Le fornaci del Brianco dall’argilla di qualità fra Trossi, Sardi e Mattei
[da "Eco di Biella" del 19 settembre 2022, Danilo Craveia]
La ciminiera ha visto tempi migliori. Si nota percorrendo la Provinciale 322 che taglia quella landa suggestiva che è il Brianco. La torre di mattoni minaccia rovina e nemmeno le cicogne si fidano a farci il nido. Capannoni vecchi, altri più recenti, ma in disuso, fabbricati privi di copertura, vegetazione padrona del sito. L’antica fornace, la strada (via Brianco) che incrocia la Biella-Santhià, la fornace nuova o, meglio, il suo aborto evolutosi in discarica. Residui di un passato che è stato un futuro mai realizzato.
Le fornaci del Brianco sono un monumento a un’intenzione, e un monito. Più ancora, quella zona ha qualcosa di particolare, di fantasmatico, di inquietante. E non è soltanto lo stato di abbandono di un complesso produttivo che ha una storia lunga un secolo. No, c’è dell’altro, inspiegabile, che si avverte già lasciando la via maestra per raggiungere e superare la ferrovia. Ai lati e oltre ci sono grandi edifici vuoti, aree pronte a ricevere altro cemento armato e poi le case. Alcune sono ruderi di cantieri mai finiti, altre sono abitate, ma in mezzo al nulla, al riparo delle fronde che le celano alla vista degli automobilisti e dei passeggeri dei treni. Di sicuro chi abita al Brianco ci vive bene, di certo in tranquillità, ma la prima impressione è stata quella di essere ai margini di una zona da test atomico. È un posto desolato, dimenticato, duro, affascinante e straniante.
Su “La Patria. Geografia dell’Italia” del 1891 si legge del Brianco: “vasto altipiano incolto che chiaramente appare un terrazzo di erosione formato dall’Elvo”. La stessa fonte segnala il regresso delle risaie e il ritorno dei pascoli in quel territorio di brughiera argillosa. E indica una fornace di mattoni, in ragione di tutta quella argilla disponibile. Quella stessa fornace, forse, attirò l’attenzione di alcuni investitori quando, finita la Grande Guerra, c’era un paese da ricostruire. Laterizi da cuocere, affari da fare. La prima società in accomandita per azioni fu costituita il 14 dicembre 1920, su impulso del cav. Flaminio Lanzone, ma la fornace quasi sicuramente non fu accesa subito. Erano anni piuttosto complicati e ne seguirono di non facili. Tuttavia, l’avvento del Fascismo portò, se non i risultati, almeno gli intenti delle bonifiche. Ecco perché il Comune di Salussola aveva venduto il Brianco nel 1919. C’era modo di far cassa e si fece (7.000 lire per una terra inospitale, da briganti, di remota umanità, “ichtimula” avrebbe detto il Mullatera, che però non concordava col Durandi che voleva il Brianco apollineo), non senza critiche da parte di non aveva apprezzato il gesto. Quelli baraggivi erano terreni da sfruttare dopo averli redenti dalla loro natura selvaggia. Il Brianco non faceva eccezione e la fornace era parte integrante dell’iniziativa della Società Agricola di Salussola (subentrata al citato cavalier Lanzone). Nel 1921 il sodalizio, con sede a Biella e con un capitale sociale di un milione di lire, aveva per soci accomandatari il rag. Giuseppe Parisi e Felice Trossi. Questi ultimi nominarono come procuratore generale il dott. prof. Angelo Mariani “perchè possa amministrare e gestire i beni e gli interessi della detta Società Agricola”. Nel 1927 l’impianto, finalmente a regime, era così strutturato: “Nella regione del Brianco è stata costruita una fornace, tipo Hoffmann, della lunghezza di m. 45 e della larghezza di m. 14,50 con 16 camere, e della capacità da 15 a 16 mila mattoni cadauna. La fornace può produrre a lavorazione continua circa sette milioni di pezzi all’anno. In previsione di un futuro ampliamento della fornace, ampliamento che potrebbe raggiungere un’efficienza produttiva quadrupla dell‘attuale; la Società ha già costruito un camino in muratura atto a servire questo massimo programma di produzione. Adiacente alla fornace, in apposito capannone in muratura, venne installato il macchinario per la produzione del materiale fino, con elementi modernissimi, azionati da motore elettrico”.
Quel “camino” è, ovviamente, la ciminiera che da cento anni resiste alle intemperie. La descrizione si trova su “Il Popolo Biellese” del 20 agosto 1927 e l’articolo continuava con l’analisi dell’area. “Il terreno di sfruttamento per la fornace si trova sul lato destro della ferrovia Biella-Santhià. Ha una superficie di metri quadrati 415.400 Giornate 133 pari ad Ettari 41,5400. La fronte lungo la strada ferroviaria si estende per una lunghezza di circa m. 1400 e la larghezza media è di m. 300. Tutta la vastissima superficie è composta di uno strato eguale ed uniforme di argilla, avente un’altezza media di m. 3, la quale altezza, riferita all’intiera superficie, permette uno sfruttamento, sulla base dell’attuale produzione, per un periodo ultra-secolare. L’argilla sperimentata da competenti e studiosi della materia, venne ritenuta adattissima per la confezione dei laterizi, e più particolarmente dei materiali fini, quali i forati, tegole piane, tavelloni ecc.”. Quindi premesse più che buone e un avvenire ben delineato in forza, soprattutto, di una materia prima di ottima qualità a chilometro zero, come si direbbe oggi. La presenza della fornace avrebbe poi avuto anche effetti positivi indiretti sui dintorni. Dallo stesso giornale di regime, infatti, si apprende che era “intenzione, già in atto, dalla Società si è quella di procedere allo sbancamento dello strato di argilla in modo da sistemare a coltura irrigata e pianeggiante, il terreno che man mano si rende libero, si otterrà così con un processo, continuo lo sfruttamento industriale del terreno e la contemporanea messa in valore dello stesso per le più svariate colture che si vorranno praticare”. Le ricadute occupazionali locali non erano esplicitate, ma non dovevano essere indifferenti.
Dal volume “Notizie statistiche delle Società italiane per azioni”, edizione del 1934, si scopre che il 22 novembre 1932 la ditta aveva cambiato il suo assetto trasformandosi in società anonima (rogito notaio Pericle Germano) e assumendo la denominazione di “Società Anonima Brianco”. La sede restava quella di Biella, via Garibaldi 23, e non mutava lo scopo sociale: “esercizio di bonifiche e condizioni agricole e di fornaci per laterizi”. Il consiglio di amministrazione era così formato: presidente Eugenio Gallo, consiglieri Giuseppe De Giorgis, Giacomo Levis e Camillo Ramella. Sindaci: geom. Giuseppe Mortarini, rag. Emanuele Segrè, avv. Alessandro Verdoja. Fu un tentativo di rilancio, perché, per quanto le suddette premesse fossero incoraggianti, i bilanci della fine degli anni Venti avevano fatto registrare pesanti passivi. Quelli successivi non furono pubblicati e nemmeno depositati presso il Ministero delle Corporazioni. Le azioni da 500 lire dovevano finanziare un capitale sociale aumentato a 1.200.000 lire. Ma le cose non stavano andando bene. Nel 1936 l’azienda era già passata di mano. La Società Anonima Cooperativa Unione Fornaciai di Torrazza Piemonte si sarebbe riunita in assemblea generale dei soci il 31 marzo presso la sede della fornace del Brianco per approvare il bilancio del 1935, che non prometteva niente di buono. Nel gennaio del 1940 per la S. A. Brianco si prospettava un ulteriore cambio della guardia per far ripartire la fornace in primavera. Poi venne la guerra. Nei primi anni Cinquanta quella del Brianco era già da tempo la ex fornace e sembrava che sarebbe rimasta tale, fredda, morta. Come appare oggi. E pensare che lì, appena sotto le zolle, c’era argilla di prima qualità. Sette milioni di mattoni l’anno… 25.000 mattoni per una casa da 100 mq… 280 case all’anno. Eppure, il Brianco si opponeva. Tollerava la strada ferrata e quella sterrata, ma oltre… La boscaglia riguadagnava terreno e tornava a essere l’ambiente selvatico di sempre, quello dei celti e dei briganti, pagano e pericoloso. Quando nel 1961 uno sconosciuto Silvio Sardi (1912-1984), sconosciuto ma ambizioso e facoltoso e, soprattutto, intimo amico di Enrico Mattei, acquistò il Brianco progettando molto e promettendo molto di più, il fuoco della speranza ravvivò le ceneri spente della fornace.
Era arrivato il metano della SNAM e tutti, anche i santommasi, credettero. Accanto alla vecchia fornace sarebbe sorta quella nuova. E attorno un villaggio, una piccola città (con tanto di grattacielo che dalla A4 si sarebbe visto benissimo). Mons. Rossi, vescovo di Biella, benedisse la prima pietra della chiesa. Ma la prima fu anche l’ultima. L’epoca di Silvio Sardi fu lunga, ma sterile. Il Brianco si oppose anche a lui e adesso non restano neanche la disillusione e la tristezza. Ora il Brianco è solo un luogo ai confini di un indefinibile qualcosa. O di niente.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la sorte della fornace del Brianco si lega a Silvio Sardi. Un immenso “Piano verde” di rilancio economico, titoloni sui giornali, Enrico Mattei sullo sfondo. Nel 1960 erano già di Sardi (poi eletto sindaco di Salussola) 13,2 milioni di metri quadrati di terreno nella zona attorno alla storica fornace che doveva riprendere alla grande la produzione. Nel 1961 c’erano 150 operai al lavoro sulla strada di accesso e l’impianto doveva entrare in funzione già per l’estate. Non avvenne. Nel 1967 i socialisti del “Corriere Biellese” demolivano il mito Sardi constatando l’inattività della fornace e il fallimento del progetto complessivo. Nel 1969 era già tutta immondizia. Questo giornale parlava di “terreno incolto, gente senza speranza, riso soffocato dall’erba, un paesaggio assurdo, kafkiano”. La S.p.A. Fornace del Brianco di Salussola era un guscio vuoto. Enorme. Nel 1973 il sindaco Sardi sembra poter tornare in corsa evitando il pignoramento, ma fallisce. Nel 1992 l’ordinanza di sgombero dei rifiuti “gommosi” (decine di camion). Nel 2010 si progettava una nuova discarica. Idem nel 2017. E oggi siamo ancora lì, ad attendere un destino per il Brianco che non sia soltanto un accumulo di amianto.