Autarchia, economia di guerra
Economia di guerra e vincoli alla produzione
Premessa
Questa breve comunicazione intende portare l'attenzione su un tema spesso citato, ma raramente affrontato: cioè quello della rete di condizionamenti, di regole, di vincoli che l'economia di guerra comportò per l'attività produttiva.
Come è noto, la crisi del regime fascista fu, in buona parte, anche il risultato dell'incapacità del sistema industriale di reggere il confronto con gli altri paesi con basi industriali più forti di quelle dell'Italia. Il regime, soprattutto dalla metà degli anni trenta, orientò le risorse del Paese verso la produzione di guerra, ma lo sforzo risultò inadeguato a far fronte alle necessità, anche se comportò un forte mutamento dei rapporti all'interno del sistema industriale. Le industrie non legate alla produzione di guerra furono penalizzate, e alcuni settori lo furono più di altri. L'industria laniera che allora, come oggi, caratterizzava l'economia biellese, rientrava, con qualche eccezione, in questa area in difficoltà per diverse ragioni. Una di queste fu la crescente sequenza di interventi da parte dello Stato e di vari organismi ad esso collegati che, prima della guerra e nella prima fase della stessa, progressivamente finirono per vincolare e rendere assai difficile l'attività produttiva.
I vincoli della produzione
I primi provvedimenti di controllo riguardarono la materia prima attraverso gli ammassi: provvedimenti diventati necessari per sostenere la scelta autarchica che il regime aveva voluto, o dovuto, imboccare.
Questa è la definizione che a sei mesi di distanza dall'inizio della guerra venne offerta alla meditazione del pubblico dal giornale della federazione fascista di Biella. "L'ammasso - scriveva Luigi Montemagno ne "Il Popolo Biellese" del 5 dicembre 1940 - non è, come taluni pensano, requisizione. Esso è invece l'azione protettiva, l'impulso coordinatore che lo Stato esercita, attraverso i suoi organi corporativi, a favore della produzione, nell'interesse dei produttori e per la tutela e il giusto impiego del prodotto. Nel quadro dell'autarchia, esso rappresenta la realizzazione corporativa della disciplina della produzione proprio perché essa dia veramente il benessere al lavoratore, al datore di lavoro, all'industriale nella complessa gamma che attraversano il lavoro e il capitale per diventare concretamente 'prodotto' e come tale essere proficuamente impiegato e realizzato".
Anche la lana, la materia prima della maggior parte dell'industria tessile del Biellese, fu assoggettata all'ammasso: un obbligo che durante il periodo dell'autarchia riguardava le lane di produzione nazionale.
Ma ai produttori restarono pochi margini perché, ad esempio, le "nuove disposizioni sugli ammassi delle lane", contenute nella legge numero 355 dell'8 aprile 1940, stabilirono che anche per quell'anno rimaneva in vigore "la facoltà al produttore di non conferire agli ammassi la quantità occorrente per il fabbisogno proprio, nella misura di Kg 2 per persona di famiglia"1. Naturalmente la lana non conferita all'ammasso non poteva essere venduta, ed era punibile con la pena dell'ammenda non soltanto chi la vendeva, ma anche chi la comprava.
Il problema vero era che le aziende, a causa del contingentamento delle lane importate, dei vincoli valutari e del controllo del cambio, non riuscivano più ad importare quantità sufficienti alle necessità produttive.
Con il successivo decreto legge numero 431 del 18 maggio 1940, "era fatto obbligo" a chiunque detenesse, anche a titolo di deposito, lana destinata ad usi industriali e commerciali, di denunciarne la quantità posseduta. L'obbligo comprendeva tutte le lane sucide, saltate, lavate, pettinate (di tosa, di concia e di qualsiasi altra natura), gli stracci e i cascami di lana, nonché i filati anche se misti.
La prima denuncia doveva essere fatta entro il 9 giugno e doveva riferirsi ai prodotti posseduti alla mezzanotte del 25 maggio. Successivamente le denunce dovevano essere ripetute, per i prodotti posseduti al 15 e alla fine di ciascun mese, entro sette giorni dal termine di ogni quindicina. Le denunce dovevano essere presentate al Consiglio provinciale delle corporazioni nella cui giurisdizione era situato lo stabilimento, il deposito o il locale dove si trovava la merce2.
Dalla lettura dell'articolo relativo a "Il Censimento delle lane e del cotone", pubblicato dal "Bollettino della Laniera" del 31 maggio, in cui si commenta questa legge, si evince però che lo scopo del Ministero delle Corporazioni, che formulò il modulo e lo schema che gli industriali e i detentori di lana o prodotti contenenti lana dovevano obbligatoriamente compilare, non era finalizzato solo al censimento di questi prodotti, ma tendeva a metter sotto controllo tutto il comparto industriale e commerciale, che aveva come oggetto la commercializzazione e la trasformazione in manufatti tessili delle lane e dei suoi sottoprodotti, sia di pettinatura, di filatura e di tessitura.
Il 16 giugno 1940 il prefetto - in questo caso quello di Vercelli - in riferimento al decreto legge del 18 maggio, riguardante la denuncia obbligatoria della lana destinata ad usi industriali o commerciali, decretò che le quantità, da chiunque detenute, di lane in fiocco, saltate, lavate, pettinate, di concia o di qualsiasi altra natura, di stracci, di cascami di lana, nonché di filati di lana, anche se misti, non potevano essere cedute né messe in lavorazione se non previa autorizzazione del prefetto - presidente del Consiglio provinciale delle corporazioni.
La predetta autorizzazione si precisava che sarebbe stata rilasciata soltanto quando la ditta detentrice o la ditta acquirente dei prodotti sopracitati avesse dimostrato di dover effettuare forniture militari od esportazioni.
Un ulteriore chiarimento su questo divieto stabilì che le lane, i cascami di lana, gli stracci di lana, anche se misti, soggetti alla denuncia prevista dalla legge 431, non potevano essere ceduti a terzi né sottoposti a trasformazioni che andassero "oltre il nastro pettinato greggio per la filatura cardata". Praticamente con questo provvedimento si sancì che la lana e i suoi sottoprodotti potevano essere utilizzati solo nella fabbricazione di manufatti per le amministrazioni militari o per l'esportazione3.
Il 6 luglio 1940 il Governo, le cui decisioni in campo economico erano sempre più condizionate dalla guerra, dovendo far fronte al fabbisogno di prodotti tessili per la popolazione, predispose un disegno di legge che integrava le norme sulla disciplina delle miscele di fibre autarchiche nei prodotti tessili destinati ai mercati interni e affidava il controllo sull'impiego di queste fibre all'Ente del tessile nazionale, il cui presidente era il biellese conte Vittorio Buratti della Malpenga, un propugnatore dell'autarchia tessile italiana.
Che gli industriali lanieri e i commercianti di questo comparto merceologico non fossero soddisfatti del decreto che imponeva loro di usare la lana e i suoi sottoprodotti solamente nella fabbricazione di manufatti per le forze armate, lo si può dedurre dal fatto che - come scriveva il "Bollettino della Laniera" del 19 luglio - i prefetti del regno, pochi giorni dopo la pubblicazione del disegno di legge, dovettero diramare un'altra ordinanza a modificazione e a integrazione delle norme per l'utilizzazione della lana esistente.
Infatti, con questa ordinanza il prefetto accordò la "facoltà" alle aziende che lavoravano la lana, i cascami, gli stracci di lana e i filati di lana, anche se misti, di continuare a impiegare tali materie prime semilavorate, nella fabbricazione di articoli destinati alle amministrazioni militari; e il Ministero delle Corporazioni - su richiesta delle ditte interessate, da presentarsi secondo le modalità prescritte - autorizzò l'impiego di determinati quantitativi di lana e di cascami o di stracci per la produzione di articoli tecnici, di filati o di tessuti destinati al consumo civile. Inoltre l'ordinanza abrogò il divieto di cedere a terzi o di utilizzare filati di lana tinti o di colore naturale, già preparati, ed esistenti in commercio, per la vendita al pubblico4.
Un successivo e decisivo passo verso la completa economia di guerra venne col blocco dei prezzi delle merci e dei servizi, entrato in vigore il 30 luglio 19405.
Ma non era ancora archiviata la questione sull'impiego delle lane e dei suoi sottoprodotti che al Ministero delle Corporazioni venne sollevata quella riguardante i passaggi, tra le categorie dei commercianti e degli industriali, delle lana, dei cascami e degli stracci di lana. In particolare questa richiesta venne avanzata dagli industriali, i quali chiesero di poter acquistare da terzi le materie prime che era loro consentito lavorare per produrre dei filati, ma anche degli stracci e dei cascami che normalmente venivano acquistati da raccoglitori e commercianti. Verso la fine di agosto il Ministero, dopo aver esaminato il problema e tenuto conto delle sfavorevoli conseguenze derivanti da una rigida applicazione del divieto di cessione, specie per gli stracci e i cascami, stabilì che la cessione fra commercianti e fra questi e gli industriali della lana greggia, come pure degli stracci e dei cascami di lana, anche se misti, poteva essere effettuata senza alcuna speciale autorizzazione, anche se la materia prima non era destinata a lavorazioni per conto delle amministrazioni militari. Però - precisava la disposizione ministeriale riportata nel "Bollettino della Laniera" del 30 agosto - sia chi spediva la merce, sia chi la riceveva, doveva dare comunicazione al Consiglio provinciale delle corporazioni competente dell'avvenuta spedizione e del ricevimento. Colui che riceveva la merce doveva altresì unire una dichiarazione con la quale si impegnava ad osservare la disposizione sul divieto di utilizzazione della lana. Analogamente, per quanto riguardava la cessione dei filati tra industriali filatori e industriali tessitori, dovevano essere osservate le stesse modalità.
La disposizione rese meno rigida la circolazione di una materia prima povera, ma preziosa, aprì però la porta anche a possibilità di aggiustamenti tra commercianti e industriali.
Il 21 ottobre, sempre in relazione ad alcune proposte della Confederazione fascista degli industriali e vista l'opportunità di venire incontro alla necessità dell'industria e delle relative maestranze, il Ministero delle Corporazioni, con la circolare numero 7.345, autorizzò l'utilizzazione di filati di lana pettinati contenenti non oltre il 25 per cento di lana, di filati cardati contenenti non oltre il 30 per cento di lana, di filati di lana fantasia e bouclé, di filati di lana di qualsiasi qualità e titolo esistenti nei maglifici, calzifici, in quantità inferiore, per ciascuna qualità e titolo, a 100 Kg. L'utilizzazione o la cessione di detti filati si precisò che era subordinata a formale autorizzazione, da accordarsi, caso per caso, dai consigli provinciali delle corporazioni. A questo punto il possessore di filati in parola per poterli utilizzare doveva adempiere a diverse formalità burocratiche, che erano la conseguenza della pesante bardatura burocratica dello Stato corporativo fascista, che, con i suoi vincoli e i suoi controlli, gravava sempre più sull'attività degli imprenditori.
Questo era l'iter che un industriale o un commerciante del settore laniero doveva seguire se voleva attenersi a quel provvedimento. Egli doveva presentare regolare domanda in bollo (47 lire) al Consiglio provinciale delle corporazioni competente per territorio, indicando specificamente la quantità e la specie delle materie prime e dei filati che intendeva fossero esclusi dal divieto di utilizzazione; copia in carta libera della stessa domanda doveva essere inviata all'Ente del tessile nazionale, incaricato del controllo di questa operazione6.
A questo punto possiamo porci una domanda: come potevano gli industriali lanieri uniformare il ciclo produttivo delle loro aziende a tutti quei vincoli e quelle disposizioni che, se attuate alla lettera, avrebbero condizionato pesantemente l'attività delle loro industrie? Basti solo pensare alle domande che dovevano presentare, nei tempi e nei modi prescritti, al Consiglio provinciale delle corporazioni e all'Ente del tessile nazionale, e ai tempi che avrebbero richiesto le risposte. Cosicché gli industriali, anche quelli più rispettosi delle leggi, a causa delle lungaggini burocratiche furono costretti ad arrangiarsi: nel senso che inoltravano la domanda e non aspettavano la risposta. Tanto più che il rischio di un controllo affidato a funzionari dell'Ente tessile nazionale, equiparati, limitatamente a tale scopo, a ufficiali giudiziari, era improbabile, oltre che complesso, perché i tempi e le procedure passavano - a voler agire seriamente - attraverso il prelievo di campioni, la loro analisi e, in caso di reità, alla denuncia all'autorità giudiziaria.
Della impossibilità di applicare questa disposizione dovette rendersi conto anche il Ministero delle Corporazioni, il quale, il 16 novembre - pur confermando che le ditte interessate ad ottenere lo sblocco dei filati di lana dovevano osservare la stessa formalità -, dispose che, in relazione ad altre proposte formulate dalla Confederazione fascista degli industriali, "la ditta non poteva mettere in lavorazione nessuna partita di filati compresa tra quelle per la quale domandava lo sblocco", fino a quando non era avvenuta tale comunicazione7. Si noti: non dopo che era stata concessa l'autorizzazione. Praticamente questa precisazione legittimava il comportamento degli industriali, che divenivano liberi di operare non appena presentata la domanda.
Pene severe erano infine previste per "inadempimenti" riguardanti le forniture militari: commesse distribuite dalla Confederazione fascista degli industriali per la cui assegnazione, in campo laniero, svolse un ruolo determinante la Federazione nazionale fascista degli industriali lanieri, i cui dirigenti, allo scoppio del conflitto, erano i biellesi Leone Garbaccio, presidente, e Oreste Rivetti, vicepresidente8.
Un "Bando del Duce", pubblicato nella "Gazzetta Ufficiale" del 28 aprile 1941, prevedeva che chiunque non avesse adempiuto agli obblighi che gli derivavano "da un contratto di fornitura o di appalto faceva mancare, in tutto o in parte, cose od opere destinate ai bisogni delle forze armate dello Stato", sarebbe stato punito con la reclusione da tre a quindici anni. Se poi dalla frode derivava "grave nocumento alla salute dei combattenti ovvero alle operazioni militari, la pena era dell'ergastolo e se ricorre[vano] inoltre circostanze di particolare gravità, della morte con degradazione"9.
Il controllo dei prezzi
Circa i prezzi corporativi delle lane nazionali gregge, lavate e pettinate, nelle finezze dal 40s al 70s, da servire di base per le forniture delle forze armate, essi vennero stabiliti sul finire di ottobre dal Ministero delle Corporazioni. I prezzi dei filati e dei manufatti furono invece determinati dall'amministrazione militare10.
All'inizio di novembre del 1940 la Confederazione degli industriali, d'accordo con il Ministero delle Corporazioni, decise di accertare le scorte di tessuti e di manufatti tessili per abbigliamento civile esistenti nelle aziende; parallelamente analoga indagine venne condotta dalla Confederazione fascista dei commercianti per le giacenze esistenti nelle ditte commerciali. Dalla Federazione dei lanieri venne predisposto un modulo che le ditte dovevano restituire, anche se negativo, sottoscritto dal titolare della ditta o da un suo procuratore. La denuncia aveva carattere obbligatorio e severi provvedimenti disciplinari sarebbero stati presi a carico delle ditte inadempienti.
Dovevano essere rilevate le scorte di tessuti per abiti di lana o misti per uomini e per donne in metri lineari. La voce "tessuti per abiti" comprendeva anche le stoffe per mantelli, cappotti, pantaloni e simili. Nella rilevazione si dovevano includere anche i tessuti in greggio da sottoporre ancora ad operazioni di rifinitura. La voce "lana" comprendeva anche la lana rigenerata e i cascami di lana. A scanso di erronee interpretazioni, la Confederazione fascista degli industriali avvertì che l'indagine aveva carattere puramente precauzionale e non preludeva a "immediati provvedimenti di razionamento dei consumi degli articoli rilevati"11.
Non ci sono elementi per stabilire la connessione tra questa indagine e il fenomeno della "borsa nera" - ossia la vendita di prodotti a prezzi superiori a quelli stabiliti dal blocco dei prezzi -. Comunque il Ministero delle Corporazioni nei primi giorni di gennaio del 1941 inviò ai comitati provinciali delle corporazioni questo telegramma: "Nonostante ripetute segnalazioni e istruzioni date da questo Ministero, devesi ancora constatare che ai prodotti dell'abbigliamento e delle calzature vengono praticati prezzi fortemente superiori a quelli consentiti in base alle disposizioni di legge di blocco"12.
Il 16 marzo 1941 il Ministero delle Corporazioni, con decreto, fece obbligo alle ditte produttrici di tessuti, maglierie e di calzature di procedere alla fabbricazione dei prodotti tipo da destinare alla popolazione, utilizzando non meno del 75 per cento delle materie prime tutte autarchiche (raion superlena, fiocchi cisalfa, due delle fibre artificiali più utilizzate durante l'autarchia) e i loro sottoprodotti, di cui erano in possesso o di cui si sarebbero riforniti in seguito.
Con lo stesso decreto venne vietata la vendita alle ditte produttrici e ai commercianti all'ingrosso di tessuti di cotone e di lana, sia puri che misti, con più del 20 per cento di cotone e di lana. Inoltre sia le ditte che i commercianti entro sette giorni dovevano denunciare, attraverso le organizzazioni di categoria al Consiglio provinciale delle corporazioni i quantitativi dei tessuti suddetti in loro possesso, distinguendoli per qualità ed indicando se fossero impiegati per esportazione, commesse militari, o per il consumo interno13.
Un passo decisivo per il completo controllo del settore laniero, sia nel campo della produzione che in quello dei prezzi, venne compiuto dal Ministero delle Corporazioni con la circolare del 18 agosto 1941, in cui si indicavano i prezzi massimi dei tessuti tipo "franco fabbrica, pagamento 30 giorni, sconto 2 per cento", e i prezzi massimi di vendita al consumatore da riportarsi sul cartellino o sulla cimossa dei tessuti. Esempio: "tessuto pettinato per abito da uomo con antipiega, altezza cm 140, peso grammi 320-350, composto di tutto raion superlena, titolo base 2/48 in catena e in trama: prezzo al metro lire 31,55 franco fabbrica, lire 47,35 al consumo"14. Il provvedimento di fissare i prezzi alla produzione e al consumo per gli industriali lanieri fu una novità dato che i prezzi dei tessuti prodotti dalle loro aziende erano stabiliti dal mercato.
Ma se ancora non fosse bastato in fatto di controllo, le maggiorazioni di prezzo tra quello franco fabbrica e quello al consumo concesso dal Ministero delle Corporazioni sui tessuti tipo, secondo la Federazione di categoria, dovevano essere così ripartite: "Lanerie, drapperie, ed altri tessuti con un margine complessivo del 50 per cento, al grossista 13 per cento, al dettagliante 37 per cento"15.
Un ultimo esempio di coercizione burocratica - fra i tanti che si potrebbero citare - cui le industrie che lavoravano la lana vennero assoggettate da quel coacervo di leggi, ordinanze, disposizioni, circolari, decreti emessi, impartiti da ministeri, confederazioni, federazioni, enti, commissioni, riguardava la "modalità per la tenuta dei registri delle esistenze delle lane e dei filati". Uno schema che, secondo l'Ente nazionale del tessile, che diede questa disposizione, doveva essere compilato e aggiornato in questo modo: nel registro delle materie prime ogni foglio doveva essere intestato ad ogni materia prima e la classifica adottata era analoga a quella dell'indagine mensile sulle esistenze. Dalla registrazione erano escluse le fibre autarchiche e le materie prime in corso di lavorazione dovevano essere scaricate fino a che non si fosse provveduto alla registrazione di carico nel registro filati, dove dovevano essere elencati in base alle sei categorie, suddivise in filati pettinati, cardati e di altro genere, a loro volta ripartiti in pura lana e misti. La data di partenza della registrazione di carico era quella del 1 gennaio 1941 e per tale giorno dovevano essere elencati i quantitativi esistenti nei singoli stabilimenti. Per i filati già in corso di lavorazione per la tessitura alla data del 1 gennaio si doveva effettuare la contemporanea registrazione di carico e scarico. Per il Ministero delle Corporazioni, che aveva approvato quei registri, essi dovevano essere tenuti costantemente aggiornati ed essere esibiti ad ogni richiesta dei funzionari dell'Ente tessile nazionale16.
La disposizione cui ho fatto cenno, e altre come questa, le cui modalità di attuazione, oltre a costare non poco, erano poco chiare, se non inapplicabili, fu anche causa di un contenzioso fra gli organi di controllo e le aziende controllate. Significativa a questo riguardo la sentenza pronunciata nel febbraio del 1942 dal pretore di Biella in una causa che vedeva il ragionier Guido Grosso, amministratore delegato del Lanificio Agostinetti e Ferrua, opporsi al decreto che lo condannava a pagare una multa di 5.000 lire per non avere - stando agli accertamenti della Guardia di finanza - prodotto tessuti tipo nei termini stabiliti dalla legge.
Nel dibattimento il difensore, avvocato Camillo Paolo Corte, dopo aver esibito i libri di carico e scarico, da cui risultava che in data 22 gennaio la produzione della ditta Agostinetti e Ferrua era stata dell'83 per cento di tessuto tipo e 17 per cento di tessuto libero, sostenne che la ditta non aveva in alcun modo violato la legge, dato che nel decreto legge del 16 marzo 1941 non era stabilita l'esatta proporzione del 75 per cento di tessuto tipo in ogni momento della produzione: per cui - secondo l'avvocato Corte - la ditta avrebbe potuto uniformarsi alle disposizioni di legge purché, in un ciclo di produzione non troppo lungo, avesse osservato la proporzione fissata dalla legge rispettivamente del 75 per cento per i tessuti tipo e del 25 per cento per i tessuti liberi. Il pretore - come scrisse "Il Popolo Biellese" del 2 marzo -, accolse tale tesi, confortata dalla più ampia documentazione ed assolse il ragionier Grosso con formula piena, in quanto il fatto addebitatogli non sussisteva.
Nel corso della guerra, ai provvedimenti che ho testé elencato, ne seguirono altri non meno importanti, altrettanto particolareggiati, quanto complicati nella loro applicazione.
Con il tesseramento dei manufatti tessili e delle calzature, decretato a partire dal 23 ottobre del 194117, che seguiva quello dei generi alimentari e quello di altri beni di largo consumo, l'esasperato e burocratico controllo, che regolava il processo produttivo dell'industria laniera e non, venne esteso alla distribuzione e al consumo.
In questi settori i risultati furono disastrosi, perché il mercato nero, parallelo a quello legale, assunse dimensioni allarmanti, malgrado l'inasprimento delle pene per i trasgressori, fino a giungere, nell'aprile del 1943, all'istituzione di "campi di concentramento" per "colpire gli speculatori ed i traditori anche nel settore annonario"18.
Ma anche all'interno del mondo industriale la politica della regolazione centralizzata del sistema produttivo non fu priva di conseguenze di diversa natura e portata, che possiamo in prima istanza individuare nel modo seguente, anche se ciascuna di tali conseguenze andrebbe meglio verificata. La prima conseguenza, in parte già assodata dalle cose sopra dette, fu che il sistema di regolazione, insieme corporativo e autarchico, non poteva essere preso alla lettera pena il blocco dell'attività produttiva, che subì un notevole calo, dopo una effimera ripresa nel periodo della non belligeranza e nella fase iniziale della guerra. La seconda conseguenza fu la ricerca affannosa di strade per aggirare i vincoli: da una parte ricorrendo al mercato nero con l'immissione clandestina di prodotti attraverso i quali recuperare i maggiori costi e difendere i profitti, falciati per effetto dei prezzi controllati. La terza fu la crescente distanza che si determinò dentro il gruppo degli industriali tra chi aveva accesso alle commesse statali e militari, e chi stava ai margini o era escluso dall'unica attività veramente remunerativa.
Si aprì dentro a questo mondo, apparentemente compatto, una contraddizione che trovò la sua radice nella difesa di interessi che obiettivamente divergevano e che per la maggioranza degli imprenditori non coincidevano ormai con gli interessi del regime.