l’attaccamento di Ermenegildo Zegna (che comunque era morto nel 1966) e molti cercavano migliori condizioni operative e logistiche. La “Strada della lana” non poteva essere, questo era chiaro, la panacea di tutti i mali, ma poteva essere una robusta leva anche solo psicologica. Se ne fece nulla e le vicende della Cossato-Valle Mosso, allacciata tuttora alla bell’e meglio alla “Tangenziale” Biella-Cossato, dimostrano una scarsa capacità d’intervento e, soprattutto, un cronico ritardo nell’agire.
Il cenno alla Cossato-Valle Mosso, da prolungare fino a Mottalciata, non è casuale perché per un certo periodo, cioè fino alla prima metà degli anni Sessanta, la “Strada della lana” corrispondeva a quel troncone viario. I giornali la indicavano così, in quegli anni, come elemento residuale di un’altra “Strada della lana” di ben maggiore sviluppo, la prima, in effetti, a essere chiamata così fin dai primi anni Cinquanta. L’esordio della denominazione, infatti, segnalava il segmento autostradale che da Genova, via Alessandria, Casale, Vercelli, Carisio, Mottalciata e Cossato (e da lì a salire lungo lo Strona e con svincolo per Biella in attesa della superstrada che sarebbe arrivata solo nei primi anni Sessanta) avrebbe consentito un più fluido e rapido approvvigionamento della materia prima (sbarcata da oltremare a Genova) ai ring e ai telai biellesi. E da questi il prodotto finito avrebbe raggiunto più facilmente i moli liguri per essere imbarcato per i nuovi clienti d’oltremare della ormai globale industria tessile nostrana. La scelta della gomma rispetto al ferro per i trasporti era compiuta, quindi si poneva il caso di ragionare sulle lunghe tratte percorse a mezzo camion. In sostanza una derivazione dalla odierna Genova-Gravellona Toce in un contesto di movimentazione delle merci che non contemplava neppure ancora il traforo del Monte Bianco, ma solo il valico del Gran San Bernardo e del Sempione per collegare la Pianura Padana con l’Europa e il Mare del Nord. Tra l’altro, quella via industriale era “contaminata” da istanze agricole, visto che in molti la indicavano come la “Strada della lana e del riso”, con ovvi riferimenti al Vercellese delle risaie attraversato per arrivare ai piedi dei monti lanieri. Ma quella verso Genova è, a tutti gli effetti, una deviazione non solo topografica, ma anche logica. Per tornare sulla retta via della “Strada della lana” di più netta appartenenza territoriale occorre un balzo all’indietro di un secolo. A metà dell’Ottocento eccola, ancora senz’arte né parte, senza nome che rivelasse la sua lanosità, che pure era già così evidente. Il cammino è ancora lungo e si tornerà sulla “Strada della lana” il prossimo lunedì.